PACIFICO da Verona
PACIFICO da Verona. – Visse a Verona tra la fine dell'VIII e la prima metà del IX secolo ed era originario di Quinzano, località nella periferia nordoccidentale della città.
Come per molti chierici altomedievali non si hanno informazioni sul nome dei suoi genitori. Una carta datata all’844, ma conservata solo in una copia del XII secolo, menziona una sorella di nome Ansa. Prima diacono e poi arcidiacono della Chiesa veronese (tra 806 e 809), la sua azione è attestata da due documenti in originale, datati rispettivamente all’809 (ChLa, LV, n. 2) e all’814 (LX, n. 19, dove tuttavia non si trova più traccia della sua sottoscrizione) concernenti l'attività patrimoniale dell’episcopio di Verona, nelle quali la sua presenza è limitata alla sottoscrizione autografa Pacificus Veronensis ecclesiae archidiaconus: le caratteristiche del ductus di quest’ultima confermano la sua origine culturale locale (Zamponi, 1995). Le sue attestazioni si interrompono fino all’826, anno in cui un Pacificus è attestato tra i monaci del monastero di S. Silvestro di Nonantola; l’ultimo atto noto è il carteggio, databile all’840, tra Pacifico, il prete veronese Vitale e il monaco Ildemaro di Corbie, dove egli discute le opinioni eterodosse sulla predestinazione, diffuse a quel tempo nella Venetia dal monaco Gotescalco di Orbais. Nell'845 la carica arcidiaconale a Verona risulta ricoperta da Audone (I placiti del regnum Italiae, I, n. 49, pp. 160-169). Egli operò dunque nel periodo successivo alla conquista franca del regnum Langobardorum del 774, durante i regni di Pipino, Ludovico il Pio e del figlio Lotario, nel faticoso e contraddittorio periodo di elaborazione e compimento delle riforme in campo amministrativo, religioso e territoriale che interessarono l’Impero carolingio (Airlie, 2012).
Il corpus documentario relativo a Pacifico si compone inoltre di altre 8 carte (CDV, I, doc. 95, a. 811 (copia dell'inizio dell'XII secolo); doc. 101, a. 813 (copia della fine XI secolo - inizio XII secolo); doc. 102, a. 813 (copia inizio XII secolo); doc. 104, a. 813 (non esiste l'originale, ma è citato in un documento del 1140: Venturini, 1929, pp. 153-155); doc. 147, a. 837 (manca l’originale; trascritto nel XVI secolo da Panvinio, I, 1648, pp. 33-35); doc. 174, a. 844 (copia del XIII secolo); doc. 176, a. 844 (manca originale, trascritto da Dionisi, 1758, pp. 75-77), e di una doppia epigrafe funeraria, che l’analisi paleografica e diplomatistica permette di classificare come documenti falsificati o fortemente interpolati nel corso del XII secolo, volti a presentare Pacifico come antenato legittimante del Capitolo cattedrale di Verona nel contesto delle tensioni tra quest’ultimo e il Comune veronese. Anche le iscrizioni funerarie, per i caratteri stilistici, paleografici e testuali devono essere riferite al periodo compreso tra XI e XII secolo (La Rocca, 1995). La vicenda di Pacifico permette di osservare che sull’età carolingia a Verona si riversarono – in tempi e modi diversi – le ansie di legittimazione del presente, creando un momento perfetto nella storia della città, totalmente fittizio. Pacifico è perciò il protagonista di due narrazioni biografiche e interpretative parallele – quella ricostruibile attraverso le fonti originali del IX secolo e quella integrata dai documenti falsi.
