Pagani di Susinana
Famiglia nobile della Romagna; fonti archivistiche e notizie cronistiche concordano nella testimonianza sulle antiche origini e sulla movimentata attività politica di questa stirpe ghibellina.
Fra Salimbene da Parma la ricorda - primo fra i cronisti - solo nel 1266, là dove caratterizza, sia pure con rapidi cenni, la personalità bellicosa di un Pietro di Pagano che " in montibus ... ex parte imperii magnus erat, famosus et nominatus, et doctus ad bellum "; tuttavia, una documentazione certa si ha già a proposito del bisavolo di questo Pietro, Pagano, detto da Posterla dal nome della più importante fra le rocche da lui possedute. In una carta del 1185 egli, infatti, è ricordato tra i feudatari dell'Appennino tosco-romagnolo accorsi a dare man forte al vicario imperiale Bertoldo contro la crescente potenza del comune di Faenza; già in quel torno di tempo egli era signore di numerosi castelli situati sui due versanti della catena appenninica, fra i quali, oltre Posterla, quello di Susinana in val di Senio da cui avrebbe poi tratto la denominazione più nota la sua discendenza. Località, quest'ultima, che, come riferisce il Lami, era stata concessa in feudo agli avi di Pagano dalla Mensa episcopale fiorentina, alla quale era stata donata nel sec. X dagli Ubaldini. Alcuni eruditi (fra cui il Mittarelli) ritennero, ma a torto, di poter riconoscere tra gli ascendenti di questo Pagano un Pietro di Pagano citato in due carte fiorentine del 1045 e del 1080. Tuttavia, autorevole documento della già solida potenza conseguita dai P. alla metà del sec. XII è il diploma emanato (Castrocaro 1160) dall'imperatore Federico I a favore dei monaci dell'abbazia di Crespino sul Lamone, per esentarli dalle giurisdizioni del comune di Faenza e dei baroni del contado circonvicino; fra questi ultimi, i P. sono citati con notevole rilievo. Più tardi, gli statuti di Faenza attribuirono ai membri di questa casata la qualifica di magnati, e li annoverarono fra i ghibellini. Fra il XII e il XIII secolo un figlio del già ricordato Pagano da Posterla, Pietro, insieme col figlio di lui, Pagano, e col nipote ex filio, un altro Pietro, presero parte attivissima alla lotta contro Faenza - intenta, a sua volta, a rendere libere le vie appenniniche dalla pericolosa presenza dei bellicosi dinasti feudali -; nel rievocare le vicende di quei dinasti, le cronache li descrivono talvolta umili dopo le sconfitte, ma pur sempre tesi a procurarsi rivincite sanguinose. Fino a quando (1308) le milizie faentine non riuscirono a piegarne definitivamente l'orgoglio devastandone le terre e diroccando i fortilizi di Susinana e di Castiglionco. Alla resa seguì l'inurbamento e quindi la sempre più pesante intromissione dei P. nelle lotte politiche cittadine. In Faenza e in Imola essi contrastarono le mire espansionistiche di Bologna, le cui milizie, nel 1254 e nel 1263, ne resero, a loro volta, vani i tentativi di signoria su Imola; contro i Bolognesi, i P. adottarono una condotta politica ardentemente ghibellina, nell'intento di cacciare i guelfi dalle due città romagnole, onde farsene stabilmente signori. Quest'ultimo obiettivo fu conseguito fra il Due e Trecento dal figlio di Pietro di Pagano, Maghinardo, il personaggio più noto e rappresentativo della casata, la cui spregiudicata azione politica e militare (come di un demonio) è biasimata da D. nella Commedia (If XXVII 49-51, Pg XIV 118-120).
