UOMO, Origine dell'
Storia della questione. - Limitandoci al periodo più propriamente naturalistico e prescindendo dalle guardinghe e un po' vaghe anticipazioni di G.-L.L. Buffon, si può dire che J.-B. Lamarck è veramente il primo naturalista che affrontò in maniera diretta il problema delle origini dell'Uomo. Secondo il Lamarck, trasformandosi gli organi per l'influenza delle circostanze esterne, le specie devono trasformarsi, e ogni forma animale deve la sua origine a un'altra. Come le estremità posteriori del Canguro si sono sviluppate in lunghezza e in forza, avendo l'animale preso l'abitudine di stare col tronco eretto, così certe necessità, dovute a cambiamenti di ambiente, hanno potuto trasformare un quadrumane (Scimmia) in Uomo. Se degl'individui spinti dal bisogno di dominare un largo orizzonte e di vedere da lontano si sforzarono di tenersi diritti, non è dubbio che i loro piedi dovessero prendere insensibilmente una conformazione propria a tenerli in atteggiamento eretto. In maniera analoga il Lamarck spiegava la formazione di altri caratteri umani, da caratteri di Scimmie. C. Darwin nel suo libro famoso, del 1859, sul]'origine delle specie, non si occupò espressamente dell'Uomo. Lo fece soltanto nel 1871, con l'altro libro Descent of man. È bene però riferire prima le idee del Maestro. Nell'Uomo non vi è, dice Darwin, nessuna conformazione anatomica, che non sia presso altre forme viventi, e le sue facoltà intellettuali sono della stessa natura di quelle degli animali più elevati. Il cervello umano si distingue appena da quello delle Scimmie più alte. L'Uomo e le Scimmie hanno un identico sviluppo embrionale; solo più tardi si stabiliscono le differenze. L'Uomo nello stato adulto ha organi rudimentali, che sono assai più sviluppati nell'animale (muscoli del padiglione dell'orecchio, tubercolo dell'elice, membrana nittitante). Esistono tutte le gradazioni possibili fra i caratteri fisici dell'Uomo e quelli degli animali. Anche per l'atteggiamento eretto esistono approssimazione all'Uomo. Infine il Darwin cercò di stabilire che fra l'intelligenza umana e l'istinto animale non vi sono che differenze quantitative. I fattori che ebbero un'influenza preponderante nelle trasformazioni che condussero all'Uomo sono: la variabilità spontanea determinata da circostanze esterne, l'eredità, la selezione naturale. L'Uomo deriva da un membro del gruppo degli Antropomorfi, tuttavia non coincidente, e neppure troppo simile, ad alcuno dei viventi attualmente.
Fra i discepoli del Darwin dobbiamo fare un posto speciale all'italiano De Filippi, il quale, seguendo in parte il Gratiolet, considera i tre Antropomorfi non tanto come facenti parte di una famiglia speciale, quanto i capilinea di tre serie, che comprendono le Scimmie del vecchio mondo. È questa una concezione molto fondata, in linea generale. Questi tre rami devono avere avuto un'origine comune. I documenti paleontologici del tempo permisero già al De Filippi l'affermazione che le Scimmie precedettero l'Uomo. De Filippi fu il primo che pose l'origine dell'Uomo in una forma di Antropomorfo ora estinta. Egli infine credeva necessario stabilire un regno umano, a causa dell'enorme sviluppo dell'intelligenza e del linguaggio nell'Uomo, fatti che scavano un abisso fra questo e le forme superiori delle Scimmie. Tale concezione, ripetuta da autori più recenti, fu a torto criticata da V. Giuffrida-Ruggeri. L'ultimo nome da ricordare è quello di Ernst Heinrich Haeckel. Questi nel 1866, con la sua Morfologia generale in cui ricostruiva la storia filetica dell'intero mondo vivente, animali e vegetali, e ne dava gli alberi genealogici, ricostruiva anche la storia filetica dell'Uomo, in ventidue stadî, a partire dalla Monera, sulla base della cosiddetta legge biogenetica fondamentale, intravista da Serres, bene stabilita da Fritz Müller, ma solo da lui ampiamente svolta. La Morfologia generale del Haeckel è stata assai criticata e molto si è detto contro gli alberi genealogici nei passati trent'anni. Certamente l'idea fondamentale che la maggior parte dei gruppi siano disposti in una scala ascendente, monofiletica, è stata riconosciuta illusoria, ma non si pensa abbastanza che l'opera del Haeckel risale a 70 anni or sono. Ora però si comincia a dare un più sereno giudizio intorno all'una e agli altri. Gli alberi genealogici non fanno che esprimere in maniera più chiara ed evidente, ciò che una lunga esposizione dice per lo più in maniera circonvoluta. In altri termini, o si dà il bando a ogni ricerca filetica e storica, riducendo la biologia a ricerca dell'attuale, ovvero, se la ricerca filetica si fa e arriva a qualche conclusione, questa deve meglio esprimersi in una forma grafica, l'albero genealogico. Non seguiremo il Haeckel seguendo la sua serie filetica. Ormai la gran parte degli antropologi si limita a considerare l'Uomo nel quadro dell'ordine dei Primati, al più comprendendo il problema dell'origine di questo ordine e noi appunto in questa cornice vogliamo tenere la nostra trattazione: Haeckel stabilisce un rapporto fra Antropoidi e Gibbone da una parte, l'Uomo dall'altra, ma il modo di concepire tale rapporto variò alquanto nelle diverse sue sistemazioni (1866-1874-1910). Nella definitiva sistemazione, egli ammette che il più stretto parente dell'Uomo sia il Gibbone, che insieme con l'Orango e con l'Uomo costituiscono un ramo, mentre Gorilla e Scimpanzé costituiscono un altro ramo, entrambi confluenti in basso.
L'Uomo fra i Primati. - L'Uomo appartiene all'ordine dei Primati. Linneo, nella 10° edizione del suo Systema Naturae (1758), introducendo per la prima volta il nome di Primates (in sostituzione di quello di Anthropomorphae, usato nelle precedenti) poneva sotto lo stesso genere Homo e nella specie sapiens tutta l'umanità e nella specie sylvestris gli Antropomorfi, di cui allora erano conosciuti solo lo Scimpanzé e l'Orango, che egli riuniva nella specie troglodytes. Per quanto la ricerca posteriore abbia separato genericamente i due suddetti Antropomorfi l'uno dall'altro e li abbia distaccati ancora dall'Uomo, tutti i dati raccolti dall'anatomia comparata, dall'embriologia, dalla fisiologia, dalla psicologia, dalla paleontologia confluiscono nella stessa conclusione dell'assoluta appartenenza dell'Uomo all'ordine dei Primati. Chiunque perciò intenda ammettere una origine dei Primati in base alla teoria evolutiva, deve necessariamente ammettere lo stesso modo di origine per l'Uomo. Un'eccezione alla teoria evolutiva non può essere fatta per l'Uomo soltanto, ma, a ragione dei rapporti strettissimi di esso con i Primati, dovrebbe essere fatta per il gruppo intero. Ma fatti ormai numerosissimi non solo legano geneticamente i Primati a un ordine speciale della classe dei Mammiferi, quello degl'Insettivori, ma tendono ad avvicinarli anche ad alcuni altri ordini di quelli, come derivati tutti dagl'Insettivori. La rigorosa e ineccepibile constatazione dell'affinità dell'Uomo con i Primati è l'argomento speciale zoologico più valido per ritenere inverosimile la suddetta eccezione. Se però, per la maggior parte dei naturalisti competenti, l'Uomo deve la sua origine a qualche forma primatoide primitiva, la stessa concordanza non si verifica più al riguardo del problema specifico, riguardo cioè alle forme da cui esso prese origine e soprattutto riguardo al quesito se vi fu una sola o più forme di origine, se cioè le razze umane diverse hanno punti di partenza diversi. Il fatto stesso dell'esistenza di teorie monogenistiche e poligenistiche, di cui nessuna riesce a prendere il predominio, prova che riguardo al problema specifico non abbiamo ancora che dimostrazioni di maggiore o minore probabilità. Per ciò che abbiamo detto, il problema delle origini umane sì può convenientemente dividere in due parti: l'una che riguarda l'origine dei Primati e l'altra l'origine dell'Uomo nell'interno del gruppo. Per la definizione del gruppo e della sua divisione, come per cenni intorno alle più importanti forme di esso, v. le voci: catarrine; Lemuridi; Platirrine; Primati, ecc.
L'origine dei Primati. - Secondo W.K. Gregory durante il Triassico nacquero dal gruppo dei Rettili, detto dei Cinodonti (per la somiglianza della dentatura a quella dei Mammiferi carnivori) i probabili antenati dei Mammiferi. Durante le età del Mesozoico gli antenati dei viventi Marsupiali divennero gradatamente adattati alla vita arborea, perdendo soprattutto il carattere rettiliano (e , monotrematico) dell'unione ossea del coracoide con lo sterno e acquistando un'articolazione mobile fra clavicola e sterno, a ragione della necessità di movimenti più liberi, che richiede la vita arborea. Nello stesso tempo si acquistò dalle mani e dai piedi il potere di afferrare. Fra gli attuali Marsupiali, vediamo in Didelphys ancora il ricordo della primitiva limitata capacità arborea, nei movimenti lenti e striscianti di questa forma. Con ciò il Gregory ammette l'idea tradizionale che i Marsupiali rappresentino uno stadio dello sviluppo dei Placentali, per quanto egli non si pronunci sui rapporti precisi che passano tra i diversi ordini di questi e le parallele differenziazioni dei Marsupiali. Il Gregorv poi si richiama all'asserzione fatta nel 1904 da W.D. Matthew che cioè i Placentali furono primitivamente arborei. Lungo tempo prima del Paleocene i Placentali erano già differenziati in molti ordini, alcuni dei quali erano già terrestri. Dopo ciò, dice il Gregory, la questione principale a riguardo dei Primati è questa: derivarono essi da Placentali terrestri unguicolati, divenendo poi una seconda volta arborei o discesero da un tronco comune marsupiale-placentale, che non aveva abbandonato la vita arborea? Il Gregory non dà una categorica risposta a questa domanda, ma enuncia, come più probabile, l'ipotesi che in un periodo molto remoto (ma non precisato) un Placentale arboreo, che aveva somiglianza con l'opossum, diede origine a tipi arborei assai più attivi, a movimenti più vivaci e saltatorî, per i quali soprattutto si dovette modificare la primitiva (marsupiale) struttura dell'articolazione tibio-fibulare-astragalica. Questo stadio sarebbe illustrato dai fossili Plesiadapidae dell'Eocene basso, forme a cui sarebbero prossimi attualmente gl'Insettivori Menotyphla e in special modo la famiglia dei Tupaiidae con i generi Tupaia e Ptylocercus, generi di Insettivori che frequentano appunto gli alberi. I Primati proverrebbero direttamente dagl'Insettivori Menotyphla e il Lemure fossile Notharctus sarebbe il termine successivo di passaggio. A questa sistemazione del Gregory si sono fatte molte obiezioni. La derivazione dei Mammiferi dai Cinodonti non è accettata che da alcuni paleontologi; molti di essi propendono per gli Anomodonti, nel senso stretto, che hanno parecchi caratteri in comune con i Monotremi. La posizione malsicura dei Monotremi nel sistema del Gregory non è certo un argomento in favore del sistema. Al riguardo della posizione dei Marsupiali, ritenuti come uno stadio precedente i Placentali, la cosa appare dubbia, dopo la scoperta di una placenta allantoidica in Perameles. Riguardo all'arboreismo dei Placentali primitivi, asserito dal Matthew, G.V. Gidley ha emesso nel 1919 forti e validi dubbî, in seguito ai quali appare poco probabile che i Primati provengano da una forma primitivamente arborea. Concludendo, dobbiamo dire che l'origine remota dei Primati appare ancora al giorno d'oggi non chiara, per quanto l'origine prossima si debba certamente riattaccare a un gruppo degl'Insettivori. La questione dell'origine remota del gruppo dei Primati non potrà ricevere luce piena, se non saranno più chiariti i rapporti, sinora assai complicati e contraddittorî, che passano fra Monotremi, Marsupiali e Placentali. E tale compito appare solo preliminare alla delucidazione del problema totale dell'origine dei Primati.
