LANDO, Ortensio
Nacque a Milano da Domenico, originario di Piacenza e forse appartenente alla nobile famiglia Landi, e da Caterina Castelletta, milanese. L'anno di nascita, grazie a riferimenti interni alle sue opere, si può collocare tra i primi del Cinquecento e il 1512. Peraltro, la sua identità, al di là dei numerosi pseudonimi adottati, si riconosce nell'omogeneità stilistica dei testi, e si ricostruisce proprio attraverso i cenni autobiografici in essi contenuti, oltre che grazie alla permanenza di alcune figure di riferimento tra i mecenati e i corrispondenti. La restante documentazione si limita a pochi autografi e ad accenni contenuti in epistolari coevi.
Il L. dichiara di avere studiato lingua latina a Milano sotto la guida di Alessandro Minuziano e Bernardino Negro; fra i suoi maestri annovera anche Celio Rodigino (Ludovico Ricchieri) e Bernardino Donato da Verona. Più tardi studiò all'Università di Bologna sotto Romolo Quirino Amaseo. Sempre secondo quanto dichiara lo stesso L., apprese in gioventù anche teologia e medicina, probabilmente a Bologna. Nel 1523 sembra fosse collocato in un convento agostiniano con il nome di Geremia: la tesi è fondata sull'affermazione di fra Sisto da Siena "Hortensius quidam Landus, Augustinianus professionis desertor" (Bibliotheca sancta, Lugduni 1593, p. 409), ed è stata convalidata da C. Fahy in base a una testimonianza dell'orientalista J.A. von Widmannstetter, conosciuto dal L. a Napoli nel 1530; anche l'Indice universale di Paolo IV del 1559 identificava il L. con il nome, tra gli altri, di Geremia ("Hortensius Tranquillus, alias Hieremias, alias Landus"). Dal 1531 al 1534 il L. soggiornò a Bologna, nel convento di S. Giacomo; vi era approdato con il grado di "cursore" dopo circa cinque anni di vita monastica nei conventi agostiniani di Padova, dove si trovava nel gennaio 1527, Genova, Siena e Napoli. In questo periodo il L. si era applicato alle discipline umanistiche, specialmente allo studio del greco. La provincia milanese degli eremitani di S. Agostino in quegli anni comprendeva molti confratelli inclini alla Riforma, come Giulio Della Rovere e Ambrogio Cavalli, dai quali il L. apprese una solida e durevole lezione erasmiana. Fu confratello anche di Agostino Mainardi e conobbe l'umanista Giulio Camillo Delminio, cultore di mnemotecnica, cabala ed ermetismo. A Bologna il L. si legò profondamente a Giovanni Angelo Odoni, studioso di medicina, e a Fileno Lunardi, identificato ancora problematicamente con l'eterodosso siciliano Camillo Renato, membri l'uno e l'altro, Odoni e Lunardi, di un cenacolo riunito intorno al colto gentiluomo, noto come Eusebio Renato e in stretto contatto con il riformatore strasburghese M. Butzer. Infine, il L. frequentava a Bologna Achille Bocchi e alcuni umanisti, tra i quali Romolo Amaseo, l'averroista Ludovico Boccadiferro, il patrizio Alessandro Manzoli e il grecista Bassiano Lando, tutti interessati a Erasmo da Rotterdam e alla Riforma, ma non meno sensibili alle suggestioni della prisca theologia. Forse nel 1531 il L. si recò a Bellinzona insieme con Giulio da Milano, mentre nel 1533 risulta essere lettore in S. Agostino a Pavia. Dopo un soggiorno a Roma nel gennaio 1534, giunse a Lione intorno alla metà dello stesso anno, ormai transfuga dal proprio Ordine e dall'Italia. Con il nome di Ortensio Appiano si guadagnò da vivere come correttore di bozze e insegnante di rudimenti latini ai ragazzi. Soprattutto, grazie all'editore S. Gryphius, avviò rapporti con l'élite culturale della città, come testimonia la frequentazione dell'umanista étienne Dolet, arso come miscredente nel 1546.
Nell'opera Cicero relegatus, Cicero revocatus. Dialogi festivissimi, composta probabilmente intorno al 1531 ma pubblicata nel 1534, il L. si inserì nel dibattito intorno al culto dell'eloquenza e della pietà cristiana, sollevato dal Ciceronianus di Erasmo (1528), assumendo una posizione interlocutoria.
Il protagonista della breve opera è l'agostiniano Geremia Lando, un ciceroniano messo in crisi dallo scritto di Erasmo, che a Milano si confronta con altre posizioni all'interno di un circolo composto da frati agostiniani, come Giulio da Milano e Girolamo Seripando, da umanisti dell'Italia settentrionale, quali Gaudenzio Merula e Bassiano Lando, o lionesi come Guillaume Scève. Nel primo dialogo, Cicero relegatus, è Cicerone stesso a essere prima accusato di colpe morali e stilistiche, e poi paradossalmente mandato in esilio. Grazie a questo espediente il L. induce i lettori a guardare con ironia all'exploit anticiceroniano dell'umanista olandese. Nel secondo dialogo, Cicero revocatus, che costituisce una vera e propria difesa d'ufficio, il L. descrive invece il rimpianto che Cicerone ha lasciato dietro di sé, e lo fa richiamare dall'esilio. Il tema del contrasto fra sapienza cristiana ed eloquenza pagana percorrerà tutta la produzione del L., mentre la forma espressiva qui inaugurata, consistente nel contrapporre due posizioni per insinuare il dubbio e suggerirne tacitamente una terza, troverà il compimento nei successivi Paradossi. L'opera, di scarsa fortuna e violentemente attaccata dall'umanista e filosofo Mario Nizolio, uscì in tre diverse edizioni nel 1534 a Lione, Lipsia, Venezia, non sappiamo in quale ordine cronologico.