Se integrata dai falsi, la vicenda di Pacifico e di Verona si dipana senza contrasti poiché le carte falsificate permettono di ricostruirne il profilo dagli esordi nella carriera ecclesiastica fino alla morte; valutarne l'estensione del patrimonio fondiario, coglierne gli interessi e le molteplici attività. Dalla sua epigrafe funeraria saremmo pure informati del suo anno di nascita, della lunghezza della sua vita, del giorno della sua morte. Nel contesto culturale e politico relativo alla definizione di ruoli e di rapporti tra aristocrazia funzionariale franca e società locale, Pacifico, di origini longobarde, parrebbe bene inserito all'interno della città e ben collegato all'establishment carolingio ricoprendo, se non una carica politica, una importante funzione all'interno della gerarchia ecclesiastica, quella di archidiaconus nella scola sacerdotum veronese, istituita nell'813 dal vescovo di origine alamanna Ratoldo. Per merito di Pacifico, la carica arcidiaconale avrebbe acquisito una valenza coordinatrice tra il polo locale e il polo pubblico della città. Egli esercitò un'intensa attività all'interno dello scriptorium della scuola: gli studi più recenti gli attribuiscono una ventina di codici di argomenti svariati, da quelli più immediatamente relativi alla pratica liturgica, a dissertationes di argomento teologico, di cui egli stesso sarebbe stato autore o semplice copista (Witt, 2012, pp. 42-54). Pacifico sarebbe dunque un intellettuale longobardo, calato nel clima di fervore religioso e culturale della prima età carolingia, oltre che simbolo della sintesi etnica tra l'aristocrazia di origine longobarda e dei funzionari franchi di recente immigrazione. Il suo esordio nella vita religiosa, ma anche politica della città, sarebbe relativo al 798, quando ancor giovane diacono, sarebbe stato scelto come campione delle ragioni della pars ecclesiae contro la pars publica della città in un giudizio di Dio, volto a stabilire la quota di partecipazione ecclesiastica ai restauri delle mura della città, promossi da Carlo Magno per difendere Verona dalle scorrerie degli Avari: un terzo delle spese, secondo la parte pubblica, soltanto un quarto, come per consuetudine, secondo la pars ecclesiae (CDV, I, doc. 147, a. 837). Nell'ordalia del 798, Pacifico sarebbe risultato vincitore, avendo resistito alla defatigante prova di assistere, con le braccia aperte a croce, alla lettura della lunghissima Passio di s. Matteo, mentre il suo avversario Aregaus, il campione pubblico, era crollato esanime al suolo. Pacifico partecipò in seguito ad alcune delle tappe del consolidamento del patrimonio e del prestigio della scola di Verona, sia all'interno della città, sia sul territorio. Nell'809 egli compare nella lista dei testimoni all'atto con cui il vescovo Ratoldo e il conte Hucpaldo donarono i beni del defunto conte Hadumar alla chiesa di S. Pietro de castro (ChLA, LV, n. 2). Nell'811, in un documento datato in realtà «anno siquidem vivifice incarnationis Ihesu Christi DCCCXL indicione IIII», figura insieme con il vescovo Ratoldo come attore di una carta in cui entrambi sottopongono alla chiesa di S. Pietro in castro la «capellam sancti Bartolomei apostoli in eodem monte eiusdem castri scitam» affinché la cappella e i suoi redditi divenissero patrimonio del capitolo veronese. Nella carta il vescovo Ratoldo afferma di aver agito per consiglio divino e «dilecti archidiaconi nostri Pacifici suggerente benevolencia» (CDV, I, doc. 95). Nell'813 Pacifico è testimone in entrambi gli atti, datati 24 giugno, con cui il vescovo Ratoldo istituì ufficialmente la scola sacerdotum veronese dotandola di una propria e specifica sede, di redditi e beni separati da quelli vescovili: con queste carte il clero veronese si sarebbe spontaneamente dotato dello stesso apparato organizzativo adottato tre anni più tardi in seguito al Concilio di Aquisgrana nell'816 (CDV, I, doc.101; doc. 102). Nello stesso anno, in una carta datata al 16 settembre (CDV, I, doc.104), dopo soli tre mesi alla fondazione della scola, lo stesso apparato di ventotto testimoni che aveva presenziato alla sua fondazione si sarebbe nuovamente raccolto a Verona per sancire invece l'indipendenza della scola dall'autorità vescovile che l'aveva appena istituita: Ratoldo affidò infatti la consacrazione della chiesa di s. Giorgio, sede ufficiale della scola, a Massenzio, patriarca di Aquileia, e dispose che il nuovo ente fosse direttamente sottoposto all'autorità del patriarca. Fu Pacifico a chiedere tale separazione, affermando che la chiesa di s. Giorgio era edificata su un terreno di sua piena proprietà («supra suum allodium»), soggetto alla volontà del detentore. Anche se i dati archeologici dimostrano che la chiesa di S. Giorgio occupava solo una piccolissima parte della terra di Pacifico, fondata com'era sulla precedente basilica a tre navate del V secolo, l’esigua porzione era risultata sufficiente a permettere a Pacifico questa affermazione e a convincere Ratoldo a rinunciare ai propri diritti sull'edificio e sulla giurisdizione del Capitolo cattedrale.