Divisioni delle teorie sull'origine dell'Uomo. - Monogenismo e poligenismo. Una questione preliminare a una trattazione dell'origine dell'Uomo, nell'interno del gruppo dei Primati è quella se sia possibile definire rigorosamente i caratteri anatomici specificamente umani. Ricerche e discussioni in proposito non sono riuscite a mettere in luce altro che differenze di valore quantitativo, non qualitativo, l'Uomo essendo a un estremo della variazione presentata dal gruppo, non solo, ma le diverse razze umane presentando differenze non insensibili fra loro, per tali caratteri. Tali sono, per citare i principali: la capacità cerebrale, la forma dei molari, la forma della mano e del piede, le labbra mucose, il pelo delle ascelle e del pube. La prova della relatività del concetto di "specificamente umano" ci è data dal fatto della lunga discussione, del resto non ancora chiusa, se il femore del Pitecantropo sia di un Uomo o di un Antropomorfo. Dati i diversi gruppi dei Primati, che possono essere, e sono effettivamente da molti autori, considerati almeno in parte come stadî successivi, se non sempre progressivi: Lemuri, Tarsioidi, Platirrine, Catarrine, Gibboni, Antropomorfi, le diverse teorie emesse sulle origini dell'Uomo possono, in primo luogo, dividersi in gruppi a seconda dello stadio da cui esse fanno provenire il filo umano, come linea a sé indipendente; vale a dire le diverse teorie si distinguono a seconda del grado di organizzazione della forma ultima, nella serie fileitca verso l'Uomo, da cui si stacca la linea propriamente umana. È assai curioso osservare il fatto che negli ultimi tempi sono divenuti più frequenti i tentativi di formulare il distacco della forma umana da tipi sempre più remoti e meno simili agli attuali Antropomorfi. A priori si può dire che questa tendenza è fallace, in quanto moltiplica le difficoltà della spiegazione. In fondo quegli autori che fecero ricorso agli attuali Antropoidi, credevano con ciò di diminuire le difficoltà di una trasformazione, che certamente si presentano assai più notevoli, facendo ricorso ad una forma bassa nel sistema. Tutti i gruppi dei Primati sono stati utilizzati, si può dire, per il distacco dell'antenato umano.
Una divisione assai più importante ed essenziale delle teorie dell'origine è quella relativa all'origine unica o multipla dell'Umanità. Secondo alcune teorie, che si dicono monogenistiche, tutte le razze umane provengono da un comune progenitore (a qualsiasi stadio egli appartenga) e la loro divergenza si è verificata dopo il fatto della ominazione, quali si siano i meccanismi, con cui si voglia spiegare questa divergenza. Secondo altre teorie, invece, che si dicono poligenistiche, le diverse razze umane provengono da altrettanti progenitori, primatoidi, non umani, onde le divergenze delle razze umane, almeno in parte, e nella parte più importante, zoologicamente parlando, sarebbero determinate dalle differenze che passano fra i diversi progenitori. Alcuni usano le espressioni di monofiletismo e polifiletismo, in cambio delle precedenti. Tale uso non è corretto. Queste due parole indicano infatti l'esistenza di uno o più fili di derivazione, all'interno di un gruppo determinato, onde si può parlare di polifiletismo delle razze umane, anche in terreno monogenistico. Viceversa non è da credere che il monogenismo sia per sé inconciliabile con l'ammissione dell'esistenza di più generi nell'Umanità. La questione mono- o poligenismo è nel cuore stesso dell'antropologia attuale. Il monogenismo ha in suo favore la tradizione e la consuetudine mentale, cioè un'enorme forza d'inerzia, che fa apparire quasi inesistenti dei grossi problemi che non sono affatto risolti. Checché se ne pensi, il monogenismo non ha ancora dato le sue ragioni, almeno tali da resistere ad una critica profonda. Le teorie poligenistiche hanno contro di loro, oltre i due elementi citati sopra, l'imperfezione delle conoscenze anatomiche sulle razze umane e sui Primati, la scarsezza dei fossili. Ma l'aiuto che tali deficienze dànno al monogenismo è di valore negativo e pone ancora più in luce l'aspetto semplicistico della spiegazione monogenistica. A comprendere quanto la controversia fra monogenismo e poligenismo sia ancora lontana dalla sua soluzione basti considerare come sia ancora discussa la definizione e il numero delle razze umane, oscillando fortemente l'una e l'altro nelle sistemazioni dei diversi autori. E aggiungiamo che questo compito è ancora più incombente per le teorie poligenistiche, che per le avversarie, in quanto il problema delle origini delle razze, per le teorie poligenistiche, è tutt'uno col problema delle origini umane, onde il poligenista, proponendo delle soluzioni al problema delle origini dell'Uomo, insieme propone degli elementi irriducibili e fondamentali dell'Umanità, che devono essere da lui esattamente precisati e stabiliti nel loro numero. Il monogenista, al contrario, ha molto maggiore libertà nel problema delle origini delle razze, che egli persino potrebbe rimandare ad un migliore avvenire ovvero approssimativamente risolvere, come spesso fa, con dei dosaggi, più o meno all'ingrosso, dei tre tradizionali elementi antropologici: Bianchi, Gialli, Neri. Vero è che egli avrebbe il compito di dimostrare come questi tre elementi possano essersi prodotti, il che in genere è trascurato, ovvero fatto in modo niente affatto persuasivo. Ma di questo si tratterà in seguito.
Cause e circostanze dell'ominazione. - Se le diverse teorie sulle origini umane differiscono più o meno fra loro per la qualità ed il numero delle forme da cui fanno partire la derivazione umana, e anche per il luogo e il tempo dell'ominazione, una relativa intesa esiste invece riguardo alle cause e circostanze ambientali dell'ominazione e più ancora sul meccanismo anatomo-fisiologico di essa; giacché in quest'ultimo caso sono di un grande ausilio i dati dell'anatomia comparata. Quasi tutti gli autori, così, sono concordi nell'ammettere che una diminuzione dello spazio della foresta, sia stata essa diminuzione ristretta o estesa, sia la prima ragione determinante la trasformazione. Così Manouirier pensava che un diboscamento improvviso, determinato da qualche cataclisma tellurico o anche da un incendio, abbia costretto un gruppo di antenati a scendere sul terreno. Per il Douville il diboscamento sarebbe stato lento e progressivo, determinato dalla diminuzione delle piogge. Per l'Houzé la diminuzione della temperatura avrebbe diminuito la raccolta delle frutta, onde le forme antropomorfe in questione avrebbero dovuto assumere un altro tipo di nutrizione. Per il Barrell e per l'Osborn le grandi oscillazioni delle aree continentali, determinanti la formazione delle Alpi e dell'Himālaya, avrebbero prodotto la formazione del grande plateau arido centro-asiatico, ove si sarebbe formato l'Uomo. Comunque, da una circostanza di questo genere sarebbe stata imposta all'antenato la discesa sul terreno e l'atteggiamento eretto. Si dice comunemente che le modificazioni del piede debbano avere preceduto tutte le altre trasformazioni, imposte dall'atteggiamento eretto), ma così certo non fu. Le trasformazioni del piede dovettero, per l'associazione fisiologica, essere contemporanee a tutte le altre, imposte dal nuovo atteggiamento. L'autore che meglio ha studiato, nel loro insieme, le conseguenze di questo cambiamento di attitudine sullo sviluppo e quindi sull'evoluzione del cervello, è l'Anthony. Anche sperimentalmente l'Anthony dimostrò che la possibilità dello sviluppo encefalico dipese dalla regressione dei muscoli della nuca e della masticazione, regressione che, a sua volta, fu resa possibile dalla liberazione della mano dai compiti locomotori. Negli ultimi anni ha avuto una certa risonanza, limitatamente ai circoli scientifici però, una teoria dovuta all'anatomico olandese Bolk, la cosiddetta teoria della fetalizzazione. Secondo il Bolk tutte le teorie antropogenetiche peccherebbero per il fatto che le somiglianze sulle quali esse si basano non provano necessariamente parentela delle forme, che esse collegano le une alle altre, in quanto tali somiglianze possono essere gli effetti delle stesse cause. Per il Bolk, i caratteri somatici fondamentali dell'Uomo avrebbero un aspetto comune: rappresentano cioè degli stadî fetali, divenuti permanenti, mentre negli altri Primati passano ad altri stadî, Fatte poche eccezioni per i Mammiferi più grossi (Elefante, Balena) non vi è organismo in cui la maturità, o stato adulto, sia così iitardato, come nell'Uomo. Essenziale all'Uomo sarebbe il ritardo nel corso della sua vita, ciò che il Bolk chiama principio di ritardamento. Fetalizzazione delle forme e ritardo delle funzioni sarebbero entrambi determinati da modificazioni del sistema endoerino. Egli si affretta però a dire di non farsi alcuna idea della natura di queste modificazioni, avanzando solo, in appoggio alla sua asserzione, alcuni fatti della patologia. Differenze poi nelle modificazioni endocriniche porterebbero alle differenze fra le razze umane, di cui le Bianche sarebbero quelle più fetalizzate, cioè umanizzate. L'Uomo sarebbe, per così dire, una sorta di feto di Primate, divenuto capace di riprodursi in questo stato. Tale teoria ha incontrato poco consenso. Evidentemente essa è nata nella mente del Bolk, per l'aspetto del cranio del feto dei Primati, in cui la parte cerebrale predomina sulla facciale ed ha un aspetto rotondeggiante; ma questo fatto ontogenetico, che colpì tanti osservatori prima del Bolk, non prova altro che lo sviluppo precoce del cervello. Del resto per molti caratteri, mano, piede, proporzioni degli arti, ecc., la forma umana è tutt'altro che fetale. Il Neuville che assoggettò l'ipotesi del Bolk a un esame critico acuto e sereno, stabilì come per molti caratteri da lui studiati nei Primati, l'Uomo non rappresenti affatto una forma fetale e infine esprime le più caute riserve alla teoria. Questa è presentata spesso come una dottrina di derivazione: ma essa in realtà non indica in maniera concreta una o più forme precorritrici e costituisce piuttosto una teoria, scarsamente convincente, sul meccanismo fisio-anatomico dell'ominazione. Fra le diverse concezioni che cercano di spiegare le cause e le circostanze dell'ominazione come un evento obbligato, cioè determinato da fattori esterni, si distingue quella di H. Weinert per molte particolarità. Anch'egli, come molti altri, ritiene che la foresta primitiva non poté certo essere il luogo dell'ominazione. Animali arborei non potevano che rimanere arborei nella foresta. Ma, senza necessità, nessun Antropoide si espone al pericolo di restare in luoghi aperti, in condizioni svantaggiose dirimpetto a nemici, data la sua incapacità, assoluta o relativa, di muoversi sul terreno. Ciò è provato bene dalla condotta degli attuali Antropomorfi. Soltanto quindi un restringersi della foresta poté obbligare l'antenato umano a scendere sul terreno. Tale restringersi il Weinert crede dovuto all'avanzarsi di un glaciale nelle zone extratropicali del mondo antico. A G. Sera pare dubbio che un evento a sviluppo così lento, come l'avanzata del glaciale, possa avere determinato la discesa dall'albero di forme arboree. Il glaciale ha ridotto certamente la foresta, in certe zone, ma ha ridotto anche la frequenza delle forme arboree, onde l'equilibrio biologico tra animali arborei e piante si è mantenuto. Soltanto eventi a sviluppo piuttosto rapido possono avere determinato nuovi adattamenti radicali, com'è quello dell'abitato terrestre, per un animale arboreo. E neppure è necessario supporre che un tale evento sia stato esteso ad una grande zona geografica. Del resto il Sera non rifiuta neppure il carattere di una certa spontaneità al fatto dell'assunzione della stazione eretta. La stazione eretta (a gambe flesse, naturalmente, in un primo tempo) potrebbe essere stata scelta e tenuta per certi vantaggi, che essa presentava, in terreni liberi, come la visione sopra vasti orizzonti, da forme arboree, solo che le condizioni anatomiche (una testa piccola, un torace e arti anteriori relativamente leggieri) lo permettessero. Ma il fatto che caratterizza secondo il Weinert l'inizio dell'esistenza umana, se non dell'Umanità, è l'uso cosciente del fuoco. In questa opinione il Weinert fu preceduto da molti altri. Questo fatto non poté verificarsi sino a quando non si realizzarono certe circostanze necessarie. Il Weinert fa dichiaratamente, qui, opera di fantasia, ma di fantasia limitata da dati di fatto, che sono risultati dalla ricerca. L'Antropomorfo da cui partì l'Uomo, secondo il Weinert, non era più abitatore della foresta, ma del terreno. Ora è soprattutto nell'inverno ventoso della steppa, che l'azione benefica del fuoco si dovette far sentire. Dovette passare lungo tempo durante il quale l'Antropomorfo precursore si riscaldò intorno a fuochi accesi accidentalmente. Per utilizzare però intenzionalmente il fuoco, occorrevano un cervello capace d'ideazione inventiva e una mano libera. Il fuoco conquistato dal cervello e dalla mano fu il principale mezzo di trasformazione del muso animalesco nella bocca umana, il che vuol dire la capacità del linguaggio. La fiamma, dice il Weinert, è un migliore mezzo di protezione e una più temuta arma di lotta che il canino del muso animalesco; il cibo preparato col fuoco rende inutile una dentatura forte e grossa. Con l'uso del fuoco, poi, comincia per il genere umano l'autodomesticazione. Persino la perdita del pelo è ricondotta dal Weinert all'azione del freddo ambiente dall'una parte e all'uso del fuoco dall'altra, che, producendo alternative termiche, indussero l'Uomo a coprirsi di pelli. Dal fuoco ancora nacque il focolare della casa, da cui dovevano provenire tutti gl'istinti familiari e sociali, e soprattutto il bisogno di comunicazione.