A Lione il L. ritrovò gli amici Odoni e Lunardi, che presentò a Dolet e a Gryphius. Nel 1534 scrisse una premessa alla Cribratio medicamentorum di Symphorien Champier, medico e umanista che fu tra i primi a far conoscere l'ermetismo ficiniano in Francia. Dal testo si evince che il L. era entrato in rapporto con Vincenzo Buonvisi, patrizio lucchese simpatizzante della Riforma e fratello di Antonio, banchiere a Londra e grande amico di Tommaso Moro. Alla fine del 1534 o agli inizi dell'anno successivo l'"inconstantissimo" L. soggiornò per qualche tempo a Ginevra e in Germania. Il 24 maggio 1535 lasciò Lione per trascorrere un mese e mezzo tra Lucca e la vicina villa di Forci, in compagnia di Buonvisi.
Nello stesso 1535 o l'anno seguente, con lo pseudonimo "Philalethes Polytopiensis civis", ispirato all'Utopia di Moro e più volte utilizzato in futuro, il L. compose le Forcianae quaestiones. Nella prima delle tre parti che compongono il testo, in presenza di una colta cerchia di patrizi lucchesi e degli erasmiani Giulio da Milano e Annibale Della Croce, egli esalta in chiave antitirannica e filorepubblicana la libera città-stato di Lucca, connubio ideale di erasmiana pietas religiosa, concordia civile e libertas politica, contrapposta alla "misera Italia" e in particolare a Milano, occupata dalla "bestia imperiale" (p. 15). Il L. ritorna così su un messaggio già diffuso a Venezia, se può essere attribuito a lui Il libro de la emendatione et correctione dil Stato christiano, traduzione di An den christlichen Adel deutscher Nation di Lutero. Nella seconda parte, la compagnia, che accoglie ora prelati come G. Seripando, l'erudito e alchimista G. Merula, e numerose presenze lionesi come Dolet e l'ebraista Tommaso Sertini, discute in particolare dell'eccellenza morale e spirituale della donna, sulla base del De nobilitate et praecellentia foeminei sexus di Enrico Cornelio Agrippa, trattato ricco anche di spunti religiosi ed ermetici. La conclusione delle Forcianae allude infine alla ricezione della dottrina di Lutero da parte del L., soprattutto per quanto concerne la salvezza ex sola fide. Le due prime edizioni dello scritto, nel 1535 e nel 1536, furono impresse non a Napoli, come indica la sottoscrizione tipografica, bensì rispettivamente a Lione e a Venezia; seguirono le edizioni Basilea 1541, 1542 e 1544, a opera di B. Westheimer, collaboratore di O. Brunfels e teorico del nicodemismo, Lovanio 1550 e Norimberga 1559.
Dopo il soggiorno lucchese il L. si spostò tra Firenze, Bologna e Napoli; sembra inoltre che tra il 1536 e il 1540 sia stato in Turingia e a Strasburgo. Nel frattempo aveva stabilito buone relazioni con Fortunato Martinengo e Benedetto Agnello, mecenati di simpatie erasmiane residenti a Venezia, al primo dei quali dedicò il Desiderii Erasmi Roterodami Funus.
Il dialogo, concepito intorno al 1539, fu pubblicato nel 1540 a Basilea - dove con verosimiglianza il L. si trovava - con lo stesso pseudonimo delle Forcianae quaestiones e senza il nome dell'editore (forse Balthasar Lasius). Il dialogo, che si svolge poco dopo la morte di Erasmo, presenta una discussione tra due interlocutori, il brabantino Arnoldo Arlenio Perassilo e l'italiano Ananio, che rappresentano punti di vista divergenti sull'esperienza intellettuale e religiosa del grande umanista. Le parti apologetiche e quelle denigratorie si succedono sotto il segno dello straniamento: al macabro oltraggio al cadavere di Erasmo da parte di alcuni monaci tedeschi, si contrappone una non meno paradossale assunzione in cielo, che presenta analogie con la scena culminante del Pasquillus extaticus di C.S. Curione (1544), nel quale d'altra parte si trova un riferimento puntuale ai futuri Paradossi landiani. Il testo, fortemente ambiguo, è stato oggetto di interpretazioni difformi. Secondo P.F. Grendler e Fahy (1977) è volto in sostanza a criticare rispettivamente o i riformatori svizzeri o i comportamenti dei seguaci e dei detrattori di Erasmo, ma non la sua figura. Di diverso avviso è M.P. Gilmore, che vi individua un nucleo sarcastico tutto italiano indirizzato verso l'Erasmo teologo e anticiceroniano. Per S. Seidel Menchi il dialogo si connette con la polemica che aveva contrapposto Erasmo a H. Hutten, poi ripresa da Butzer e da Brunfels, ed esprime il disgusto dell'ala radicale della Riforma nei confronti dell'atteggiamento teologico rinunciatario dell'umanista olandese. A partire da riferimenti interni al testo, Seidel Menchi elabora la proposta suggestiva ma non ancora del tutto comprovata di identificare il L. con l'ex religioso esperto in lingua ebraica Giorgio "Filalete" Macedone, detto "il Turchetto", amico di Curione, che nel 1542 emigrò a Basilea, quindi diffuse e forse tradusse il De trinitatis erroribus di M. Serveto. Il Funus, considerato dalla Chiesa riformata di Basilea un attacco diretto a Erasmo e oggetto per questo di una replica formale da parte di Johannes Herold, propone temi come la predicazione evangelica, la verità come fatto rivoluzionario, la simulazione e il martirio, e si conclude con l'apologia di un monachesimo capace di rinnovare l'intera vita religiosa, incarnato soprattutto da alcuni agostiniani come G. Seripando, Giulio da Milano e A. Mainardi.
Nel 1540 il L. viaggiò attraverso la Svizzera, fermandosi a Zurigo; sembra che nello stesso periodo, con il nome di Tranquillo, sia stato introdotto a Ferrara nell'Accademia degli Elevati, fondata da Alberto Lollio. Percorse anche l'Italia meridionale e, nell'agosto 1541, si recò a Trento, per conquistarsi la protezione del neoeletto principe-vescovo e futuro cardinale, Cristoforo Madruzzo.