All'atto parteciparono i vescovi provenienti dalle principali sedi urbane della Venetia, oltre che un Guido cardinalis, il patriarca di Aquileia, Massenzio, e una nutrita rappresentanza di componenti dell'aristocrazia funzionariale franca, non attestati altrimenti, tra cui però non compare il conte di Verona.
Nel documento del 16 settembre 813 Pacifico è presentato, insieme col vescovo Ratoldo, come colui che risanò le istituzioni ecclesiastiche della città, degradate dal malvagio Audone, predecessore di Ratoldo. Non vi sono notizie scritte di Audone nelle liste vescovili, poiché gli immediati predecessori di Ratoldo sono Annone ed Egino, la cui fama di uomini pii sembra inattaccabile. Un vescovo veronese di nome Audone è invece attestato successivamente a Ratoldo, a partire dall’860 (CDV, I, n. 208, pp. 313-315).
Dopo l’813 l'attività pubblica dell'arcidiacono sembra ridursi. Nell'814 sarebbe stato testimone di una permuta in Valpantena tra il suddiacono Deusdedit e Gaufridus «vicedominus domui Sancti Zenonis», che informa solo sul consolidamento dei beni vescovili in quella zona (ChLA, LX, n. 19). A partire da questa data la documentazione su Pacifico cessa. Verso la fine della vita, vale a dire negli anni Quaranta del IX secolo, Pacifico riprese nuovamente un ruolo determinante. Nell'844, quando Pacifico aveva circa 68 anni ed era ormai un vegliardo per la sopravvivenza media nell'Alto medioevo, si conterebbero due suoi importanti interventi. Nel primo Pacifico affiderebbe a Hitiprandus, vescovo di una città non menzionata, «qui cum Lothario in his partibus erat», il compito di consacrare la chiesa di S. Alessandro di Quinzano (nella periferia settentrionale di Verona) e di porla alle dipendenze della pieve di S. Giovanni Battista, di proprietà del Capitolo veronese. L'intervento di un vescovo di un'altra città fu reso necessario dalla contemporanea vacanza della sede vescovile veronese (CDV, I, doc.174). La datazione della carta presenta alcune incertezze: nel protocollo la datazione si riferisce al venticiquesimo anno di regno dell'imperatore Lotario e al quinto di regno del figlio Ludovico (e dunque all'anno 844) mentre nell'escatocollo è indicato l'anno di incarnazione 820. Tale divergenza è stata attribuita alla disattenzione del copista duecentesco (Venturini, 1929, p. 21). Nel mese successivo Pacifico, insieme con la sorella Ansa, dispose dei suoi beni inaugurando a Verona la ripresa della prassi della redazione testamentaria, abbandonata nel corso dei secoli VII e VIII, e fondò un proprio xenodochio nell’oratorio di S. Giovanni di Quinzano, sito nella propria casa (CDV, I, doc. 176). Quanto ad Ansa, sopravvisse al fratello almeno fino all'847, quando compare come acquirente di un terreno prossimo a Quinzano: in quest'occasione però non ricordò il suo celeberrimo congiunto, qualificandosi come «Ansa Dei ancilla de Quinciano» (CDV, I, doc, 184). Dopo la sua morte, avvenuta nell’844 o nell’846, la rilevanza di Pacifico fu celebrata in modo adeguato dal Capitolo, che gli eresse all'esterno della chiesa vescovile un monumento funebre, comprendente una lapide con un lungo epitaffio ritmico.