La teoria monogenistica del Weinert e altre teorie antropoidiche. - La teoria filetica monogenistica più recente e condotta con maggiore rigore sistematico è certo quella del Weinert (fig.1). Essa può essere presa come paradigma di teorie monogenistiche e perciò è utile sottoporla a un esame critico, a preferenza di altre. Il Weinert pone innanzi tutto i principî su cui basa la sua discussione: è a priori inverosimile, egli dice, che gli Antropomorfi attualmente viventi siano da concepire come rami equivalenti dell'albero filetico. Se quindi si potesse dimostrare che uno dei tre attuali Antropomorfi prende una posizione speciale nel confronto degli altri due, si potrebbe allora ulteriormente ricercare se il carattere sul quale si è stabilita la sua posizione speciale si ritrovi anche nell'Umanità o in una parte di essa. Tale ricerca deve in ogni modo condurre ad un risultato. Se così il carattere distintivo si riscontrasse presso tutta l'Umanità e non presso i due restanti Antropomorfi, ciò parlerebbe per un rapporto filetico con l'Antropomorfo che ne è stato distinto. Se invece il carattere si ritrovasse presso una sola razza principale dell'Umanità, ciò parlerebbe in favore del poligenismo. Se infine il carattere distintivo non si trovasse in un Antropomorfo, bensì negli altri due e presso l'Umanità, l'Umanità sarebbe da congiungere con questi due. Poco si può obiettare a questi principî generali, ma il punto principale è che di tali caratteri che permettano tagli così netti ed i cui risultati non si prestino a spiegazioni assai diverse, ne esistono assai pochi, presumibilmente. Vero è che, più oltre, nella discussione particolare dei diversi caratteri presi in esame, il Weinert specifica certi aspetti e condizioni, cui devono ottemperare tali caratteri, per essere veramente validi, ma ciò che diremo criticando i risultati dell'esame del Weinert, riguardo al più importante, secondo lui, dei caratteri da lui considerati, ci fa scorgere quante siano le difficoltà di trovare dei caratteri, che corrispondano realmente alle condizioni poste. Tali caratteri infatti dovrebbero non essere in dipendenza di nessuna funzionalità e dovrebbero essere ereditarî. Ora se non si presentano difficoltà insuperabili ad accertare il secondo punto, è sommamente difficile arrivare ad una certezza, riguardo al primo. L'assicurare la non funzionalità di un carattere è relativo allo stato dell'analisi biologica (non cioè puramente morfologica) di un certo gruppo di forme e, diciamolo pure, è relativo alla perspicacia dell'osservatore. In realtà forse non esistono caratteri morfologici che non siano, o non siano stati, funzionali. Certi lo sono con piena evidenza, altri con minore, per altri infine, ora, non vediamo la funzionalità, ma occorre avere presente che in avvenire ci potrebbe essere rivelata. D'altra parte ed è bene dirlo subito, se consideriamo la possibilità che un carattere spesso (e tanto più, quanto più manifestamente funzionale) si presenti in più forme soltanto per convergenza, per produzione parallela, arriviamo alla conclusione che i caratteri filetici, cioè validi a stabilire le parentele, devono essere rari, molto più rari di quanto si creda attualmente dagli antropologi. Ed è proprio questa, secondo il Sera, la ragione per cui non abbiamo ancora una teoria delle origini umane soddisfacente. In base a questa considerazione, possiamo meglio giudicare l'asserzione del Weinert che sia necessario fondare i risultati sopra più caratteri. In realtà, un solo carattere, veramente buono, ci può indurre a conclusioni più giuste di quello che possa la somma dei risultati desunti da più caratteri mediocri. Queste questioni non si possono risolvere con criterî quantitativi e vale più una ricerca, condotta con estremo rigore, sopra uno o pochi caratteri validi, che la combinazione esteriore ed erudita di ricerche sopra caratteri di mediocre valore, eseguite da studiosi diversi. Il carattere fondamentale, sul quale il Weinert appoggia le sue considerazioni, e quello i cui risultati gli fornirono un'ipotesi di lavoro, alla luce della quale egli esaminò i risultati desumibili da altri caratteri, è il fatto della presenza, o no, dei seni frontali, cioè di cavità più o meno estese e pari, riempite solo di aria, nella parte anteriore e più bassa del frontale. Era noto da tempo, dice il Weinert, che l'Orango non possiede seni frontali, mentre il Gorilla e lo Scimpanzé li hanno, come in maggiore o minore misura li possiedono gli Uomini diversi. Notiamo subito che i seni, per ciò che riguarda l'Umanità, sono talvolta assenti e sempre piccoli o piccolissimi in certe razze (molti Negri, Negrilli, alcuni gruppi mongoloidi o mongolici). Nel caso che si dimostri, argomenta il Weinert, che tutti gli Uomini e gli Antropomorfi africani (Gorilla e Scimpanzé) possiedano i seni frontali e qualora si dimostri, si noti bene, che tutte queste formazioni sono lo stesso fatto e non fenomeni di convergenza, si potrebbe dedurne il legame di parentela fra i due gruppi. Qualora invece fosse esatta l'ipotesi poligenistica, la mancanza dei seni frontali si dovrebbe verificare in una parte dell'Umanità, in questo caso nei Mongoli, o per lo meno si dovrebbe presentare una certa correlazione, giacché il pretesto che i discendenti umani dell'Orango possano avere acquistato in seguito i seni frontali, che gli altri Uomini avevano ricevuto, già costituiti, dall'antenato antropomorfo non ha bisogno di essere contraddetto, essendo evidentemente falso. A queste asserzioni di carattere assiomatico occorre fare molte osservazioni: si tratta veramente, in primo luogo, in tutte le forme suddette, dello stesso fatto morfologico? Il Sera ha esposto i suoi dubbî, sulla comparabilità dei seni frontali del Gorilla con quelli del tipo di Neandertal. Mentre nel Gorilla il seno frontale è dato soprattutto dall'arretramento della parete posteriore del seno, nella razza di Neandertal esso è determinato dal protrudere, sopra il nasion, della parete anteriore (v. oltre). In misura più limitata (i seni sono più piccoli), questa osservazione vale anche per l'Uomo attuale, laddove esiste un seno frontale. In secondo luogo è veramente possibile eliminare la convergenza? L'esame dei risultati raggiunti dal Weinert per gli ordini diversi dei Mammiferi ci permetterà di rispondere con fondamento a questa domanda. Ricordato che apparentemente i Rettili sono privi di seni, che perciò appaiono solo nei Mammiferi, egli dice ehe uno sguardo d'insieme sulla loro presenza indica subito che non esiste un solo prodursi del fenomeno, ma che esso si produce più volte indipendentemente come fatto di convergenza. Ma, se in ciò esiste, egli continua, una aumentata difficoltà per trarre delle conseguenze sulla filogenesi umana, la difficoltà è diminuita, tuttavia, da un altro risultato e cioè: sebbene all'interno di una famiglia i diversi generi si possano comportare diversamente, il genere si comporta sempre unitariamente. Ora ciò, nota il Sera, è inesatto. Il genere Lemur, ad es., presenta la specie varius senza seni, la specie mongoz con seni voluminosi. Il Weinert trae dalle precedenti asserzioní due conclusioni:1. che il carattere è ereditario, il che si può concedere; 2. che esso non è necessario alla vita, perché altrimenti non si presenterebbe in una specie e sarebbe assente in una affine. Ma qui, osserviamo, non si può parlare di necessario alla vita, bensì soltanto di funzionalmente utile, e tale è certo il carattere, come si dirà.