A questo periodo risalgono le inedite Disquisitiones cum doctae tum piae in selectiora Divinae Scripturae loca Hortensio Tranquillo authore, un insieme di brevi domande relative a particolari punti delle Scritture, seguite dalle risposte, che costituiscono una forma argomentativa usata poco prima dall'ebraista francescano F. Zorzi nell'opera In Scripturam sacram problemata (Venezia 1536). Il libro, dedicato a Madruzzo e conservato nella Biblioteca comunale di Trento, elabora liberamente le Enarrationes perpetuae in sacra quatuor Evangelia di Butzer. Secondo Seidel Menchi il L., riprendendo anche le posizioni di Hutten e di Brunfels, propone da un lato il valore della predicazione coraggiosa, ma dall'altro suggerisce nicodemiticamente la necessità di un rinnovamento spirituale radicale delle Chiese esistenti, che non provochi scismi e fratture. Il L. inoltre indica al credente una prospettiva religiosa di illuminazione graduale, secondo livelli di spiritualità e di comprensione delle Scritture progressivamente più avanzati.
Un altro inedito dello stesso periodo, il Dialogo di M. Filalete cittadino di Utopia contra gli uomini letterati, che risale a un soggiorno ferrarese del L., nella seconda metà del 1541, è dedicato a Lollio, tramite il quale è pervenuto (Seidel Mendri, 1977, p. 511). Nel testo, fortemente anticortigiano, che anticipa il contenuto del futuro III paradosso ("che meglio sia l'essere ignorante che dotto"), il L. si descrive sotto altro nome come un letterato nomade e una persona "melanconica" e inquieta. Al 1542 risale infine Il dialogo erasmico di due donne maritate, edito a Venezia (una seconda edizione, sempre veneziana, uscì nel 1550): si tratta della traduzione del dialogo erasmiano Uxor mempsigamos, unico frammento realizzato o sopravvissuto di un programma di lavoro più ambizioso, favorito dagli ambienti mercantili lucchesi.
Nel periodo successivo il L. percorse l'Italia e la Francia, visitando anche la corte di Francesco I insieme con il conte di Pitigliano Niccolò Orsini, simpatizzante della Riforma: vi incontrò l'architetto Sebastiano Serlio, amico di Giulio Camillo, del quale ammirò le "divine opere". In questi frangenti potrebbe avere svolto la funzione di agente francese in Italia. Nel 1542 servì Marco Vigerio Della Rovere, arcivescovo di Senigallia, e poi diversi altri nobili italiani, fra cui Galeotto Pico, conte della Mirandola, e soprattutto Cristoforo Madruzzo, che seguì a Rimini, Ferrara, e Pesaro; fu forse anche a Roma. Se, come ritiene Fahy, nel maggio 1543 il L. era in contatto epistolare con il riformatore elvetico Joachim von Watt, è possibile inferire che a questa data aveva acquisito una formazione medica, aveva preso moglie e traduceva opere di Lutero. In quel torno di tempo incontrò inoltre il vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo, sospettato poi di simpatie valdesiane. Nel tardo autunno 1543 si recò a Lione, dove, dietro incitamento del mecenate Collatino di Collalto, pubblicò il suo primo libro in volgare, i Paradossi, cioè Sententie fuori del comun parere novellamente venute in luce, la sua opera più nota e, in qualche modo, esemplare.
Anonimi ma firmati al termine con un giocoso "ludebat Hortensius" scritto al contrario, i Paradossi sono divisi in due libri, dei quali il primo contiene 14 componimenti, dedicati a Madruzzo, e il secondo 16, rivolti a Caracciolo. Nel testo - il cui contenuto è tratto principalmente dalle opere di Cicerone, Plinio, Plutarco, nonché dalla due summae enciclopediche Theatrum poeticum atque historicum sive Officina del francese Jean Tixier de Ravisy e Polyanthea di Domenico Nanni Mirabelli - il L. crea un effetto di straniamento intellettuale e insinua nel lettore il dubbio intorno alla communis opinio. Egli si inserisce nella linea di pensiero scettica e polemica nei confronti dell'umanesimo, dietro ispirazione di Erasmo e di Agrippa, mostrando ironicamente il carattere problematico del rapporto fra letteratura e mondo, e scardinando una a una tutte le convenzioni della vita sociale e culturale: i paradossi affermano tra l'altro che "migliore sia la povertà che la ricchezza" (I), la "caristia che l'abbondanza" (XIII), "esser ignobile, che di sangue illustre" (XXIII). La scelta definitiva dell'uso del volgare si connette palesemente con precisi spunti anticlassicistici, e implica una critica radicale agli studia humanitatis. In particolare, il L. riprende il discorso paolino sulla superiorità dell'ignoranza e della povertà di spirito, già proposto nel Dialogo contra gli uomini letterati. Utilizzando passi del De incertitudineet vanitate scientiarum di Agrippa, afferma che "tutte l'eresie tanto antiche, quanto moderne sono dalli dotti nate" (ed. Corsaro, pp. 103 s.) e, menzionando le antiche eresie di Elvidio e di Ario, insinua cripticamente l'"ambiguità della Santa Scrittura circa la concezione sovrannaturale di Cristo" (Seidel Menchi, 1994, p. 557), atteggiamento che potrebbe implicare la condivisione delle idee antitrinitarie di Serveto. Il L., se da un lato aderisce al messaggio paolino sulla necessità di comunicare le verità fondamentali del cristianesimo per absurda, dall'altro non solo propone numerosi spunti anticlericali, ma loda obliquamente Lutero, Bernardino Ochino e perfino gli anabattisti. Non a caso Francesco Negri citerà positivamente l'opera landiana nella sua Tragedia intitolata Libero arbitrio (1546) e proprio a partire dai Paradossi, come sottolinea A. Corsaro, il L. si richiamerà sempre più esplicitamente a una corrente di pensiero che attinge a sostrati ermetici di tipo platonizzante-cabalistico. Alla prima edizione lionese del 1543 seguì una seconda nel 1550, mentre nella primavera 1544 aveva visto la luce un'edizione veneziana per iniziativa di A. Arrivabene, editore di simpatie riformate, eseguita da B. Bindoni, lo stesso stampatore del Beneficio di Cristo: a essa seguirono due ristampe nei mesi seguenti e due nuove edizioni nel 1545 sempre per lo stesso Arrivabene. Questi nello stesso anno fece pubblicare anonima anche la Confutazione de' paradossi, che deve esser letta in stretto rapporto con l'opera precedente. Nonostante l'intervento censorio delle autorità veneziane e più tardi dell'Inquisizione, le edizioni italiane dei Paradossi poterono circolare quasi inalterate, tanto che Arrivabene ne ripubblicò integralmente il testo nel 1563. Una parafrasi del terzo paradosso si trova nel Paradoxe contre les lettres (Lione, J. de Tournes, 1545), attribuito al poeta M. Scève, indicato dal L. come "l'ingegnoso messer Maurizio Seva" (ed. Corsaro, p. 174). Una traduzione in spagnolo fu pubblicata nel 1552, una in francese l'anno successivo a Parigi, da C. étienne, e infine una in inglese nel 1593.