Nel 1698 sarebbe poi stata ritrovata una seconda lapide, attualmente riunita alla prima all’interno della cattedrale, con un epitaffio metrico che riporta la data dell'obitus di Pacifico all'846, il cui testo fu copiato alla lettera da quello di Alcuino di York. Quest’ultima presenta un’impaginazione distinta per esametri (disposti a sinistra) e pentametri (disposti a destra), il suo testo contiene il tradizionale invito rivolto ai passanti, espresso in prima persona da Pacifico, a riflettere sulla caducità della vita umana; quella superiore, impaginata orizzontalmente sul lato lungo, ricordava invece le opere e la vicenda biografica di Pacifico: in essa l'arcidiacono veniva a ricoprire il ruolo di fondatore delle istituzioni ecclesiastiche cittadine, di inventore, di astronomo, di pittore e scultore, e di autore di ben 218 manoscritti e di glossatore dei testi sacri. Erano inoltre precisati i dati essenziali della sua biografia: quanti anni egli aveva al momento della morte (68), il numero di anni del suo arcidiaconato (43), l'anno di regno di Lotario in cui era defunto (27), la data della morte (844 o 846; MGH, Poetae latini aevi karolini, II, p. 656). Considerata la sua personalità eccezionale, ci si è pure chiesti per quale motivo la sua carriera non fosse culminata nella cattedra vescovile (Golinelli, 1989, p. 289). Il curriculum di Pacifico appare costituito dai requisiti idonei a fare di lui un personaggio di altissimo rilievo, componendosi di una molteplicità di tratti che risultano da una serie documentaria variata: una notitia con il ricordo dell'unico giudizio della croce avvenuto in Italia; tre diplomi vescovili; una charta dotationis; un testamento con l'elenco dei beni fondiari; infine due epigrafi funerarie in cui sono elencate le attività di Pacifico e riassunti i suoi dati biografici.
Il processo che portò a definire una vera biografia di Pacifico si può scandire in tre fasi che rappresentarono altrettante trasformazioni della sua personalità: per paradosso, quanto più le asserzioni su di lui si ritennero fondate su una base oggettiva e documentata, tanto più la figura di Pacifico si allontanò dalla realtà.
All'inizio del XIV secolo Giovanni de Matociis, mansionario della chiesa di Verona, incluse un profilo biografico di Pacifico nel VI libro della sua Historia imperialis tra i notabilia dell'epoca di Lotario, ricordandolo come fondatore del Capitolo cattedrale (Iohannis diaconi Veronensis Historia imperialis, c. 236, 2). Nel 1477 Corna da Soncino chiuse il suo Cantare in lode di Verona (Fioretto de le antiche croniche de Verona…, a cura di G.P. Marchi - P.P. Brugnoli, Verona 1973, 1980), una descrizione in ottave della città con un elenco di celebri veronesi: dopo una sequenza di veronesi antichi e moderni, le tre ottave di chiusura furono dedicate a Pacifico. Nel 1540 Onofrio Panvinio inserì le note biografiche dell'arcidiacono designandolo quale «Summus Theologus, summusque multarum aliarum disciplinarum cultor» (pp. 153 s.) e pubblicò per primo una parte del suo epitaffio. Alla fine del XVIII secolo le controversie seguite alla soppressione del Patriarcato di Aquileia si appoggiarono alle carte dell’813 che avevano Pacifico per protagonista. Negli studi ottocenteschi la struttura e il contenuto della lapide funeraria incoraggiarono ad approfondire i singoli aspetti della personalità dell'arcidiacono, inserendoli in tematiche storiografiche più ampie: la storia dell'episcopio veronese, la storia della cultura, della scrittura, della scuola, delle vicende edilizie, della scultura, delle invenzioni di età carolingia. Grazie a tali approfondimenti la figura di Pacifico si definì come elemento insostituibile per comprendere la vivacità e lo splendore raggiunti da Verona nel corso del IX secolo. La cultura del Novecento estese le ricerche sul valore di Pacifico anche all'ambito