All'ingrosso si può dire che in tutti gli ordini esistono generi forniti ed altri sforniti di seni frontali; il Weinert ritiene che l'assenza dei seni sia la condizione primitiva, da cui alcuni generi o famiglie, in ogni ordine, si sono allontanati indipendentemente, per convergenza, acquistando dette cavità. Questa asserzione, di grande importanza, per le conclusioni del Weinert, è ritenuta dal Sera assai poco probabile e forse addirittura, nella sua generalizzazione, falsa. Altro punto importantissimo della dimostrazione del Weinert: egli crede di poter escludere ogni rapporto con funzioni qualsiasi di detto carattere. Egli esclude così una relazione con le dimensioni dell'animale, uno scopo di alleggerire il peso del cranio e simili. Il Sera, al contrario, ritiene che l'assenza di seni frontali sia correlativa con un cranio facciale lungo o stretto o entrambe le cose insieme. Così, in ogni ordine, sono proprio i generi o specie a muso più lungo e stretto, che non hanno seni frontali, mentre li presentano quelli a muso corto o largo, o ad entrambi i caratteri insieme. Ma, più importante ancora, il Sera ritiene che la presenza dei seni sia primitiva, almeno per la maggioranza degli ordini dei Mammiferi, e, soprattutto, per i Primati. Già il fatto che il muso lungo e stretto è certo un carattere secondario, parla in tale senso. Ma abbiamo molti altri fatti, fra quelli posti in luce dal Weinert stesso, che confermano la cosa: l'ippopotamo nano, che è certo più primitivo dell'ippopotamo comune, ed è a muso più corto, si noti, ha seni che non ha la forma derivata a più grandi dimensioni. Nelle Platirrine hanno seni le forme più basse del sistema, non li hanno le elevate. Nei Lemuri ha seni talvolta il genere Lemur, certo uno dei più primitivi, non hanno seni le Lorisidae, assai più elevate. Il Sera del resto ritiene che altri fattori influenzino il carattere: comunque le cose dette sono sufficienti a indicare che l'indipendenza dalla funzione del carattere in questione e la primitività dell'assenza dei seni sono tutt'altro che dimostrati. Il Weinert crede, in base alle esposte risultanze, di potere escludere, ad un certo livello, dal filo umano il Gibbone e l'Orango, come forme che non presentano seni frontali, mentre il Gorilla, lo Scimpanzé avrebbero con l'Uomo di tutte le razze un antenato comune, che appunto aveva acquistato i seni frontali, come carattere ereditario. Egli poi esamina altri caratteri, come la distanza interorbitaria, l'osso centrale del carpo, alcuni muscoli, l'arco dell'aorta e le diramazioni arteriose che ne emanano, la divisione del polmone in lobi, la forma degli spermatozoi, ecc. Il Weinert arriva ad ogni modo ancora alla conclusione suddetta, che chiaramente deriva dai suoi risultati al riguardo dei seni frontali, e procede poi a stabilire quale dei due Antropomorfi, Gorilla e Scimpanzé, sia più ucino all'Uomo, o, in altri termini, quale si sia distaccato dal filo comune più precocemente. Per arrivare a questa conclusione egli passa in esame oltre ad alcuni dei caratteri che servirono all'analisi precedente, come, ad es., i seni e la distanza interorbitaria, altri ancora, fra cui ricordiamo soltanto la lunghezza interna della cavità cerebrale, l'osso intermascellare. Anche in questo ulteriore procedere delle argomentazioni del Weinert, la massima importanza è data sempre al carattere dei seni frontali. Egli stabilisce l'esistenza di tre diversi tipi di seni per il Gorilla, lo Scimpanzé e l'Uomo (fig. 2). Il Weinert ritiene che la grandezza e la forma del seno dello Scimpanzé rappresentino la condizione primitiva (del filo comune, beninteso) da cui il Gorilla si sarebbe allontanato per l'ampliamento e la modifica della forma in senso opposto a quello dell'Uomo. L'assenza del seno nell'Uomo, quando si verifica, non sarebbe, secondo il Weinert, un fatto primario, ma secondario. L'Uomo di Neandertal avrebbe un seno che per i suoi caratteri costituisce una condizione intermediaria fra l'Uomo attuale e lo Scimpanzé. Anche i tre pezzi fossili appartenenti agli Uomini più primitivi (e rappresentanti di uno stadio che il Weinert chiama Anthropus) e cioè il Pitecantropo e i due cranî appartenenti al Sinantropo, hanno seni frontali che si approssimano a quelli dello Scimpanzé. A riguardo di queste asserzioni del Weinert, oltre quello che si è detto a proposito della pretesa primitività dell'assenza dei seni frontali, occorre di nuovo osservare che la forma del seno frontale nella razza di Neandertal è affatto diversa da quella dello Scimpanzé. Un cranio recentemente scoperto, illustrato appunto dallo stesso Weinert, il cranio di Steinheim (fig. 3), dimostra bene, secondo il Sera, la cosa. Senza insistere su ciò, quello che si è detto basta a convincerci quanto le argomentazioni del Weinert siano discutibili. Ma non solo sono discutibili le asserzioni sui seni frontali, giacché anche i risultati delle indagini di altri autori, da lui riferiti, riguardo ad altri caratteri, non sono così affermativi, come sembra al Weinert. Alludiamo, fra questi, soprattutto ai risultati relativi alla forma dell'orecchio esterno.
Il Weinert, in base all'esame dei caratteri ricordati innanzi, arriia alla conclusione che il Gorilla diramò a sua volta dal tronco comune Gorilla-Scimpanzé-Uomo, in guisa che ne risulta la più stretta parentela fra lo Scimpanzé e l'Uomo. Di ciò egli ricerca la conferma paleontologica, dapprima, nelle forme diverse, che, più o meno, possono ritenersi di passaggio fra l'Uomo e gli animali. Il Weinert critica, giustamente, la famosa denominazione di "missing link", l'anello mancante della catena evolutiva, in quanto esso è di solito concepito come una media quasi aritmetica fra Uomo e Scimmia. Uomo e Scimmia sono due concetti, da cui non si può ricavare una media. Se noi, afferma il Weinert, troviamo dei fossili che possiamo collocare più dal lato umano o più dal lato antropoidico e in cui, tuttavia, i caratteri dell'altra parte (Antropomorfo o Uomo) sono chiaramente riconoscibili, tali fossili noi possiamo denominare "termini di passaggio" "forme di mezzo". Ora noi abbiamo, continua il Weinert, molti reperti, per la cui diagnosi anche specialisti serî non addivengono ad un'opinione concorde: fossili cioè che da alcuni sono detti antropomorfici, da altri umani, e da entrambe le parti con argomenti opportuni. In tali fossili abbiamo veramente dei termini di passaggio. Tali sarebbero, secondo il Weinert, l'essere a cui appartengono i denti trovati a Taubach nel 1895 e che furono, a volta a volta, attribuiti ad uno Scimpanzé o ad un Uomo, poi un gruppo speciale di denti di Dryopithecus (v. antropomorfi: Gli antropomorfi fossili), riuniti sotto la specie germanicus, quindi l'Australopithecus africanus (un cranio trovato nel Sudafrica) e ancora il Pitecantropo, il Sinantropo, l'Eoantropo (v. paleoantropologia). Senza entrare nella discussione della fondatezza maggiore o minore dell'introduzione dell'una o dell'altra di queste forme nel gruppo delle forme di passaggio, la circostanza importante sarebbe che, secondo lui, tutte queste forme si possono avvicinare solo allo Scimpanzé e non ad altri Antropomorfi; ma ciò è più che dubbio per la maggior parte di essi. Infatti il reperto di Taubach e quelli del Dryopithecus consistono in denti. Ora questi organi non consentono diagnosi sistematiche sicure in più di un caso. Australopitheecus ha caratteri facciali assai diversi da quelli dello Scimpanzé, per cui esso costituisce un tipo a sé, differente da ognuno degli Antropomorfi viventi. Per ciò che riguarda il Pitecantropo, il Dubois ancora recentemente lo avvicina al Gibbone, per la forma della calotta. Il Sera pensa che la forma del cranio cerebrale non ha un grande significato, per indicarci o escludere parentele con questa o un'altra forma, dipendendo essa da fattori architetturali, aventi un loro particolare significato. Press'a poco le stesse cose valgono per il Sinantropo. Per quello che riguarda l'Eoantropo, tale reperto (v. paleoantropologia) è ancora così enigmatico che vale meglio non portarlo ad esempio di un'affinità particolare. Passando poi alle forme più sicuramente ed evidentemente appartenenti all'Homo, abbiamo il gruppo dei Neandertal. Anche in questi il Weinert trova caratteristiche che li collegano con Scimpanzé e non con Gorilla, come spesso si è detto. Sennonché i risultati raggiunti da molti autori, al riguardo delle ossa dello scheletro della razza di Neandertal, fanno concludere che esse presentano ben poche approssimazioni alle ossa degli Antropomorfi in genere e a quelle dello Scimpanzé in specie. Secondo il Weinert, soltanto nel Paleolitico superiore si avrebbero le prove sicure della divisione dell'Umanità in sottospecie o razze, nelle diverse forme appartenenti all'Homo sapiens fossilis. Queste diverse forme non dimostrerebbero nessun carattere che impedisca la derivazione dall'Uomo di Neandertal. Egli però concede che gli antenati delle forme dell'Uomo suddetto siano da ricercare nello stadio Anthropus. La razza di Grimaldi sarebbe precorritrice del ramo negroide e il reperto di Combe-Capelle, con minori probabilità, l'antenato degli Eschimesi e quindi del tipo mongolico. In realtà quest'ultima affermazione, che è simile ad un'asserzione di H. Klaatsch su questa forma, è condivisa da pochissimi al giorno d'oggi, perché i più vedono nel Combe-Capelle dei caratteri ben definiti di Australiani. Passando all'uomo recente, il Weinert ammette i soliti tre grandi rami: Bianchi, Gialli e Neri, e ritiene che i primi rappresentino una sorta di linea mediana, da cui gli altri due sono derivati. In questa linea mediana, gli Australiani rappresenterebbero la forma più antica, la quale dimostrerebbe più chiare reminiscenze scimpanzoidi, che si andrebbero attenuando a mano a mano che le altre forme di questa linea mediana realizzano meglio il tipo umano. Il ramo mongolico sarebbe più recente. Tutte le forme recenti e fossili dell'Uomo sarebbero comprese in una sola specie collettiva, appartenente ad un solo genere, mentre il termine Hominidae non avrebbe il valore comune zoologico di famiglia. Al riguardo del luogo dell'ominazione, il Weinert afferma giustamente che non è possibile di stabilirlo con esattezza. Un reperto fossile in un certo territorio non è in nessuna maniera (almeno, noi diciamo, da un punto di vista monogenistico) la prova dell'ominazione sul detto territorio. Contrariamente alla tante volte affermata origine asiatica, il Weinert dice che, nel caso, la zona dell'Europa centro-occidentale sembrerebbe la più indicata, a ragione dell'abbondanza di fossili venuti alla luce. Al riguardo del tempo dell'ominazione, la teoria del Weinert, ravvicinando l'Uomo all'antenato dello Scimpanzé, vale a dire ad una forma specializzata, tende a ringiovanirlo, in confronto di altre teorie. Ora la paleontologia ci dice che, almeno nella prima parte del Pliocene, se non più tardi, le due stirpi dello Scimpanzé e dell'Uomo erano unite ancora (in Dryopithecus). Anche per altre considerazioni, il Weinert ritiene che il periodo critico per l'ominazione fu il passaggio dal Terziario al Glaciale. L'Uomo, secondo il Weinert, appartiene al Glaciale.
Concludendo questo esame della dottrina del Weinert si può affermare che la dimostrazione dell'origine monogenistica dell'Umanità, da una forma prossima allo Scimpanzé, non può dirsi raggiunta. La sistemazione del Weinert lascia anche aperta, in gran parte, la questione della genesi delle differenze raziali. Tutte le teorie monogenistiche si contentano del resto di vaghe e generiche asserzioni, riguardo alla genesi di queste differenze. Solo negli ultimi anni un tentativo è stato fatto da E. Fischer, con la sua teoria della domesticazione (v.). Egli, partendo dall'asserzione che il processo dell'incivilimento umano sia comparabile alla domesticazione degli animali da parte dell'uomo, costituisca cioè un'autodomesticazione, attribuisce all'intervento di essa l'origine delle caratteristiche raziali. Al Fischer diede largo consenso il Giuffrida-Ruggeri. Il Fischer moltiplicò, oltre ogni dire, i caratteri che originerebbero dalla domesticazione, senza dimostrare il meccanismo per cui questa agirebbe nella loro determinazione, il che era pure necessario fare. Non si comprende poi come una causa in cui essenzialmente risiederebbe l'evoluzione umana, cioè un processo che agisce su tutta l'Umanità, più o meno, abbia potuto produrre risultati spesso opposti, come, ad es., l'occhio caucasico e l'occhio mongolico.