Il 4 giugno 1544 il L. assistette di persona alla battaglia di Serravalle tra Francesi e Imperiali. Negli ultimi mesi di quest'anno e nel primo 1545 visitò ad Augusta Johannes Jakob Fugger e il vescovo Otto Truchsess von Waldburg. Abitualmente risiedeva a Venezia, dove fece uscire, sotto il nome di Isabella Sforza e con dedica al Truchsess, il trattato Della vera tranquillità dell'anima, per i tipi di Paolo e Aldo Manuzio il Giovane.
C. Ginzburg e A. Prosperi avvertono nel testo un'eco precisa del Beneficio di Cristo, "un beneficio tanto singolare" (p. 164) contrapposto esplicitamente non solo agli argomenti della tradizione stoica, ma anche ai culti esoterici del neoplatonismo. L'opera, commissionata dal lucchese Paolino Manfredi, pur collocandosi nell'area filoriformata, esclude, secondo F. Daenens, schemi confessionali rigidi e intende raggiungere irenicamente un pubblico eterogeneo. Trae forse origine dal De animi tranquillitate di Fiorenzo Voluseno, scritto per il lucchese Francesco Micheli, e si inserisce di certo in un programma editoriale al quale, oltre al L., collaborò l'eretico modenese Filippo Valentini. Fu tradotta in francese a Lione nel 1546, ed ebbe anche una traduzione spagnola e una inglese, rispettivamente nel 1568 e nel 1602.
Per il carnevale del 1545 il L. si recò a Brescia e vi rimase per quasi quattro mesi, sotto la protezione del capitano Marcantonio da Mula.
Vi pubblicò, per i tipi di D. Turlini, un breve trattato, costruito ancora sulla forma paradosso e diviso in due parti. La prima, di cui fu forse traduttore, è il Breve trattato sull'eccellenza delle donne del filosofo Vincenzo Maggi, dedicato a Eleonora Gonzaga, sorella di Giulia: non presenta alcuna originalità rispetto alla trattatistica rinascimentale sulla donna e al prototipo di essa, il De nobilitate et praecellentia foeminei sexus di Agrippa. Nell'appendice di suo pugno, Vi si è poi aggiunto una brieve essortatione a gli uomini perché non si lascino superare dalle donne, dedicata a Girolamo Martinengo, marito della Gonzaga, il L. insiste sul declino maschile che si manifesta soprattutto nella degenerazione degli studi, nella crudeltà e rapacità dei soldati, nell'avarizia dei principi.
Nell'estate del 1545 il L. entrò a far parte dell'Accademia Ortolana di Piacenza, che accoglieva anche lettori e traduttori di Agrippa come Lodovico Domenichi, Giuseppe Betussi e Anton Francesco Doni, il quale, subito dopo l'uscita dei Paradossi, aveva manifestato ad Alessandro Giovio la propria stima letteraria e intellettuale verso il Lando. Sempre nel 1545 il L. si trasferì da Piacenza, divenuta parte dello Stato della Chiesa, a Torbole, sulle rive del lago di Garda, dove, caduto in miseria, pare che fosse soccorso da Truchsess. Probabilmente al seguito di Madruzzo, fu a Trento per l'apertura del concilio (13 dic. 1545) e assistette al sermone inaugurale pronunciato da Cornelio Musso, vescovo di Bitonto. Nel 1546-47 si trovava a Venezia dove collaborò con vari editori: M. Sessa, G. Giolito, ma soprattutto Arrivabene. Alloggiava sovente nella casa di B. Agnello e frequentava Pietro Aretino, con il quale intrattenne almeno dal 1540 una corrispondenza epistolare e nella cui cerchia s'inserì proficuamente. In un sonetto l'Aretino lo avrebbe definito "lampa alle più dotte scole et chiaro heroe delle scienze invitte" (Lettere di molte valorose donne, Venezia, G. Giolito, 1549, c. 12v). Particolarmente intensa fu l'attività del L. nel 1548; per l'editore A. Pincio produsse anonimamente la prima traduzione italiana dell'Utopia, stampata da Doni: La repubblica nuovamente ritrovata del governo dell'isola Eutopia… Opera di Tommaso Moro cittadino di Londra. Senza nome dell'editore pubblicò il Commentario delle più notabili et mostruose cose d'Italiaet altri luoghi, di lingua aramea in italiana tradotto, con dedica a Ludovico Rangone, nel quale, come già nelle Forcianae, trae dall'Utopia, oltre all'artificio dello pseudonimo, l'espediente di svolgere delle critiche attraverso lo sguardo di un viaggiatore.