I dati biografici a noi noti a proposito di questi personaggi permettono, tuttavia, di delineare con maggiore aderenza alla realtà della situazione storica in cui essi operarono il comportamento politico dei P. che D., invece, condanna con severo giudizio moralistico, come opportunistico mutamento da la state al verno, rimproverando a essi - ma specialmente a Maghinardo - gli spregiudicati passaggi dalla parte ghibellina alla guelfa e, più ancora, l'adesione agl'interessi di Firenze guelfa pur mentre si comportavano come accesi ghibellini nella situazione politica romagnola. In questo loro comportamento sembra, invece, di poter individuare un fattore di coerenza nell'intento di consolidare la compagine dei possedimenti feudali difendendola contro gli appetiti dei Guidi e degli Ubaldini, e, al tempo stesso, tentandone l'ampliamento a spese dei comuni romagnoli (al momento della maggiore espansione - fine sec. XIII - essa si estendeva nel territorio degli odierni comuni e frazioni di Palazzuolo di Romagna, Marradi, Casola Valsenio, Tossignano, Castel del Rio, Firenzuola, Cotignola, Mordano), fino a diventare signori di Imola e di Forlì. La realizzazione di queste mire signorili postulava, nel quadro politico romagnolo del tempo, una sostanziale fedeltà al ghibellinismo, che fu solo apparentemente contraddetta dagli episodici tatticismi filoguelfi. Le ripetute sconfitte subite, unitamente all'intrinseca debolezza inerente alla compagine feudale che costituiva la base della loro potenza - compagine territorialmente frammentaria ed economicamente debole - obbligò ben presto i P. a cercare l'appoggio di Firenze, le cui forze militari e le cui strutture statuali, in conseguenza dell'espansione dal Mugello verso il crinale appenninico, erano arrivate a diretto contatto con i possedimenti più importanti di quei feudatari, costituendo per i loro domini un'altra - e ben più temibile - potenziale minaccia, proprio mentre essi s'impegnavano con tutte le forze disponibili nelle lotte politiche cittadine in Imola e in Forlì. La garanzia costituita dall'amicizia e dalla protezione di Firenze era necessaria ai P. anche contro i Guidi e gli Ubaldini, sostanzialmente nemici nonostante le frequenti alleanze matrimoniali e i contingenti accordi politici. E fu proprio allo scopo di ottenere quella protezione a vantaggio del figlio Maghinardo ancora bambino che Pietro di Pagano, morendo in data incerta sul volgere del sec. XIII, legò le sorti della sua discendenza agl'interessi della potente città toscana. Giovandosi di questa situazione, e rendendo ancora più stretti i legami con Firenze, Maghinardo poté ancor meglio impegnarsi nell'attuazione del disegno politico perseguito dai suoi, assicurandosi durevolmente la signoria su Imola e su Faenza. Nella misura in cui contribuiva a perpetuare il particolarismo romagnolo contro le ambizioni egemoniche di Bologna e contro lo sforzo unitario dei legati pontifici, quel disegno coincideva anche con gl'interessi di Firenze, tesa a sua volta a impedire che al confine appenninico del suo dominio si consolidassero formazioni politiche efficienti e potenzialmente avverse.
L'auspicio dantesco, di un ritorno dei P. al ‛ ben fare ' quando fosse scomparso Maghinardo dalla scena politica romagnola, non si realizzò, soprattutto a causa del rapido estinguersi, già nella prima metà del Trecento, dei rampolli maschi di quella casata. Oltre a Maghinardo, Pietro di Pagano aveva avuto altri tre figli - Bonifazio, legittimo; Ugolino e Pagano, naturali - e una femmina, Lieta. Sposando Guido degli Accarigi, signore di Ghiazzano, quest'ultima era uscita dalla famiglia già avanti la morte del più famoso fratello (27 agosto 1302), il quale, tuttavia, le lasciò in eredità la metà dei feudi di Calamello e di Cavina; ma a quella data i fratelli Pagano e Bonifazio erano già morti.