Esistono altre teorie monogenistiche che fanno ricorso più o meno diretto agli Antropomorfi e che differiscono alquanto da quella del Weinert. Così, ad es., quelle di A. Keith, di G.E. Smith, di W.K. Gregory. Ma le differenze non sono molto grandi e occorre anche dire che queste teorie non sono condotte con il formale rigore e con gli sviluppi di quella del Weinert.
Le teorie monogenistiche di derivazione da forme basse. - Nel 1918, F. Wood-Jones poneva in particolare rilievo l'importanza del Tarsio di questa strana forma di Primate dell'Indonesia, per le questioni dell'origine. Egli affermò che esso sia più strettamente affine all'Uomo, che alcun altro animale del gruppo. Il Tarsio formava con l'Uomo una coppia alla base del tronco primatoide nell'Eocene e il filo umano avrebbe seguito la sua via indipendente fino da quel tempo remotissimo. L'Uomo, secondo Wood-Jones, è l'unico animale che possieda nella gamba il muscolo peronaeus tertius, il quale è connesso alla stazione eretta. E, ritenendo egli tale muscolo antichissimo, la stazione eretta sarebbe assai remota. I tipi più distinti dell'Umanità attuale avrebbero un'origine come rami paralleli a sé, in guisa polifiletica. La teoria del Wood-Jones appare poco verosimile, data la così grande differenziazione del Tarsio, animale adattato ad uno specialissimo modo di esistenza (salto in altezza negli alberi, vita notturna, ecc.) che rendono impossibile quasi la sua utilizzazione come forma di partenza, anche se ammettiamo che gli Anaptomorphidae (forme fossili ad esso affini) non avessero il grado di specializzazione attualmente raggiunto dal Tarsio.
Un'altra recente teoria che merita di essere ricordata, se non altro per la sua singolarità estrema, è quella di M. Westenhöfer. Questo autore, contrariamente all'opinione della gran parte degli studiosi, ritiene che il piede umano non possa essere un piede prensile, arboreo, trasformato, ma che esso sia stato primitivamente terrestre. Nella più recente formulazione del suo pensiero (1935), il Westenhöfer così si esprime: "L'Uomo sarebbe passato per uno sviluppo a lui proprio, che è fondato nel tipo generale dei Mammiferi, ma in nessun Mammifero specialmente, come tale riconoscibile, da cui egli sia potuto partire. L'origine umana avvenne prima di ogni altra specializzazione mammale, compresa quella delle Scimmie. L'ominazione, cioè, avvenne alla radice dei Mammiferi, l'Uomo perciò non può essere considerato come l'origine degli altri Mammiferi; al più questo si potrebbe ammettere per le Scimmie. Ma anche questa ipotesi è superflua, l'insieme dei Mammiferi potendo esser concepito come un cespuglio di arbusti con un grosso blocco di radici". Nella sua ultima formulazione il Westenhöfer si è, così, alquanto allontanato dall'asserzione del 1926: la quale era che la serie dei tre principali gruppi dei Primati, Proscimmie-Scimmie-Uomo dovesse esser rovesciata e suonare viceversa: Uomo-Scimmie-Proscimmie. Alle idee del Westenhöfer fece una critica rigorosa, e in complesso giustificata, J. Versluys.
Una dottrina che occorre ricordare con qualche sviluppo è quella dell'Osborn (fig. 4). Partigiano fino al 1924 della più stretta affinità fra l'Uomo e gli Antropomorfi, l'Osborn cominciò a sospettare della validità di questa opinione per due fatti:1. Che le proporzioni degli arti di tutte le razze primordiali, finora scoperte, dell'Uomo erano affatto umane. 2. Le mani nella razza di Neandertal sono affatto umane, sia per i caratteri del pollice, sia per quelli delle altre dita. Ma il colpo più forte alla sua antica convinzione fu dato dalla scoperta, nel Red Crag dell'angolo sud-orientale dell'Inghilterra, in una formazione sicuramente pliocenica, di due industrie litiche (quella detta del Sub-Red-Crag e quella chiamata di Foxhall, entrambe scoperte dal Moir), l'una e l'altra così perfezionate, da ritenere che l'essere che le ha create dovesse possedere non solo mani permette, ma un forte sviluppo cerebrale. L'Osborn poi dice come un'altra spinta al suo cambiamento di idee fu data dall'esplorazione americana della Mongolia e dalla scoperta fattavi di estesi orizzonti fossiliferi dell'Oligocene. La fauna mammale che questi orizzonti presentano, sarebbe indicativa di un evento della più grande importanza per la storia dei Mammiferi, cioè della prima modernizzazione di tutta la classe, dovuta alla prima grande ondata di aridità, collegata con la completa elevazione del grande altipiano continentale alpo-himalayano. Questa ondata di ardità e l'elevazione, produssero una profonda divisione della fauna mammale, di cui una parte, conservatrice, rimase una fauna calda e forestale, l'altra, progressiva, divenne una fauna di piani temperati o di altipiani fresehi. Ora, dice l'Osborn, in tutti gli ordini di Mammiferi avvenne tale sdoppiamento ed è logico che esso avvenisse anche nei Primati. Convergendo in ciò, a sua insaputa, con idee espresse dal Barrell nel 1917, l'Osborn venne poi alla conclusione che l'Uomo non poté formarsi in un ambiente forestale e caldo, ma che solo un ambiente aperto e piuttosto freddo poté spingerlo sulla strada dello sviluppo mentale, attraverso una severa competizione vitale. L'Osborn, pur indicando come più probabile sede di origine dell'Umanità, l'Asia centrale, non esclude l'Africa. Per analogia col restante della fauna mammale, il tempo del distacco del Preuomo dal gruppo dei Primati, sarebbe per lui l'Oligocene. Si vede da ciò quale enorme spazio di tempo avrebbe dietro di sé l'Umanità attuale, dato che i calcoli più ristretti dànno 16 milioni di anni per il tempo trascorso dall'Oligocene. L'Osborn, senza precisare troppo i caratteri della forma ancestrale da cui è partito, da epoche così remote, il filo umano, arriva alla conclusione che l'Uomo Scimmia è un mito, che tutte le somiglianze sono casi di prolungata comune eredità di caratteristiche proprie a tutti i Primati, ovvero di parallelismi ed analogie di adattamenti, sopra un fondo comune.
Le teorie poligenistiche. - Nel 1908, G. Sergi formulò una teoria delle origini umane, che completò poi nel 1913. In base a questa teoria, la discendenza umana avrebbe avuto luogo per cinque fili, e gli Antropomorfi viventi e fossili sarebbero associati ad essi. Così il ramo umano estinto Palaeanthropus (v. razza: Le razze umane), che abbraccia, secondo le idee del Sergi, i resti neandertaliani, sarebbe associato a Dryopithecus; il genere Notoanthropus sarebbe associato al Gorilla e allo Scimpanzé; il genere Heoanthropus (Mongolici) sarebbe associato all'Orango. I due generi Archaeanthropus (resti di Necochea) e Hesperoanthropus (Uomo americano) sono invece uniti ad un genere Proanthropus, nome dato dal Sergi ad alcuni fossili sud-americani, descritti dall'Ameghino, e di dubbia interpretazione, secondo i più, ma che il Sergi ritiene sempre appartenere all'Uomo. I più evidenti motivi degli abbinamenti sergiani sono geografici, il che in realtà non è sufficiente. Inoltre l'unione del Gorilla e dello Scimpanzé non è giustificata, presentando queste due forme fra loro molte differenze essenziali.
Nel 1910 il Klaatsch pubblicava un'importante memoria, dove prendeva, dapprima, in esame i caratteri scheletrici della razza di Neanderthal in confronto di quelli del Gorilla e i caratteri dello scheletro fossile, dallo Hauser scoperto a Combe-Capelle (razza di Aurignac; v. Paleoantropologia) in confronto di quelli dell'Orango. Egli trovava sopratutto nel cranio e nello scheletro dell'arto anteriore, e, in minor misura, nello scheletro dell'arto inferiore, delle concordanze fra Gorilla e Neanderthal da una parte, fra Aurignac e Orango dall'altra. In una seconda parte del suo lavoro, egli induceva un rapporto di parentela fra i due membri di ogni coppia e arrivava ad una più vasta teoria, secondo la quale dei primitivi Prepitecantropi, a caratteri umanoidi più che antropomorfici, avrebbero dato luogo, almeno, a due rami principali. Dall'uno di essi si sarebbe svolto, inoltrandosi sempre più nel senso umano, l'Uomo di Neanderthal, decadendo, invece, sempre più nel bestiale il Gorilla; dall'altro ramo fatti analoghi avrebbero dato luogo all'Uomo di Aurignac e all'Orango. Nel pensiero del Klaatsch, gli Antropomorfi sarebbero quasi degli esperimenti non riusciti della natura a creare l'Uomo. Vel ramo Gorilla il Klaatsch localizzava i Negri ad alta statura. È stato facile a coloro che hanno preso in esame questa teoria, dimostrare che i caratteri su cui sono stabiliti i due abbinamenti sono superficiali e di poco valore, onde essa è inaccettabile.
T. Arldt fa avvenire la divisione in fili del tronco dei Primati a livello degli Anaptomorphidae eocenici. I Lemuri restano esclusi da questa partizione in tre fili. Un primo filo sarebbe quello dei Gialli (Mongoloidi) che darebbe, come rami divergenti, tutte le Scimmie (meno le Hapalidae) e più in su, verso l'Uomo, l'Orango. Un secondo filo, quello dei Bianchi, darebbe, come rami collaterali, oltre che le Hapalidae, i Gibboni, il fossile Dryopithecus e lo Scimpanzé; il terzo filo, quello dei Negroidi, avrebbe, come ramo collaterale principale, il Gorilla. I caratteri però su cui l'Arldt fonda i suoi abbinamenti fra un Antropomorfo e un gruppo umano non sono certo molto validi. Ciò non significa necessariamente che gli abbinamenti non siano legittimi; base morfologica della teoria è però troppo insufficiente, per non dire di altre obiezioni.
In base allo studio della conformazione della regione della faccia, corrispondente alla zona di contatto delle apofisi ascendenti dei mascellari, dei nasali e della parte più bassa e mediana del frontale (regione detta fronto-naso-lacrimale) nelle Scimmie e negli Uomini, il Sera, nel 1919, affermò l'esistenza di sei tipi di conformazione diversa della regione, che egli seguì negli stadî successivi delle Platirrine, Catarrine, Antropomorfi, Uomini, stabilendo così l'esistenza di sei linee di sviluppo nell'interno del gruppo generale. Egli perciò ammetteva l'origine poligenistica dell'Umanità, da sei forme diverse primitive, non escludendo però che la stessa forma primitiva abbia potuto dare origine talvolta all'Uomo, in più di una sede. La persistenza dello stesso tipo della suddetta regione, negli stadî successivi innanzi detti, è, per il Sera, una garanzia che il carattere è poco sensibile a differenze funzionali o a cause esteriori e pare perciò al Sera uno dei pochi buoni caratteri filetici finora trovati. Alla sistemazione suddetta fecero opposizione, in maniere diverse, il Giuffrida-Ruggeri e il Vallois, ma entrambi in base a considerazioni di natura generica e non specifica, com'era necessario di fare, in base, cioè, alla considerazione diretta e accurata del carattere dal Sera studiato. Questi perciò non crede che siano state presentate contro la sua sistemazione obiezioni valide. Egli però attualmente tende a ritenere che i tipi umani fondamentali, terzo e quarto, stabiliti nel suo lavoro del 1919, vadano scissi e quindi il numero dei fili aumentato. Ad ogni modo, già nel 1919, il Sera esprimeva la sua opinione che a quello da lui studiato occorreva aggiungerne altri, che si dimostrassero buoni caratteri filetici e non escludeva che in altri sistemi si possano trovare caratteri ancora migliori, presentando la sua sistemazione non in maniera dogmatica, ma come suscettibile di modifiche e miglioramenti.