Questo testo costituisce un catalogo etnico-socio-gastronomico estremamente eterogeneo, inserito in un itinerario quasi iniziatico che si snoda attraverso la penisola e la Svizzera meridionale, per concludersi nel Mediterraneo e in alcune terre extraeuropee. Il narratore, un giovane arameo, cittadino dell'Isola degli Sperduti, guidato da un fiorentino proveniente dalla Terra di Utopia, sviluppa una evidente parodia della letteratura di viaggi immaginari, sulla scorta di Luciano di Samosata, e si sofferma su tre categorie principali di soggetti: i cibi, gli uomini, e infine le parole, cui è attribuito un potere rivelatore. Se l'esaltazione del cibo veicola un trionfo comico della corporalità e si connette al tema del paese di Cuccagna, con possibili suggestioni da François Rabelais, in questa vera e propria Utopia rovesciata uomini e donne sono giudicati in base a due grandi criteri, le categorie professionali e i luoghi geografici di provenienza, interpretati a partire da un folto patrimonio di proverbi e stereotipi culturali. Per quanto concerne specificamente l'Italia, il L. ne presenta un quadro frantumato in realtà locali immerse in un vitale ma ingovernabile disordine, in contrapposizione all'unità aristocratica di lingua e di vita elaborata in quegli anni dalle élites intellettuali. Questa operetta enciclopedica, corredata da un Catalogo degli inventori che utilizza il De rerum inventoribus di Polidoro Virgilio da Caravaggio, presumibilmente inizia la letteratura eurematica cinquecentesca, genere sviluppato dai modelli di Plinio, Gellio, Macrobio e alimentato dalla ricerca della prisca theologia. Aspre sono le critiche ai costumi del tempo, quali la pratica della schiavitù o il duello, ma non è meno eversiva sul piano religioso l'affermazione secondo cui anche per i non battezzati "è morto Gesù Cristo", perché, come esseri "dotati di ragione", portano "in fronte come noi altri l'imagine d'Iddio" (c. 10v). L'opera ebbe ripetute ristampe veneziane: nel 1550 per Arrivabene, nel 1553 e nel 1554 per B. Cesano, nel 1569 per G. Bariletto.
Sempre nel 1548 uscirono, per G. Giolito, i Sermoni funebri de vari autori nella morte di diversi animali, dedicati a J.J. Fugger e stampati senza il nome dell'autore.
Undici autori fittizi o rispondenti a fini parodici celebrano altrettanti animali, secondo diversi modelli letterari, tra cui Luciano, Virgilio e Agrippa: proprio il più importante sermone, dedicato all'asino, si riconnette puntualmente a La digressione sulla lode dell'asino, con la quale si conclude il De incertitudine et vanitate scientiarum agrippiano. Nel testo di poetica Apologia di m. Ortensio Lando ditto il Tranquillo, collocato in appendice ai Sermoni, il L. spiega di volersi occupare di creature umili per svelare i segreti della natura. Ci si trova qui di fronte a una desacralizzazione della tradizione letteraria paludata, volta a criticare radicalmente i valori della cultura ufficiale nel segno della forza creativa ed esplicativa della parola. Nel testo, tradotto successivamente sia in francese sia in latino, non mancano infine anche spunti religiosi in chiave nicodemitica, che alludono a un accesso diretto alla parola divina tramite l'ispirazione dello Spirito Santo.
L'ultimo libro del 1548 fu la raccolta di Lettere di molte valorose donne, nelle quali chiaramente appare esser né di eloquentia né di dottrina alli huomini inferiori, curata dal L. per Giolito, ma di cui fu probabilmente in parte anche autore; essa fu pubblicata di nuovo, con numerose correzioni, l'anno successivo.
In questa opera, caratterizzata dall'uso insistito degli exempla, si ritrovano ancora il gusto spiccato per il catalogo e la tendenza al paradosso. Tra coloro che vi compaiono, si trovano alcuni protagonisti del dissenso religioso in Italia come Isabella Manrique Briseña, Olimpia Morata, forse Lelio Sozzini, e influenti personaggi antimperiali e filoprotestanti legati al circolo dell'ambasciatore d'Inghilterra a Venezia Edmund Harwel (Sigismondo Rovello). Alla fine del libro, Aretino, Ludovico Dolce, Girolamo Parabosco e Francesco Sansovino aggiunsero sonetti in lode del L., a questa data ormai divenuto a pieno titolo uno degli autori in volgare della cerchia di Giolito.
Nel 1550 il L. pubblicò sei nuovi libri, quattro dei quali per l'editore Arrivabene, di carattere prevalentemente religioso, e due per Giolito, con connotazione soprattutto letteraria. Sebbene nell'esordio de La sferza de' scrittoriantichi et moderni di M. Anonimo d'Utopia, dedicata a B. Agnello, egli dichiari di voler tacere "l'instabilità e incertezza delle scienze" e ragionare solo "delle imperfezioni che sono negli stessi autori" (c. 3v), nella conclusiva Brieve essortazione allo studio delle lettere, dedicata a Giovanni Pico, giunge a rovesciare paradossalmente questi assunti di partenza.
In questa opera, da collocare accanto alla Bibliotheca universalis di Conrad Gesner e alla prima Libraria di A.F. Doni, il lettore si trova di fronte a un enciclopedismo rovesciato che accomuna, senza un vero progetto classificatorio, da Aristotele al Cinquecento, circa 450 autori prevalentemente classici tra filosofi, poeti, storici, oratori, eruditi, giuristi. Il L. intende sostituire all'universalità totalizzante la parzialità e l'incompletezza del sapere, e critica i codici della cultura dominante, facendo un uso grottesco delle auctoritates, alle quali contrappone la semplicità e l'autenticità delle Scritture.