più vasto della cultura europea di età carolingia. L'iscrizione funeraria fu il punto di partenza per l'indagine sulle opere dell'arcidiacono: essa risultava atipica ed eccezionalmente ben scritta, dimostrando «fino a qual punto Verona partecipava ai buoni effetti della scuola di Tours e al risveglio letterario che abbelliva il palazzo di Carlo Magno» (Ongaro, 1925, p. 88). Il fatto che la seconda epigrafe riproducesse alla lettera l'epitaffio di Alcuino risultò come prova «nell'apprezzamento dei contemporanei, [di] un parallelo perfetto tra Alcuino e Pacifico, sia come valore di genio, sia come forma di attività» (Venturini, 1929, p. 24). Le discordanze cronologiche tra le date dell'epigrafe e la documentazione scritta apparvero il segno di una «volontaria sfocatura del dato storico del resto presente in tutto l'epitaffio» (Marchi, 1968, p. 295). Intesa quale testimonianza della biografia di Pacifico, la prima epigrafe servì di spunto per approfondimenti in ognuna delle discipline e delle arti in cui Pacifico fu dichiarato maestro: se non inventore della bussola nautica (Posteraro, 1903), fu proclamato inventore dell'orologio notturno e di un ordigno per lanciare il fuoco dalle navi (Wiesenbach, 1993, pp. 229-250; Brenzoni, 1925, p. 209), scultore dei capitelli della cattedrale veronese e persino del portale bronzeo della basilica di S. Zeno (Da Lisca, 1935), nonché l'autore o per lo meno il copista di 218 codici (Bullough, 1964, pp. 127-129) e l'architetto non solo delle sette chiese attribuitegli dall'epigrafe, ma di altre ancora (Lusuardi Siena, 1989, pp. 131-134). Data l’intensità degli studi su Pacifico, poiché «Da quattro secoli Pacifico di Verona alimenta l'interesse di una schiera di studiosi: paleografi, filologi, storici, liturgisti, ciascuno dei quali, illustrando secondo il proprio metodo la vita e la complessa attività dell'arcidiacono, arriva di tanto in tanto a precisarne qualche punto tra i molti rimasti ancora oscuri», un insigne studioso si augurò che «grazie a tutti questi risultati particolari […] in un prossimo futuro sia possibile tracciare un ritratto ben chiaro della personalità intellettuale e morale del grande chierico veronese» (Meersseman - Adda, 1966).
Tuttavia, se la storia della fama di Pacifico fu costellata di lodi, essa lo è ugualmente di dubbi, espressi sia nel passato, sia in epoca recente. Durante la seconda metà del XVIII secolo furono oggetto di una lunga controversia le tre carte dell'813 riguardanti la fondazione della scola veronese e la consacrazione della chiesa di S. Giorgio da parte del patriarca aquileiese Massenzio: i fratelli Ballerini li considerarono espressamente come falsi prodotti tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo, perché essi riprendevano alla lettera tratti di un iudicatum del vescovo Raterio, posteriore di circa un secolo (Ballerini, 1753; 1754b; Florio, 1754, 1755). Anche per l'epigrafe funeraria il Biancolini nel XVIII secolo (1757, p. 183) e dopo di lui il Bluhme (1824, pp. 254 s., n. 99), espressero forti perplessità. Carlo Cipolla ammise che: «nell'insieme [dell'epigrafe] c'è un fare così perfezionato, da farci provare una vera pena per risalire al IX secolo» (1972, p. 48); Nicolette Gray, esaminando complessivamente le iscrizioni italiane tra VIII e X secolo, dichiarò sicuramente spuria la prima parte dell'epitaffio e lo riferì all'XI secolo (1948, pp. 92 s.). Anche sulle testimonianze di Pacifico tramandate in copia, sono stati espressi dubbi: per la consacrazione della chiesa di S. Alessandro di Quinzano dell'844, si è ipotizzata una falsificazione perpetrata dai canonici veronesi attorno al 1140 (Castagnetti, 1976, pp. 32 n. 216, 55 n. 229). Tuttavia si è trattato di dubbi circostanziati, riferiti a singoli documenti, mentre è la figura di Pacifico nel suo complesso a diventare molto più incerta.