Una posizione a parte occorre dare all'ipotesi che segue:
L'ipotesi dell'ologenesi umana. - Anche la teoria dell'ologenesi (v. evoluzione: Teoria dell'ologenesi) del Rosa è stata applicata all'antropogenesi e ciò per merito di G. Montandon (fig. 6). Secondo quest'autore le suddivisioni dell'ordine dei Primati sono in rapporti diversi di parentela con la linea dell'Uomo attuale. Così la famiglia degli Hominidae (termine più ampio in cui il Montandon comprende anche il Pitecantropo e l'Australopithecus in confronto degli Uomini, gruppo che contiene le forme attuali) si sarebbe distaccata dai Lemuri, senza passare per le Scimmie e gli Antropomorfi. Conforme alla teoria ologenetica, i più antichi precursori dell'Uomo sarebbero stati dispersi su tutta la superficie terrestre e solo le specie nuove preumane avrebbero ristretto alquanto il loro abitato. Il luogo di origine dell'Umanità non sarebbe ristretto a una zona, ma diffuso su tutta la Terra o almeno su gran parte di essa (tranne forse l'America). Per successive dicotomie, con formazione di una sottospecie precoce, frusta, e un'altra tardiva e più ricca di possibilità, si sarebbero formate le otto grandi razze, che il Montandon riconosce e cioè in ordine evolutivo: Pigmoide (precoce), Tasmanoide (precoce), Negroide (tardiva), Vedda-Australoide (precoce), Amerindoide (precoce), Eschimoide (precoce), Mongoloide (tardiva), Europoide (tardiva). Le dicotomie sarebbero assicurate, nei punti nodali, da sottospecie ipotetiche, ora scomparse. Nell'ambito di ciascuna di queste otto grandi razze, l'evoluzione non procedette per dicotomia ologenetica, ma sarebbero entrati in giuoco altri fattori, come le influenze ambientali, l'autodomesticazione, l'incrocio, per la formazione delle sottorazze o tipi particolari. I caratteri sui quali sono basate queste divisioni secondarie non passerebbero mai, nella loro variazione, la quantità permessa all'intervallo fra due maturazioni. Di queste sottorazze Montandon ne enumera venti. Per quanto occorra riconoscere che le coppie dicotomizzanti siano state scelte con ingegnosità, dal punto di vista formale appare poco legittimo che cinque dicotomie principali successive rientrino sempre nell'ambito della sola specie ammessa per Homo sapiens. Ma l'obiezione principale e più essenziale che si deve fare al sistema del Montandon, è che le sue otto grandi razze associano nello stesso gruppo forme dissimili morlologicamente e separano forme assai simili. In breve, il sistema del Montandon non tiene troppo conto dei fatti morfologici.
Le obiezioni alle teorie poligenistiche e il loro fondamento. - Alle vedute poligenistiche si sono opposte obiezioni, che possono essere divise in più categorie. In via preliminare si osserva che le diverse teorie poligenetiche non coincidono nei loro abbinamenti fra razze umane e forme antropoidiche o comunque primatoidi, quindi le loro conclusioni si eliminano reciprocamente (Weinert). La risposta a tale obiezione è doppia. In primo luogo anche le teorie mononogenetiche non coincidono fra loro e con un procedimento di logica formale si dovrebbero dire eliminabili reciprocamente. In secondo luogo non si tiene conto di un fatto essenziale, che cioè il più delle volte le affermazioni poligenistiche, e ciò più spesso per il passato, sorsero dall'apprezzamento della portata delle variazioni umane, che, persino a studiosi di grande esperienza zoologica, non parvero compatibili con una sola origine. Perciò assai spesso, uomini che avevano pratica di razze umane, pur non formulando derivazioni precise, si dichiararono propensi al poligenismo. I più recenti poligenisti, pur essendo passati attraverso questa condizione di spirito, che vorremmo dire preparatoria e intuitiva, hanno cercato di arrivare a conclusioni più positive, in base allo studio di qualche carattere o sistema nell'intero gruppo dei Primati. Niente di eccessivamente sorprendente che le loro conclusioni non collimino; ma una teoria fra le altre già fin da ora dovrà essere più prossima al vero e sarà seguita col tempo da altre ancora più esatte. Infine occorre notare che in un abbinamento, quello dell'Orango con i Mongoloidi, molte teorie già coincidono. Si è preteso ancora che la comunanza di tutte le razze umane nel possesso dei caratteri cosiddetti specifici umani sia un argomento assai forte contro il poligenismo. In realtà lo studio critico di essi ha dimostrato che sono quasi sempre evidentemente connessi con funzioni diverse, in maniera più o meno diretta, onde nella loro produzione si poté certamente manifestare una profonda convergenza fra le razze umane. Per questi caratteri è da aspettarsi un minimo di differenziazione e, ad es., per il cervello, eminenti studiosi negano l'esistenza di caratteri differenziali fra i diversi tipi umani.
Il Vallois recentemente combatté la tesi poligenistica. Nel suo esame di alcuni caratteri anatomici, egli comincia col dichiarare di volere fare astrazione da quei caratteri che si può supporre siano determinati dalle condizioni di vita. Ciò è il caso, egli dice, della quasi totalità delle disposizioni dello scheletro dei membri. Qui vediamo ancora una volta sorgere il vecchio supposto della frequente esistenza di caratteri non funzionali, supposto che abbiamo già criticato. E l'esclusione dello scheletro dei membri non è meno ingiustificata. Se infatti si può legittimamente supporre che nello scheletro dell'arto inferiore la convergenza abbia avuto larghissimo giuoco per gli Uomini, obliterando i caratteri iniziali dei progenitori, lo stesso non si può dire per il torace e per gli arti superiori, che proprio per l'acquisto della stazione eretta e per il fatto che l'arto anteriore è libero, si può supporre abbiano conservato negli Uomini larghe reminiscenze delle condizioni primitive. Trascurando i parallelismi per le forme del cranio fra certi Antropomorfi e certe razze umane, parallelismi sui quali nessun poligenista serio ormai insiste, passiamo in breve rassegna gli altri caratteri menzionati dal Vallois. Essi sono: la conformazione della regione dello pterion, il numero delle vertebre presacrali e sacrali nella colonna vertebrale, la forma dello sterno, la presenza o meno dell'osso centrale del carpo, alcune disposizioni articolari e alcuni muscoli, le scissure e circonvoluzioni cerebrali, l'origine delle arterie carotidi e succlavie e altri ancora. Il procedimento logico del Vallois è di cercare un fatto caratteristico della struttura di un Antropomorfo e poi di vedere se esso si presenti tal quale o con percentuali di frequenza più sensibili in qualche razza umana. Tale procedimento potrebbe essere accettato, inizialmente almeno, per quelle teorie polifiletiche che fanno capo agli Antropomorfi e non per quelle che fanno capo a forme più basse nel sistema, come, ad esempio, alle Platirrine. Ma anche volendo considerare le teorie che fanno capo agli Antropomorfi, queste per lo più introducono un Antropomorfo in ogni filo, non come la forma da cui derivare senz'altro il tipo umano corrispondente, ma come il membro in un dato filo di un certo stadio gerarchico, lo stadio appunto antropoidico, il che è molto diverso. Il procedimento critico del Vallois deve necessariamente arrivare a un risultato negativo, giacché nella maggior parte dei casi i caratteri da lui scelti sono caratteri chiaramente di adattamento di tipo antropoidico, spesso specifico all'uno o all'altro Antropomorfo, almeno allorquando si presentano allo stato "massimo", e il più delle volte sono correlativi ai modi di vita, presenti o passati, specifici di ognuno di essi, o comuni a tutti, e soprattutto dipendenti dalla maniera di locomozione o stazione. Esemplifichiamo: non si può pretendere di trovare nelle razze mongoliche, che comunemente sono associate all'Orango, una forte frequenza del numero di 16 vertebre dorsolombari, perché nell'Orango esse sono 16 nel 77% dei casi. Il processo della riduzione nel numero delle vertebre presacrali, processo che, secondo i più, ha colpito anche l'Uomo, rispetto alle forme primitive, ha progredito in Orango oltre l'Uomo, per un più perfetto e inoltrato adattamento a un certo tipo di locomozione arborea; ma, se l'uomo si è differenziato dall'antenato, appunto per l'assunzione della stazione eretta sul terreno, è vano attendersi in una razza umana una riduzione più avanzata del numero delle presacrali e ci dobbiamo aspettare piuttosto una costanza relativa in tutti gli Uomini, ciò che appunto succede. Il Vallois dice che la riduzione del numero delle presacrali è indipendente dall'adattamento locomotorio; ma allora ci possiamo domandare perché la riduzione è massima nell'Orango, il più arboreo di tutti e quello meno capace di stazione eretta sul terreno. Così ancora, il Vallois cita l'assenza del legamento rotondo della testa del femore, nell'Orango, assenza che dice indipendente dal genere di vita, perché si riscontra in diversi Mammiferi a locomozione diversa e naturalmente constata che nessuna razza umana dimostra tale assenza. Ma è noto che l'Orango ha la massima mobilità della coscia nell'articolazione cotiloidea, essendo sufficiente, per persuadersene, vedere le estreme posizioni assunte dall'animale nell'arrampicamento, mentre, d'altra parte, il massimo peso della locomozione è in questa forma attribuito alle braccia. La scomparsa del legamento rotondo è senza dubbio congiunta a questa estrema mobilità ed è assurdo aspettarla nell'Uomo, dove, per la stazione eretta, il movimento è limitato soprattutto nel senso dorsale. Osservazioni simili vanno fatte per le caratteristiche del menisco articolare esterno del ginocchio e per i muscoli citati dal Vallois. Per ciò che riguarda il cervello, è strano aspettarsi parallelismi con Antropomorfi, proprio nell'organo per il quale avviene la convergenza di tutti gli Uomini, secondo la tesi poligenistica. Se fra gli Antropomorfi e gli Uomini corrono differenze gerarchiche, queste si devono proprio estrinsecare al massimo nel cervello e sarà oltremodo difficile trovare tracce dei fili differenti in quest'organo. Ma gli errori di apprezzamento sono ancora più forti, nei riguardi di un carattere che è spesso citato come un argomento assai importante: l'origine, cioè, delle carotidi e succlavie dall'arco dell'aorta: nell'interno del gruppo dei Primati superiori (Antropomorfi e Uomini) sono distinguibili tre tipi di divisione arteriosa: il primo, per il quale la succlavia sinistra è indipendente e gli altri tre vasi (carotide sinistra, carotide destra e succlavia destra) emanano da un tronco unico, l'arteria innominata; il secondo tipo, per cui succlavia e carotide sinistra sorgono indipendentemente e carotide e succlavia destra da un tronco comune; e il terzo, per cui tutti e quattro i vasi sorgono indipendentemente. Ora, il primo tipo è proprio dell'Orango e del Gibbone, il secondo dell'Uomo, dello Scimpanzé e del Gorilla e il terzo si riscontra solo in una percentuale inferiore al 10% nei Negri. Ora, tranne questa eccezione, non esistono differenze fra gli Uomini per questo carattere; al contrario di ciò che, secondo il Vallois, dovrebbe essere se fossero vere le ipotesi poligenistiche. Sennonché il Sera osserva che la disposizione umana è proprio presentata dalle forme più primitive della classe dei Mammiferi e cioè dai Monotremi, dagl'Insettivori, dagli Sdentati, onde lo stesso Weinert è indotto a dubitare, se la divisione delle arterie sia veramente nella classe dei Mammiferi un carattere progressivo, a partire da una forma in cui un tronco comune, che si distacca dalla sommità dell'arco dell'aorta, dà simmetricamente le due carotidi e le due succlavie. Tale forma è presentata appunto da molti Ungulati (Quadrupedi) e dalle Catarrine nei Primati. Per questo stato di fatti, il Sera prospetta il fondato dubbio, se veramente la conformazione ora citata delle Catarrine rappresenti la condizione primitiva persino nei Primati, come il Weinert pretende. Tale forma simmetrica non potrebbe essere proprio una conseguenza dell'atteggiamento quadrupede delle Catarrine, come negli Ungulati, ed essere perciò derivata, secondaria?. E gli Uomini di tutte le razze non potrebbero avere conservato un carattere primitivo, a ragione dell'indifferenziazione dell'arto anteriore, mentre appunto gli Antropomorfi lo avrebbero modificato? In tal caso l'Orango, invece di significare un distacco precoce, significherebbe una differenziazione ulteriore in confronto di Scimpanzé e Gorilla. In tal caso, sarebbe vano attendersi che le diverse razze si comportino in modo analogo agli Antropomorfi. Più fondata è l'obiezione del Vallois a proposito del carattere del sistema peloso. Le forme e le strutture del pelo degli Antropomorfi africani non sono affatto simili alle forme e strutture del pelo dei Negri, come l'Orango non presenta disposizioni simili a quelle dei Mongoli per questo carattere. Forse anche qui la difficoltà dipende dalla considerazione degli Antropomorfi, invece di altre forme più prossime al tronco da cui Antropomorfi e gruppi umani sono derivati. Comunque non vi è dubbio che la maggior parte delle prove anatomiche dell'origine monogenistica dell'Uomo, portate dal Vallois, non resistono a una critica rigorosa e vanno assolutamente rifiutate.