Mentre Grendler tende a interpretare i libri composti dal L. intorno alla metà del secolo in base alla fluida categoria dell'evangelismo, Seidel Menchi individua nei Ragionamenti familiari, nelle Consolatorie de diversi autori, dedicate a G. Pico, e nella Vita del beato Ermodoro Alessandrino, dedicata a Virginia Pallavicino e completata da un sonetto di Girolamo Ruscelli, quegli assunti religiosi di stampo radicale già impostati in precedenza.
I Ragionamenti, pubblicati anonimamente ma firmati come di consueto in modo indiretto, sono per lo più esercizi retorici disimpegnati, tra i quali solo alcuni discutono temi religiosi. La Vita, camuffata da lavoro di traduzione e strutturata in base allo schema di una bizzarra agiografia, è in realtà, secondo Seidel Menchi, un componimento originale, teso a diffondere i principî dello spiritualismo anabattista più radicale. Vi si afferma vigorosa soprattutto l'idea di un monachesimo i cui principî universali si connettono a un credo religioso libero da vincoli di riti e di cerimonie, nel quale riveste grande importanza la pratica attiva della carità. Caratterizzano le due opere un anticlericalismo che sfocia nella dottrina luterana della giustificazione per fede, la condanna settaria della ricchezza, fondata, come nell'Enchiridion erasmiano, sull'imitazione di Cristo, e soprattutto un modello di predicazione evangelica che, come nelle Disquisitiones, si ispira puntualmente al Brunfels delle Pandectae: soprattutto nella Vita il momento di esortazione al proselitismo prevale però su quello propriamente nicodemitico.
Ancora nel 1550 il L. pubblicò gli Oracoli de' moderni ingegni sì d'huomini come di donne, ne' quali si vede tutta la philosophia morale, e le Miscellaneae quaestiones. L'opera, che si credeva perduta, contiene un migliaio di questioni variegate e non classificate in alcun modo, di genere naturale, morale, amoroso ma non religioso. Nella lettera dedicatoria al lucchese Pietro Vanni il L. scrive che nella bottega di Giolito erano pervenuti il capitano lucchese Niccolò Franciotti e il medico Girolamo Donzellini, entrambi filoriformati e legati ai circoli del dissenso religioso e politico a Venezia, che facevano capo all'editore e stampatore lucchese Pietro Perna; del resto è noto che in questo periodo egli intratteneva rapporti anche con accesi filorepubblicani, come i fiorentini Iacopo Nardi e Antonio Brucioli. Tra il 1548 e il 1552 il L. frequentò e godette della protezione di vari personaggi influenti legati al reticolo ereticale veneto-padano, tra i quali Caterina da Passano Sauli, che potrebbe aver incontrato a Padova, dove si trovava nell'ottobre 1550, e Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo, entrambe poi processate dall'Inquisizione.
Fra i cinque nuovi libri che pubblicò nel 1552, almeno tre erano in relazione con quest'ultima mecenate: Due panegirici, per Giolito, concernenti Lucrezia Gonzaga e Maria Cardona marchesa di Padula e dedicati ai due "cristiani nuovi" Bernardo e Ioan Miches; le Lettere della stessa Lucrezia, per G. Scotto, e infine il Dialogo di M. Hortensio Lando nel quale si ragiona della consolatione et utilità che si gusta leggendo la Sacra Scrittura, per Arrivabene.
Con il Dialogo, opera licenziata sotto il proprio nome e dedicata alla gentildonna "conversa" Beatrice de Luna, insieme con i Panegirici, il L. potrebbe avere impostato una vera e propria operazione editoriale volta forse a favorire una convergenza tra cultura ebraica e istanze filoprotestanti. Egli illustra gli insegnamenti delle Scritture a Lucrezia, secondo il modello adottato in precedenza da Juan de Valdés nei colloqui con Giulia Gonzaga, e fonda sull'esclusivismo biblico un insegnamento teologico ed ecclesiologico articolato in sette parti. Sottolinea l'utilità della conoscenza dell'ebraico ed esalta l'ispirazione dello Spirito Santo per la comprensione dei sacri testi. Grendler è persuaso che in questa opera il L. si allontani dall'ortodossia e si accosti alla concezione ecclesiale e sacramentale espressa da Zwingli, soprattutto relativamente alla Cena, mentre sono respinte le idee degli anabattisti, che il L. nomina esplicitamente, a causa del loro rifiuto del governo civile: in definitiva il L. sarebbe un nicodemita che intende porre l'accento sui fundamentalia fidei in senso morale, senza distaccarsi dalla Chiesa cattolica. Di tutt'altro avviso invece Seidel Menchi (Spiritualismo radicale…, p. 248) che, insistendo sui legami puntuali tra l'opera landiana da una parte, e le Pandectae, i Cathalogi di Brunfels, ma non meno la Collectanea troporum di Westheiemer, dall'altra, propende per una precisa volontà pastorale e programmatica del L., che mirerebbe a sostituire ai riti e alle pratiche tradizionali una religiosità totalmente interiorizzata e attiva, tesa a fondare la "vera Chiesa" dello "spirito" contro la Chiesa falsa e carnale. Concorda sostanzialmente con questa spiegazione spiritualistica anche F. Lenzi, pur interpretando in senso luterano sia la polemica antiscolastica e antintellettualistica, sia il ripudio totale del sapere del L., mentre G. Falcone sottolinea come l'opera riprenda la condanna degli studi profani pronunciata da Agrippa al termine del De vanitate.