Del primo il cronista Pietro dei Cantinelli data la scomparsa col 1274, ma sbagliando, perché Bonifazio avrebbe ottenuto la cittadinanza di Imola nel 1298; tuttavia, è certo che egli premorì a Maghinardo, che non lo nomina nel suo testamento. Il secondo - marito (1256) di Margherita di Guido Guidi di Modigliana - fu ucciso in combattimento nel 1273, mentre difendeva il ponte di Galisterna contro i Manfredi. Il terzo fratello di Maghinardo, Ugolino, detto l'" abate " per il suo stato ecclesiastico, gli sopravvisse (il Cantinelli, commettendo ancora un errore, lo dice morto nel 1296) e da lui ricevette in eredità i feudi e gli allodi di Gambarello e di San Martino in Gattara. Da Bonifazio nacquero due figli: Bambo - l'ultimo erede legittimo dei P. -, che, tuttavia, premorì anch'egli a Maghinardo (1279), sepolto dalle macerie del suo palazzo di Castiglione rovinato da un terremoto; e Albiera (morta circa nel 1317), la quale, andata sposa (1280) a Giovanni di Ugolino degli Ubaldini da Senni, portò alla famiglia del marito l'eredità ricevuta nel 1302 dallo zio, consistente nei feudi di Castelpagano, Valmaggiore, Montigno, Bibbiana, Vezano e Piedimonte. Ultimo dei maschi di questa stirpe si spense, verso la metà del Trecento, Bandino figlio di Pagano, il fratello naturale di Maghinardo. Anche costui aveva intrapreso con fortuna la carriera ecclesiastica (fu priore di Popolano), ma, quantunque il clero imolese lo avesse eletto vescovo nel 1299, non venne confermato dal papa Bonifazio VIII, onde impedire che in quella diocesi si avesse la pericolosa unione del potere politico col religioso in una persona che, per giunta, era di parte ghibellina. A questo nipote Maghinardo lasciò in eredità i feudi e gli allodi di Fontanamoneta, Fernacciano, Piandicastello, Grimenteria, Gualfedusa, Calamella, Cavina e Camarano.
Il rapido estinguersi dei rami collaterali - specialmente di quello legittimo derivante da Bonifazio - obbligò Maghinardo a dividere fra le sue due uniche figlie femmine, Andrea e Francesca, la porzione più consistente del patrimonio e dei domini aviti, che, in tal modo, andarono a confondersi con quelli delle potenti consorterie feudali in cui le due donne erano entrate per matrimonio; determinandosi, così, la dispersione della forte compagine feudale dei P. insieme con la fine della stirpe che l'aveva posseduta.
Andrea, infatti, fu moglie di Ottaviano di Azzo degli Ubaldini - dal quale ebbe un Maghinardo e una Marzia (o Cia), poi andata sposa a Francesco Ordelaffi, signore di Forlì -; Francesca sposò (1301) Francesco di messer Orso Orsini. Alla prima il padre lasciò le rocche e i feudi più importanti di Susinana, Cepeda, Montebovaro, Capanaria e Crespino; più tardi questo patrimonio sarebbe stato assorbito nel dominio fiorentino in seguito alla cessione fatta da Maghinardo Ubaldini di tutti i suoi possedimenti. A Francesca (e quindi agli Orsini) egli legò i castelli, i diritti feudali e i beni allodiali di Benclaro (Sant'Adriano), Gattara, Popolano, e Montemaggiore, oltre al palazzo di Faenza.
I P. usarono come stemma un leone rampante, d'azzurro, linguato e armato di rosso, in campo d'argento (il lioncel dal nido bianco ricordato da D., If XXVII 50).
Bibl.-La vicenda genealogica dei P. fu ricostruita criticamente da L. Passerini, autore della tavola P. di Susinana, in P. Litta, Famiglie celebri italiane, Milano 1875; più breve e concisa la voce dedicata a essi da A. Campana, in Enc. ital. XXV 923, valendosi delle ricerche pubblicate dopo il 1875 da studiosi dell'attività politica di Maghinardo e, particolarmente, dell'opera di P. Beltrami, Maghinardo P. di Susinana, Faenza 1908, nella quale sono ampiamente citate le cronache (Villani, Azzurrini, Salimbene, Cantinelli, Tolosano) e i documenti relativi ai P. così come le tesi sostenute dagli eruditi (Ferri, Tonducci, Mittarelli, Lami, Borghini, Del Migliore) a proposito delle origini dei Pagani. Per la biografia degli ultimi esponenti di questa casata si veda anche Il testamento di Maghinardo P. da Susinana, in S. Gaddoni, Studi danteschi (a c. della R. Deputazione St. Patria Province Romagna), Bologna 1921, 63-88). Alle località della Romagna toscana nelle quali sorsero i castelli appartenuti ai P. sono dedicate voci del Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, di E. Repetti, Firenze 1833-1845; per Susinana, cfr. il saggio di L. Baldisseri, Il castello di Susinana, in Il VI centenario dantesco, IV 2, 40 ss.; per l'inserimento dei P. nella storia della Romagna, di Faenza, di Imola e di Forlì, si veda la bibliografia annessa alle voci relative a quelle città.