ORIZIA (᾿Ωρείϑυια, Orithyia)
È una tipica figura di "sposa del vento" (Windbraut) di cui praticamente non viene ricordato altro che l'inseguimento e il ratto da parte di Borea. La paternità e il carattere stesso di O. vengono tramandati dagli antichi autori in maniera del tutto diversa. Le menzioni più antiche la includono nel coro delle Nereidi: di conseguenza il tema del ratto dovrebbe illustrare simbolicamente la violenza dei flutti. La tradizione attica invece la vuole figlia di Eretteo oppure di Cecrope, e di conseguenza il turbinoso amore di Borea rappresenterebbe il dominio dei venti sull'Acropoli.
Nella tradizione figurata il ratto di O. è ricordato per la prima volta tra le decorazioni dell'Arca di Kypselos. Apparizione questa del tutto isolata e completamente distaccata dal blocco compatto e uniforme delle figurazioni attiche, più recenti per età e apparentemente diverse per formulazione. È quindi verosimile che nell'Arca di Kypselos la fanciulla O. afferrata da un Borea anguiforme come Typhon non sia la figlia di Eretteo, ma piuttosto, la più antica Nereide.
Le figurazioni attiche si riferiscono tutte al periodo di rinnovata devozione per Borea dopo la severa decimazione subita dalla flotta persiana a causa di una tempesta presso il capo Artemisio. Come è noto Borea venne considerato alleato e protettore di Atene ed ebbe un santuario presso l'Ilisso. Ed è appunto a partire da questo momento (480 a. C.) che ha inizio una ricca e consistente serie di figurazioni di questo mito nella ceramica attica. In questo modo un riconoscente omaggio a Borea viene ad essere introdotto nella serie dei più popolari "inseguimenti d'amore" così comuni nella ceramografia di questo periodo. Si può anzi osservare che figurazioni analoghe come quelle di Eos e di Zephyros avevano abituato ad associare creature alate con la funzione di rapitori.
Nell'iconografia di Borea e di O. è stato possibile distinguere uno schema di inseguimento da un vero e proprio ratto. D'altra parte è superfluo rilevare come i due motivi tendono inevitabilmente ad incontrarsi e a sovrapporsi, partendo dalla figurazione più antica, con la casta fuga della fanciulla nello stàmnos del Pittore di Berlino (Berlino n. 2186) sino alle convulse contorsioni barocche di O. nelle braccia del dio nella hydrìa Atene 13119. Uno schema più insolito è quello fornito da una hydrìa di Napoli del Pittore di Meleagros, in cui O. appare sollevata sulle spalle del dio e quietamente adagiata sulle grandi ali aperte, non diversamente dalle imperatrici nelle note figurazioni di apoteosi.
O. è generalmente rappresentata con caratteri verginali, per lo più in peplo e con la chioma sciolta sulle spalle, distinta dalle compagne, anch'esse in fuga, per un più drammatico sventolare dei drappeggi. A volte s'incontra pure il motivo, forse di origine letteraria, dell'anfora caduta in terra, comune alle storie di altre fanciulle fuggenti quali Amymone o Polissena.
Il ratto di O. s'incontra in grandi edizioni plastiche nei gruppi acroteriali di Delo e di Cirene, ambedue apparentemente databili sull'estremo scorcio del V sec. a. C. Nel marmo di Delo, assai più completo, il gruppo viene ad essere arricchito della figura di un cavallo fuggente in cui molti studiosi hanno voluto vedere un'analogia con storie dell'ordine di quella di Zephyros e dell'Arpia Podarges che si unirono sotto forma di cavalli.
Meno sicura appare l'identificazione di Borea e O. in alcune lìkythoi figurate del IV sec. a. C. con gruppi raffiguranti una donna rapita da un dèmone alato. Più consistente è invece l'apparizione di Borea e O. in una serie di appliques su hydrìai di bronzo che anche per la vasta dislocazione dei ritrovamenti non è possibile ancora fissare con certezza in un centro di produzione.
Bibl.: G. Loeschke, Boreas u. Oreithyia am Kypseloskasten, Dorpat 1886; Vörner, in Roscher, III, 1896-1909, c. 947 ss., s. v., n. i; E. Frank, in Pauly-Wissowa, XVIII, 1939, c. 951 ss., s. v., n. 2; Exploration archéologique de Délos, vol. XII, p. 257, tav. XV; G. M. A. Richter, in Am. Journ. Arch., XLVIII, 1946, p. 365 ss.; E. Paribeni, Museo di Cirene, Roma 1959, n. 118.