Il Dialogo comunque, sia per forma espressiva sia per contenuto, presenta strette similitudini con i Dubbi religiosi, dedicati ancora una volta a B. Agnello, costituenti una parziale traduzione delle precedenti Disquisitiones, e compresi nei Quattro libri de' dubbi… La materia del primo è naturale, la seconda è mista…, del terzo amorosa et del quarto è religiosa (Venezia, G. Giolito, 1552), dedicati al nobile augustano Cristoforo Mielich, che a loro volta si riconducono alle Miscellaneae quaestiones. Nei Dubbi religiosi, per Seidel Menchi l'opera teologicamente più significativa e complessa del L., egli introduce opinioni eterodosse, come la dottrina del battesimo come "puro segno", attraverso una serie di brevi e disparate domande in materia religiosa, seguite da altrettanto brevi risposte, attribuite a mecenati autorevoli come la stessa Lucrezia Gonzaga. Seidel Menchi, oltre alla dimensione spiritualistica e nicodemitica e ai precisi debiti contratti nei confronti di Brunfels e di Westheimer, sottolinea, come già nel Dialogo, alcuni elementi sociali radicali. Il L. condanna la tirannide e la rapacità dei principi, la guerra e l'accumulo della ricchezza, e pone in questione la legittimità del giuramento, ma al rifiuto di tutti i cardini della vita civile e sociale fa seguire nicodemiticamente il principio di non resistenza all'autorità, suggerendo possibili legami con le posizioni coeve degli anabattisti veneti. Delle rimanenti parti dei Quattro libri de' dubbi A. Olivieri offre invece una lettura improntata sostanzialmente alla cultura ermetica, secondo la quale il L. si riproporrebbe di definire il valore e la figura sociale dell'"intellettuale-mago". Questi, animatore di linguaggi neoplatonici, si configura come "saggio", e si produce in uno sforzo di conoscenza che pone al centro l'astrologia e la medicina. Fondamentali in questa ricerca i concetti di "virtù", intesa come dominio religioso e filosofico della morte, e di "pietà", interpretata in senso irenico e sprovvista di esclusioni di qualsiasi natura.
Nel 1552 il L. pubblicò di nuovo sotto suo nome, presso Giolito, la raccolta composita Vari componimenti comprendente, oltre a un Ragionamento largamente autobiografico e un Dialogo intitolato Ulisse, collezioni di novelle, dialoghi, favole, scherzi, e ancora, a Padova per i tipi di G. Percacino, Una breve pratica di medicina per sanare le passioni dell'animo, dedicata a David Otho, agente dei Fugger a Venezia (forse in realtà risalente al 1556). Nel dicembre 1552 o nel 1553 Giolito editò I Sette libri de cataloghi a varie cose appartenenti, dedicati a Lucrezia Gonzaga.
L'opera comprende significativamente anche un "catalogo dei moderni morti del fuoco", inaugurato da G. Savonarola e concluso dall'antitrinitario veneto Benedetto da Asolo. I Cataloghi sono una lista di tutte le cose concepibili in cui l'autore classifica uomini e donne secondo le professioni, i fatti, le qualità morali, dividendoli fra antichi e moderni ed evidenziando di nuovo la sua erudizione e la sua conoscenza dell'Italia. Nella parte dedicata agli antichi, di natura storico-morale, inserì vaste parti dell'Officina di Jean Tixier, mentre utilizzò le sezioni escluse nel Dialogo intitolato Ulisse, apparso fra i Vari componimenti, che costituisce a sua volta un'enciclopedia umanistico-rinascimentale non sistematica, non scevra da intenzioni parodiche nei confronti della letteratura di viaggio, ma anche, verosimilmente, un supporto per le mnemotecniche.
In questo periodo il L. abitava a Venezia presso Francesco Carrettone, familiare di Madruzzo, e godeva di grande credito presso la cerchia dell'Aretino; in diverse occasioni lodò le poetesse Gaspara Stampa e Veronica Gambara ed era intimo di influenti ecclesiastici come Girolamo Muzio. Probabilmente nel gennaio 1552 scrisse a Madruzzo per un'emergenza economica, ma poco dopo venne fatto incarcerare dal cardinale. L'anno successivo trascorse alcuni giorni a Padova, a casa del vescovo C. Musso, e lo persuase a stampare per Giolito la Predica con cui aveva inaugurato il concilio di Trento. Nello stesso anno, ancora da Giolito, usciva un testo attribuito al L., gli Incerti authoris brevis elocubratio nuper inventa, de his morbis, a quibus humana corpora infestari corrumpique solita sunt, completato con la dettagliata descrizione di una libreria medica, seguita da una Laus e da un'Apologia della medicina secondo il modello dei repertori editi da S. Champier. Seidel Menchi ha attribuito al L. la paternità anche di una Oratione consolatoria in morte della molto magnifica signora… Helisabetta Capodelista. Alla signora Cecilia contessa di Porciglia dotta (Padova, G. Percacino, 1555); quest'opera, come la "breve pratica di medicina", è anonima e improntata a un tono didascalico di "sermocinante compunzione", già presente nel Dialogo.
Alla metà degli anni Cinquanta il L. comparve nella lista locale di libri proibiti a Venezia, e sarebbe stato condannato nei primi due Indici universali romani e in varie liste censorie precedenti al terzo, sia in forma generale sia rispetto a opere particolari. Nel 1554 il medico e alchimista romano Pietro de Megis testimoniava all'Inquisizione di avere parlato di materie attinenti alla fede in modo ereticale "con Vincenzo Maggio e Ortensio Lando". Nel giugno dello stesso anno o del seguente il L. scrisse a Madruzzo a Trento, lamentandosi del bando dei suoi libri e chiedendogli di intercedere presso l'inquisitore di Venezia.
Dopo questa data si perdono le tracce del L., ma, secondo un documento conservato tra le carte della Congregazione dell'Indice, potrebbe essere morto a Napoli tra il 1556 e il 1559.