Le due carte in redazione originale, databili rispettivamente all'809 e all'814 presentano Pacifico nella veste di semplice testimone, coadiutore della politica vescovile.
Il periodo del vescovo Ratoldo, che coincide con le attestazioni autentiche di Pacifico, costituì un'importante parentesi di accordo con il vertice imperiale, che perdurò fino all'834 quando Lotario, figlio di Ludovico il Pio, assunse saldamente il controllo del Regno d'Italia. Nell’834 il vescovo Ratoldo si ritirò a Reichenau. Tra il 814 e il 841, in un periodo di quasi trent'anni, Pacifico fu esentato dalle sue mansioni quotidiane, al pari dei suoi colleghi diaconi e suddiaconi, come testimoniato dalla totale assenza di sottoscrizioni di membri del Capitolo cattedrale nei documenti veronesi. È evidente il diverso rapporto intrattenuto dal vescovo Ratoldo e dal suo Capitolo con l'autorità imperiale in seguito alle vicende conflittuali all’interno della famiglia carolingia nella prima metà del IX secolo. Quando Ratoldo fu eletto vescovo di Verona, egli collaborò con Pipino nel confermare le aspettative della società locale e la posizione del Regno all'interno della vita politica e religiosa della città. Fino alla morte di Carlo Magno (814), l'accordo tra clero locale e Ratoldo si fondò su una collaborazione attiva per il rafforzamento del patrimonio fondiario vescovile: nell'814, il clero compare ancora accanto al vicedominus nel sottoscrivere atti relativi al patrimonio vescovile. Come hanno sottolineato le ricerche più recenti, la morte di Carlo Magno innescò una serie di conflitti per la successione. Alla morte del rex Italiae Pipino (811), il figlio Bernardo era stato designato suo successore da Carlo Magno (Jarnut, 1989; Depreux, 1992; Innes, 1998): come si rileva dalla datazione dei documenti privati, le aspettative locali nei confronti di Pipino si riversavano ora sul figlio. La situazione dovette prospettarsi in modo più problematico per la stabilità del vescovo Ratoldo, quando il primo figlio di Carlo, Ludovico, assunse il titolo imperiale (814) e, nel timore di essere circondato da una corte troppo fedele al padre, operò un sistematico ricambio degli uomini attorno a sé. Lo stretto rapporto che Ratoldo aveva intrattenuto con Carlo e con Pipino rischiava di tramutarsi in un motivo di sospetto nei suoi confronti. Ratoldo si schierò apertamente a favore di Ludovico ed ebbe l'occasione di dimostrare all'imperatore la sua piena fedeltà durante la rivolta di Bernardo (816), che rivendicava il proprio ruolo di successione al padre, contro la decisione di Ludovico. La resa di Bernardo ebbe un epilogo tragico: fu arrestato, accecato e morì. In questi frangenti, proprio Ratoldo e Suppone, conte di Brescia, furono citati quali principali informatori di Ludovico sulle manovre di Bernardo (Vita Hludowici, 1955, cap. 29, p. 304). In seguito a quest'episodio il successo politico di Ratoldo fu garantito: Ludovico nell'820 emanò un diploma a suo favore, nel quale si stabilivano i privilegi della schola sacerdotum veronese, di cui Ratoldo si proclamava fondatore e risanatore; la sede veronese fu rafforzata anche nell'825 con il Capitolare di Olona emanato da Lotario, in cui fu menzionata tra i principali centri scolastici del Regno (Capitulare Olonnense, n. 163, p. 327). Proprio il momento di maggiore concordia tra Ratoldo e Ludovico presenta una brusca interruzione nella documentazione veronese, con un deciso ridimensionamento della funzione pubblica di chierici e diaconi. La scomparsa del clero locale può essere spiegata nei diversi orientamenti politici manifestati da Ratoldo e dal suo clero. È notevole la solerzia con cui Ratoldo e Suppone informarono l'imperatore: per far risaltare ancor di più la loro prontezza e l'importanza delle loro rivelazioni, essi fornirono una versione dei fatti che «ex parte verum, ex parte falsum erat» (Annales regni Francorum, a. 817, p. 114). Il loro zelo può essere spiegato solo dal consenso locale nei confronti di Bernardo a Brescia e a Verona, come suggeriscono le fonti franche, che indicano tra i fiancheggiatori della rivolta «quamplures clerici seu laici» (p. 114; Thegani Vita Hludovici, 1955, cap. 22, p. 232; Vita Hludowici, cap. 29, p. 304). Le sanzioni nei confronti di questi ultimi furono delegate a una sinodo vescovile che stabilì di rinchiuderli in monastero i vescovi e i chierici, esiliandoli così dalla propria comunità (Chronicon Moissiacense, p. 313; Annales regni Francorum, a. 818, pp. 114-116; Vita Hludowici, cap. 30, p. 306).