Molti hanno creduto di aggiungere e alcuni addirittura di sostituire, come più efficaci che le anatomiche, le prove fisiologiche contro il poligenismo. La prima serie di esse riguarda la fecondità degl'ibridi fra le cosiddette razze umane. È da gran tempo noto che gl'incroci fra razze della stessa specie sono fecondi tra loro indefinitamente, mentre l'incrocio fra specie diverse spesso è addirittura impossibile e, quando dà prodotti, questi sono sterili fra loro. Ammettendosi invece che l'incrocio fra razze umane dia prodotti indefinitamente fecondi fra loro, se ne deduce che le razze umane rappresentino varietà o razze nel senso zoologico, cioè siano contenute nell'ambito di una specie, sia essa nel senso tradizionale, sia nel senso, più moderno, di specie collettiva; o al più costituiscano specie strettamente affini l'una all'altra. I sostenitori del poligenismo, particolarmente nel passato, obiettarono che in realtà molto spesso le popolazioni umane, uscite dall'incrocio di due razze non sussistono gran tempo e si spengono nell'infecondità, se non continua l'afflusso del sangue di una o di entrambe le razze produttrici dell'incrocio. Il principale sostenitore di questa tesi fu, nel passato, il Broca. Certamente molte cause non connesse con i fatti riproduttivi, cioè con la fusione degli elementi generativi, spiegano la progressiva diminuzione e la scomparsa delle popolazioni ibride e queste cause sono di natura sociologica e non genetica. D'altra parte, esistono casi bene accertati e numerosi di persistenza, per molte generazioni, di popolazioni ibride, senza un sensibile afflusso di sangue di una delle due razze produttrici. Però occorre dire che non è stata dimostrata l'impossibilità che quell'evento in qualche caso, si sia verificato realmente o possa verificarsi, trattandosi in realtà di fatti che devono essere stabiliti caso per caso. Ma l'inattendibilità di questa prova fisiologica contro il poligenismo non risulta dalle riserve fatte sopra, ma da ragioni più radicali.
La suddetta regola dell'infecondità fra loro degl'ibridi di specie diverse, nella prima generazione figlia, non è universale e senza eccezioni, anche relativamente a specie appartenenti a generi diversi. Questi casi di fecondità fra loro di ibridi di generi diversi della prima generazione sono frequenti nel regno vegetale. Ma se ne trovano ancora fra gli animali e si presentano nelle classi superiori dei Vertebrati, compresi i Mammiferi e fra questi nei Primati. Così è talvolta fecondo il bastardo della Capra e dello Stambecco e quello di Simia rhesus e Pithecus fascicularis. Ma, se esistesse una sola eccezione, provata, alla legge dell'infecondità degl'ibridi di genere o di famiglia nell'intera classe dei Mammiferi, noi ci troveremmo avanti alla possibilità che una simile eccezione si sia verificata anche per l'Uomo. Ma, più ancora, tali eccezioni provano che il criterio fisiologico è in realtà subordinato al criterio morfologico, giacchè noi stabiliamo queste eccezioni proprio in base all'apprezzamento sistematico, il che vuol dire morfologicamente e la morfologia ci indica entro quali limiti la legge fisiologica è vera. Ma vi è di più. Già il grande naturalista Pallas stabilì che molte forme viventi, soggette all'addomesticazione da parte dell'Uomo, malgrado una grande differenza morfologica, sono feconde fra loro, e spiegava il fatto supponendo che la domesticazione proseguita da lungo tempo elimini l'infecondità. Darwin si associò a detta veduta. La moderna genetica, dice il Plate, spiega questi fatti ammettendo che la selezione artificiale elimini i fattori di sterilità. Certamente nell'Uomo la selezione artificiale ha raggiunto il suo massimo e quindi i fattori d'infecondità possono essere stati eliminati. Comunque, si deve concludere che, contrariamente all'opinione che vorrebbe togliere la decisione della questione delle origini umane alla ricerca morfologica, proprio a questa spetta il compito di porre alla fisiologia nuovi problemi: come cioè, da forme diverse, originalmente, si sia potuta stabilire una fecondità indefinita dei prodotti degli incroci. Il compito della morfologia dev'essere solo quello di stabilire per mezzo di caratteri al riparo da ogni critica, le vie diverse, i fili, se ve ne sono più di uno, dell'ominazione.
Il Vallois e il Weinert, quest'ultimo in modo più particolare, hanno sostenuto la tesi che i fenomeni noti col nome di gruppi sanguigni (v. sangue: Antropologia) nell'Umanità e negli Antropomorfi parlino contro le vedute poligenistiche. Il Weinert, che ha compiuto anche proprie ricerche sui gruppi sanguigni degli Antropomorfi e delle Scimmie, afferma che le sostanze A e B, trovate in queste ultime forme, non sono identiche con quelle trovate negli Antropomorfi, mentre queste sono identiche a quelle trovate negli Uomini. Egli ritiene quindi che i gruppi sanguigni negli Antropomorfi e negli Uomini siano sorti convergentemente dalla stessa struttura della molecola albuminoide, per motivi che noi non conosciamo ancora; ma egli pone in rilievo come la sostanza B sia presente in Orango e Gibbone, forme sud-asiatiche, nella stessa maniera che si trova prevalenza di B negl'indigeni dell'India. Ciò accennerebbe, secondo lui, a circostanze ambientali che Uomini e Antropomorfi risentirebbero, onde l'evoluzione convergente dei loro gruppi sanguigni. I gruppi sanguigni, per quanto si sia ancora all'inizio del loro studio, permetterebbero di affermare l'unità del genere umano. Anche prima della determinazione dei gruppi negli Antropomorfi, la loro distribuzione nell'Umanità mostrava che non si poteva vedere in essi una prova dell'origine poligenistica, perché altrimenti almeno le razze principali (Europoidi, Negroidi, Mongoloidi) si dovevano collocare più chiaramente nei singoli gruppi. Questo argomento sarebbe valido se la divisione classica dell'Umanità avesse veramente un valore profondo e definitivo, ma ciò è lungi dall'essere vero. Inoltre il distacco che il Weinert ammette fra le Scimmie basse e gli Antropomorfi e persino quello fra i Mammiferi e gli Antropomorfi non è così profondo e accertato, come egli afferma. Vero è che finora raramente si è affermato che la sostanza B, quella che più spesso si è trovata nelle forme basse e nei Mammiferi, sia identica all'umana, ma si è parlato più spesso di somiglianza. Sennonché il Thomsen, trattando la questione, dice che finora non si possono fare affermazioni sicure. Parlando appunto delle somiglianze delle reazioni degli animali e degli Uomini, egli dice testualmente che è dubbio che si sia autorizzati dalle particolarità differenziali di queste reazioni a trarre conclusioni nel senso di differenze qualitative, fra la sostanza B degli Uomini e quella degli animali. Che la differenza esista non vi è dubbio, ma essa può essere, in maggiore o minore misura, di natura quantitativa, cioè prodotta dalla variabilità della concentrazione della sostanza agglutinogena o della relativa agglutinina, negli animali e negli Uomini. Non è affatto impr0babile perciò l'origine molto remota nella serie dei Mammiferi della sostanza B e forse anche della A, che si è trovata più raramente (Pecora, Porco, Cane). Vero è che molto diffusa è ora l'opinione che il gruppo O sia il più primitivo nell'umanità e che da esso si sia differenziato il gruppo A e quello B e ancora A B, ma questa veduta è lungi dall'essere divisa da tutti gli specialisti. Infine non è fuor di luogo ricordare come L. Hirszfeld pure inclinando all'origine poligenistica dei gruppi, cioè all'origine separata e antica di A e di B, riconosce tutte le incertezze, le difficoltà, le lacune dell'attuale stato delle ricerche ed è alieno da conclusioni dogmatiche in proposito.
Lo studio dei gruppi sanguigni avendo prodotto una grande quantità di ricerche, per la relativa facilità della tecnica e poi la novità dei risultati, ha generato un'enorme quantità di fatti, che si sono affastellati gli uni sugli altri, senza che si veda ancora una linea conduttrice e una teoria che effettivamente dia un ordine e un significato al materiale accumulato. Non soltanto s'impone una verifica nella consistenza dei fatti stessi, soprattutto dei risultati delle prime ricerche, ma si impone una coordinazione di questi risultati e un'interpretazione naturalistica, prima che essi possano essere utilizzati per conclusioni sulla filogenesi umana. I fatti dei gruppi sanguigni non parlano ancora né pro né contro qualsiasi teoria delle origini umane, come non mostrano nessuna chiara correlazione con le classificazioni antropologiche più ammesse.
Ancora meno che i fatti dei gruppi sanguigni, possono pretendere i fatti siero-diagnostici (reazione della precipitina) di stabilire con esattezza le relazioni parentali e quindi essere opposti alle vedute poligenistiche. I fatti stabiliti in base a queste reazioni immunitarie sono molto meno numerosi di quelli dei gruppi sanguigni e intere divisioni dei Primati, come, ad es., le Platirrine, sono state considerate per pochi generi; l'apprezzamento di essi è ancora soggetto a modifiche e l'interpretazione più che problematica. È assai dubbio che le dette reazioni indichino sic et simpliciter le reazioni di parentela e pare già assai probabile che esse siano fortemente influenzate dalle condizioni di vita.