Il L. godette di una notevole fortuna tra il XVII e il XIX secolo, soprattutto in Francia e in Inghilterra, mentre la censura ecclesiastica, se si escludono alcune edizioni veneziane, ostacolò notevolmente la sua riproposizione in Italia; le censure iberiche si appuntarono soprattutto sui Paradossi. Al L. sono attribuite da C. Gesner nella Bibliotheca universalis e da J. Simler nell'Appendix a quest'ultima, alcune opere inedite o irreperibili: da Gesner una Oratio contra coelibatum, una Concio de baptismo, un Cathechismus sive Explicatio symboli apostolorum, dominicae precationis et decalogi; da Simler Conciones duae, de baptismo una et altera de praecibus (Seidel Menchi, 1994, p. 534). Di questi scritti, U. Rozzo ipotizza che la Dominicae praecationis pia admodum et erudita explanatio e la Exegis paraphrastica symboli apostolici siano state incluse in una miscellanea attribuita a Savonarola e stampata varie volte dall'editore Gryphius tra il 1530 e il 1546 (Rozzo, 1988, pp. 188-192). Doni, nella seconda Libraria (Venezia 1551), gli attribuisce L'imbasciatore. Dialogi cinque, mentre fra Sisto da Siena, nella sua Bibliotheca sancta (Lugduni 1593), lo indica come autore di un De persecutione barbarum. Seidel Menchi identifica infine il L. con Fioravante Rabbia detto il Tranquillo, autore di alcune Rime de gli Accademici Affidati di Pavia, Pavia 1545, pp. 186-207 (Seidel Menchi, 1994, pp. 507, 541, 544).
Fonti e Bibl.: Per le fonti autografe si rinvia a C. Fahy, Per la vita di O. L., in Giorn. stor. della letteratura italiana, CXLII (1965), pp. 243-258; Id., Landiana, in Italia medioevale e umanistica, XIX (1976), pp. 325-383; per le fonti inedite S. Seidel Menchi, Sulla fortuna di Erasmo in Italia…, in Rivista storica svizzera, XXIV (1974), pp. 541-562; per le principali fonti edite P.F. Grendler, Critics of the Italian world (1530-1560)…, Madison-Milwaukee-London 1969, pp. 223-239; per le opere recuperate dopo il 1969 U. Rozzo, La cultura italiana nelle edizioni lionesi di Sébastien Gryphe (1531-1541), in La Bibliofilia, XC (1988), pp. 161-195; S. Seidel Menchi, Chi fu O. L.?, in Rivista storica italiana, CVI (1994), pp. 501-564; le bibliografie più complete sono in Anonimo d'Utopia [O. Lando], La sferza de' scrittori…, a cura di P. Procaccioli, Roma 1995, pp. 29-32; J. Tedeschi - J.M. Lattis - M. Firpo, The Italian Reformation…, Ferrara-Modena 2000, pp. 327-333; O. Lando, Paradossi…, a cura di A. Corsaro, Roma 2000, pp. 65-78; si veda inoltre P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, VI, Roma 2002, pp. 164-168. Studi principali: W.L. Bullock, The "lost" Miscellaneae Quaestiones of O. L., in Italian Studies, II (1938), pp. 49-64; M.P. Gilmore, Anti-Erasmianism in Italy…, in The Journal of Medieval and Renaissance studies, IV (1974), pp. 1-14; S. Seidel Menchi, Spiritualismo radicale…, in Archiv für Reformationsgeschichte, LXV (1974), pp. 210-277; C. Ginzburg - A. Prosperi, Giochidi pazienza…, Torino 1975, pp. 163 s.; U. Rozzo, Incontri di Giulio da Milano: O. L., in Boll. della Società di storia valdese, XCVII (1976), pp. 77-108; C. Fahy, Il dialogo Desiderii Erasmi Funus, in Studi e problemi di critica testuale, XIV (1977), pp. 42-60; S. Seidel Menchi, Un inedito di O. L. Il "Dialogo contra gli huomini letterati", in Riv. stor. svizzera, XXVII (1977), pp. 509-527; F. Lenzi, O. L., Erasmo e la Riforma in Italia, in Annali dell'Istituto di filosofia dell'Università di Firenze, III (1981), pp. 71-101; G. Falcone, Pensiero religioso…, in Rassegna della letteratura italiana, LXXXVIII (1984), pp. 80-116; O. Lando, Nouvelles, in Conteurs italiens de la Renaissance…, a cura di G. Mazzacurati, Paris 1993, pp. 1653-1664; A. Olivieri, Les Quattro libri de' dubbi d'O. L., in Langage et vérité…, a cura di J. Céard, Genève 1993, pp. 169-178; F. Daenens, Le traduzioni del trattato Della vera tranquillità dell'anima…, in Bibl. d'humanisme et Renaissance, LVI (1994), pp. 665-694; A.R. Larsen, Paradox…, in Sixteenth Century Journal, XXVIII (1997), pp. 759-774; S. Peyronel Rambaldi, Dai Paesi Bassi all'Italia…, Firenze 1997, ad ind.; P. Cherchi, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (1539-1589), Roma 1998, pp. 98-127; M.-F. Piéjus, Italie terre étrangère, in Problèmes interculturels en Europe…, a cura di E. Baumgartner - A.C. Fiorato - A. Redondo, Paris 1998, pp. 269-279; O. Lando, Paradossi…, a cura di E. Canone - G. Ernst, Pisa-Roma 1999; A. Valori, Il gioco progettuale delle parole…, in Giorn. stor. della letteratura italiana, CXVII (2000), pp. 225-240; A.A. Brooks, The woman who defied kings, Saint Paul, MN, 2002, ad ind.; P. Procaccioli, Per O. L. a Venezia…, in Filologia e critica, XXVII (2002), pp. 102-123; M.-F. Piéjus, O. L. et l'oraison funèbre parodique, in Les funérailles à la Renaissance…, a cura di J. Balsamo, Genève 2002, pp. 469-483; M. Clément, Maurice Scève et le Paradoxe…, in Bibl. d'humanisme et Renaissance, LXV (2003), pp. 97-122; L.C. Vaccari, Un episodio della carriera veneziana di O. L.: i "Sermoni funebri", in Studi veneziani, XLIII (2003), pp. 69-97; H.-L. Baudrier, Bibliographie lyonnaise, VIII, Lyon-Paris 1910, p. 32; J.M. De Bujanda, Index des livres interdits, III-X, Sherbrooke 1987-96, ad indices.