L'improvviso silenzio dei chierici, dei diaconi e dello stesso Pacifico nella documentazione veronese dopo l’814 può far supporre che, in seguito alle simpatie o all'aperto appoggio dimostrato verso Bernardo, essi fossero stati esautorati dalle loro mansioni. A supporto di questa interpretazione può essere segnalata la presenza di un Pacificus nell'elenco dei fratres del monastero di Nonantola inserito nel Liber confraternitatum Augiense et Sangallense, redatto attorno all'826 (MGH, Libri confraternitatum Sancti Galli, Augiensis, Fabariensis, pp. 67, col. 193, 20; 180, col. 84, 15; Das Verbrüderungsbuch der Abtei Reichenau, p. 21, col. D, 3). Data la rarità nelle carte italiane del nome Pacificus, un individuo con questo nome presente a Nonantola (in un'area non distante da Verona e in un monastero legato all'episcopio veronese), negli anni in cui mancano sue attestazioni a Verona, può essere identificato con il nostro arcidiacono: in questo caso Pacifico, in seguito alla vicenda di Bernardo, potrebbe essersi ritirato, o sarebbe stato costretto a ritirarsi, nel monastero modenese. Il secondo indizio è relativo a un carteggio veronese segnalato da Augusto Campana (1955). Si tratta di una lettera, scritta a Pacifico dal presbiter Vitale, di un biglietto di accompagnamento redatto da Pacifico che la sottopose al giudizio di Ildemaro di Corbie, infine della risposta di Ildemaro a Pacifico (MGH, Epistolae Karolini Aevi, III, pp. 355-357). Già Campana sottolineò la complessa intermediazione svolta da Pacifico nei confronti di Ildemaro, e pensò che la lettera di Vitale fosse stata sollecitata da Pacifico, che non voleva apparirne l'autore.
L’argomento della lettera riguarda indubbiamente la circolazione nella Venetia delle teorie sulla predestinazione elaborate dal monaco Gotescalco di Orbais, che si trovava nel patriarcato aquileiese attorno all’840 (Ganz, 1981): Pacifico avrebbe pertanto interpellato Ildemaro, giunto a Brescia per riorganizzare le comunità monastiche dell'Italia settentrionale (Codex diplomaticus Langobardie, n. 140, coll. 245-247, 31 maggio 841), per ottenere un parere sulla liceità di tali teorie e di ottenere da Ildemaro un'autorevole conferma della posizione ortodossa di Pacifico, cercando di riaccreditarsi, tramite Ildemaro, con il vescovo Notingo. Egli era il nuovo vescovo di Verona, fedele di Lotario, e destinatario dell’opuscolo di Rabano Mauro contro le teorie di Gotescalco (MGH, Epistolae Karolini Aevi, III, n. 22, p. 428). C’è da chiedersi pure se la richiesta di Pacifico non adombri, attraverso il richiamo alle teorie di Gotescalco, anche un implicito riferimento alla mutata situazione veronese. Attorno all'834 l'equilibrio politico della città, determinato dall'accordo tra Ludovico e Ratoldo, si era infatti bruscamente interrotto, poiché la fedeltà del vescovo nei confronti dell'imperatore si era volta a osteggiare i progetti politici del figlio Lotario. Dopo l’834, Ratoldo, responsabile di aver liberato l'imperatrice Giuditta dall'esilio in cui Lotario l'aveva costretta a Tortona, scomparve dalla scena politica veronese (Annales de Saint-Bertin, p. 13; Thegani Vita Hludovici, 1955, cap. 51, p. 246). Poiché si trattò dell'unico episodio di ribellione a Lotario avvenuto nel periodo in cui più forte e attiva fu la presenza del re in Italia, tra il terzo e il quarto decennio del IX secolo Verona si configurava come sacca di resistenza a Lotario (Jarnut, 1989, p. 360). A partire da questo momento la cattedra episcopale veronese fu punita: seguirono tre decenni in cui la presenza vescovile in città fu sporadica e intermittente, e controllata dalla vicina Brescia. I due vescovi che si successero sul soglio episcopale a partire dall'840 – Notingo e Billongo –furono raramente presenti in città e si dimostrarono strettamente collegati al tessuto connettivo bresciano. Il contesto degli anni Quaranta del IX secolo a Verona presenta dunque un aspetto assai diverso da quello saldamente legato all'Impero nei primi decenni. È possibile che le domande poste da Pacifico a Ildemaro risentissero di questa nuova situazione politica, fino ad acquistare gli accenti di un tentativo di riabilitazione agli occhi del vescovo Notingo. Tra l'816 e l'834 il clero veronese sembra anzi esser stato punito due volte: la prima per aver parteggiato per Bernardo, la seconda perché il suo vescovo Ratoldo era rimasto fedele a Ludovico il Pio. Una realtà che non solo è ben lontana dalla piana vicenda prospettata dai falsi di Pacifico, ma che pone lo stesso Pacifico in una posizione conflittuale con il vescovo Ratoldo, opposta all'idilliaca convivenza elaborata dai falsi. La riabilitazione successiva di Pacifico, se osservata da questa angolatura, assume il tono di rivalsa delle tradizioni del clero locale, che aveva proclamato Pipino habitator della città e aveva sostenuto Bernardo per affermare la propria identità all'interno del Regno.
L'eccezionalità di Pacifico non risiede nelle attività molteplici da lui esercitate nel suo tempo, bensì nel lento processo di invenzione della sua personalità illustre, attraverso il quale si attuò la trasformazione di Pacifico da arcidiacono veronese del IX secolo a simbolo del prestigio culturale di Verona carolingia.
La personalità di Pacifico nasce dal sedimentarsi progressivo di una serie di proiezioni rivolte all'età carolingia, che si manifestarono dal XII secolo in avanti da parte dei veronesi, e successivamente da parte degli studiosi. La sua figura fu prima casualmente, e poi più consapevolmente, plasmata come antenato carolingio, la cui presenza fungesse da elemento probante delle nuove consuetudini e dei nuovi rapporti giuridici che il Capitolo veronese instaurò nel corso del XII secolo nei confronti del proprio vescovo, delle élites urbane e del nascente organismo comunale. Si immaginò anzitutto che Pacifico fosse stato il fondatore della schola sacerdotum nell’813 e avesse provveduto a caratterizzarla quale ente in diretta dipendenza dal patriarca di Aquileia. A partire dall'episcopato del veronese Tebaldo (1136), primo vescovo scelto all'interno del Capitolo cattedrale (Miller, 1993), Pacifico fu più volte utilizzato in documenti volti a comprovare l'antichità del possesso di alcune chiese cittadine da parte del Capitolo: da fondatore del Capitolo stesso, egli divenne fondatore di chiese e di xenodochi. I documenti falsi prodotti nel XII secolo rispondevano a esigenze operative circoscritte e condizionate dalla necessità; invece la costruzione della personalità di Pacifico, alacre intellettuale carolingio, portabandiera del prestigio locale, fu integralmente frutto dell'erudizione ottocentesca. Venute meno, per sempre, le ragioni circostanziate che avevano portato il Capitolo nel XII secolo a inventare le azioni di Pacifico, restava agli specialismi storiografici tutta la congerie di prove, vere e false, presunte e accertate che essi amorevolmente cercavano. Il Pacifico carolingio, con le sue due sottoscrizioni, era completamente perduto.
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