Conclusioni generali. - Cercando di riassumere i risultati della nostra analisi, possiamo così dire: l'origine dell'Uomo all'interno del gruppo dei Primati è ormai fuori di ogni dubbio. Per ciò che riguarda l'origine del gruppo stesso, il suo attacco agl'Insettivori è molto probabile. Le connessioni di questi al tronco principale dei Mammiferi sono invece non troppo chiare finora, dato il carattere piuttosto intricato dei rapporti fra Placentali e Marsupiali e le incertezze della derivazione precisa dei Mammiferi da forme antecedenti. Riguardo alla modalità delle origini umane e soprattutto all'antico problema - origine unica o multipla - non abbiamo ancora nessuna teoria che abbia acquistato il consenso dei più. La stessa teoria monogenistica più recente e organica, quella del Weinert, presenta il fianco a critiche radicali. In complesso, le teorie monogenistiche si sono sforzate di dimostrare l'origine dell'Uomo più da una certa forma animale, che da una sola forma. Ma al monogenismo, come al poligenismo, si devono domandare le sue ragioni, perché queste ragioni non sono state date, ed esse non risiedono nelle consuetudini mentali. La difficoltà di stabilire una solida dottrina di derivazione è nella difficoltà di trovare caratteri filetici veri, cioè non funzionali. E questi caratteri sono certamente assai rari, se pure, in senso assoluto, esistono, giacché spesso l'asserita non funzionalità è solo frutto di analisi imperfette. Le pretese dimostrazioni del monogenismo sono il più delle volte fondate sopra caratteri, in maggiore o minore misura, funzionali. Ma per ciò stesso tanto più incombe, praticamente, soprattutto ai poligenisti, il compito di stabilire più numerosi caratteri filetici veri, giacché anche la maggior parte delle teorie poligenistiche non è fondata su tali caratteri. Soltanto con l'accrescersi della conoscenza di caratteri filetici veri potrà fondarsi una solida teoria delle origini.
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Dottrina cattolica.
La dottrina cattolica suole studiare a parte l'origine dell'anima umana, considerata come il principio della vita superiore dell'uomo, e l'origine del corpo umano, considerato come il soggetto della sua vita animale; questa divisione è stata da essa osservata con speciale attenzione da quando si sono diffuse le dottrine evoluzioniste.
Origine dell'anima. - È dottrina di fede cattolica che l'anima del primo uomo fu creata immediatamente da Dio (Genesi, II, 7). Sarebbe contrario a tutta la dottrina cristiana l'attribuire all'anima umana la medesima natura e la medesima origine delle anime inferiori: sarebbe infatti attribuirle la medesima sorte finale, cioè l'annientamento con la dissoluzione del corpo. Ora l'esistenza in un'altra vita è uno dei dogmi più chiaramente contenuti nel Vangelo (cfr. Matteo, X, 28; XXV, 31 segg.). Su questo punto non c'è mai stato un dubbio nei Padri della Chiesa, sebbene essi abbiano in altri capi della dottrina dell'anima pareri assai diversi.
La ragione filosofica che vale non solo per la prima anima, ma per ogni anima umana, è così in sentenza spiegata da S. Tommaso (Sum. Theol., 1ª, q. 90. a. 2). Se l'anima non venisse immediatamente da Dio per opera creativa, procederebbe o dalla trasformazione di un essere spirituale, o da quella di un essere materiale: ora, non si può concepire la trasmutazione di un essere spirituale, il quale essendo semplice, sasarebbe da tale trasformazione totalmente soppresso, e il nuovo essere, che si direbbe termine della trasmutazione, sarebbe totalmente e puramente creato; né l'anima umana può essere il risultato delle trasformazioni di un essere materiale, perché verrebbe così essenzialmente legata al composto e alla materia, e sarebbe una forma materiale, incapace di attività spirituali, come è l'anima delle bestie. Ma l'esperienza ci mostra come siamo capaci di pensiero e di amore affatto spirituali. Per conseguenza, viene escluso che l'anima umana abbia fatto la sua apparizione altrimenti che in virtù di un intervento superiore, come una novità assoluta, e cioè per vera e propria creazione.
Origine del corpo. - Sino ad oggi, la Chiesa non ha pronunciato alcuna sentenza dogmatica che dichiari contro la fede ogni forma di evoluzionismo esteso all'uomo. Nondimeno da quanto sopra si è detto, risulta che un evoluzionismo integrale, il quale faccia provenire l'uomo intero, anima e corpo, dalla generazione successiva degli animali, e perciò non metta tra questi e quello altra differenza che di grado e non di natura, è esclusa come eresia dalla dottrina cattolica. Tale è l'evoluzionismo propugnato dal Darwin e da molti altri dopo di lui. Quanto poi alle forme più miti e più filosoficamente studiate dell'evoluzionismo antropologico, l'autorità ecclesiastica, senza venire a decisioni irreformabili, ha però manifestato parecchie volte la sua tendenza e dato implicitamente le sue direttive. Nel 1860, un concilio particolare tenuto a Colonia dichiarava contrario alla S. Scrittura e alla fede l'opinione "che l'uomo, quanto al corpo sia venuto dalla spontanea trasformazione di una natura inferiore, in altre sempre più perfette fino alla natura umana", (Cof. Lacensis, t. V, p. 292).
Al primo diffondersi della teoria del Darwin, alcuni cattolici cercarono di darle una forma che non fosse in disaccordo col dogma cattolico. Già nel 1871, Giorgio Mivart affermava che pur sorgendo l'anima per diretta e immediata creazione, il corpo era formato dapprima (come adesso per ciascun individuo) per creazione derivata o secondaria, per mezzo delle leggi naturali. Dopo di lui un domenicano francese, il p. Leroy sostenne una dottrina simile; altri ancora, come il p. Zahm, con un certo appoggio del vescovo di Cremona, mons. Bonomelli, e del vescovo di Newport, il benedettino Hedley. L'autorità ecclesiastica si oppose allora a tale dottrina. Per intervento del S. Uffizio, il p. Leroy dovette ritrattare la sua tesi e il p. Zahm dovette ritirare dal commercio il suo libro. Ancora recentemente, furono messi all'indice due volumi di Edoardo Le Roy, nei quali l'evoluzione era estesa all'uomo, sebbene la distanza tra l'uomo e gli animali vi fosse vigorosamente dimostrata.
Un'altra indicazione venne data dall'autorità ecclesiastica, quando la commissione permanente biblica rispose ad alcuni dubbî, vietando di considerare i tre primi libri della Genesi "come racconti di cose non realmente avvenute, cioè senza corrispondenza con la realtà obiettiva e la verità storica", ed enumerando tra le cose che debbono essere intese secondo il senso letterale e storico i punti seguenti: "... la creazione speciale dell'uomo, la formazione della prima donna dal primo uomo; l'unità dell'uman genere; la felicità primitiva dei nostri primi parenti in uno stato di giustizia, d'integrità e d'immortalità,' (Enchiridion biblicum, numero 176). Tutti quanti quei punti interessano la presente questione, ma più direttamente è da considerarsi "la creazione speciale dell'uomo" attraverso un intervento di Dio, privilegiato e diretto, nella formazione dell'uomo, anima e corpo. D'altra parte pare che con questo documento non si sia voluto andare più oltre di un'indicazione e di una direttiva.
Data l'assenza di una condanna esplicita e irrefragabile, e pensando che la tesi trasformista si sia piuttosto avvalorata col trascorrere degli anni, alcuni autori cattolici hanno continuato a spiegare con l'evoluzione l'origine del corpo dell'uomo, o almeno a sostenere che una tale origine non è incompatibile con la più stretta ortodossia.
Si è attribuita una dottrina evoluzionistica ad alcuni Padri della Chiesa e principalmente a S. Gregorio di Nissa (Greg. Niss., Hexaemeron, in Migne, Patrol. Graeca, XLIV, col. 119) e a S. Agostino. Ma le opinioni di quei Dottori non hanno davvero niente di comune col trasformismo. S. Agostino espone, è vero (De Genesi ad litteram, l. VI, c. 15, n. 26), una teoria che ammette per la formazione delle piante, degli animali e dell'uomo, la preparazione e l'evoluzione delle loro ragioni seminali, ma quelle ragioni non passano per diverse specie, e sono diverse per ciascuna specie, come il seme è diverso per ciascuna pianta. La materia che doveva servire alla produzione del corpo dell'uomo fu bensì preparata gradualmente a quel fine, ma restò materia anorganica.
La maggior parte degli autori cattolici, principalmente tra i teologi e i filosofi, non credono di poter accettare in alcun modo l'evoluzionismo antropologico, anche ristretto al solo corpo dell'uomo. Molti di essi non rigettano tutta insieme la teoria dell'evoluzione e volentieri concedono la possibilità e l'esistenza di differenziazioni nell'interno delle grandi divisioni, per esempio degli ordini, distinguendo, come il Vialleton, fra i tipi formali diversi per ragioni quantitative e accidentali, che possono avere un'origine comune, e i tipi di organizzazione intimamente ed essenzialmente diversi, senza passaggio naturale dall'uno all'altro. Ma vogliono che l'uomo costituisca un tipo di organizzazione distinto, a cui l'evoluluzione non si estende. Non pochi teologi hanno dato note severe e fino a quella ereticale a qualsiasi derivazione dell'uomo dagli animali. Altri, sebbene sostenitori della creazione del corpo dell'uomo, parlano in una maniera più mite, tollerando una forma di trasformismo antropologico che salvi chiaramente tutte le esigenze del dogma. Per comprendere la posizione dei teologi, nei quali si riflettono le tendenze e le direttive della Chiesa, bisogna considerare tanto le loro ragioni tratte dalle fonti della dottrina cattolica quanto quelle filosofiche o scientifiche, con le quali resistono alle pretese dell'evoluzionismo.
Non si può negare che il senso letterale della Bibbia sia che Dio formò l'uomo, non per una serie di specie animali, e nel corso di moltissimi secoli, ma dalla terra non vivente e in un istante (Genesi, II, 7). Si può soltanto fare questione, se sia necessario di attenersi al senso letterale, e se non basti scorgervi espresso sotto forma popolare, un insegnamento più generale sull'origine dell'uomo per una speciale provvidenza divina. È vero che in altri passi della Scrittura quella larghezza d'interpretazione è ammessa e che nel versetto in questione la letteralità non si può seguire in tutto rigidamente. Ma è pure ovvio che il carattere storico dei primi capitoli della Genesi, asserito nel decreto citato più sopra della Commissione biblica, scomparirebbe del tutto, se fosse lecito abbandonare il senso naturale del testo, quando non si fosse costretti da qualche ragione manifesta. Fino a che, dunque, il trasformismo applicato al corpo dell'uomo non si presenti come una verità accertata, si deve ritenere come assai più probabile l'interpretazione tradizionale della descrizione biblica. Tanto più che l'insegnamento biblico non è con questo esaurito, ma aggiunge delle precisazioni sicure, le quali, sebbene non escludano assolutamente di per sé stesse ogni evoluzione antropologica, impongono però ai credenti delle precauzioni, delle riserve, degli adattamenti importanti. Data l'incertezza e l'incompletezza della cronologia biblica, l'antichità dell'uomo proposta dalle teorie evolutive potrebbe non fare difficoltà. Ma sono principalmente tre le considerazioni da tener presenti.
La prima è l'unità del genere umano, asserita direttamente nella scrittura (Genesi, II, 5; V, 18, III, 20; Atti, XVII, 26) e richiesta come presupposto di alcuni dogmi fondamentali. Da questa unità del genere umano procede l'universalità del peccato originale che da Adamo è trasmesso a tutto l'uman genere, per via di generazione. Non c'è dunque nessun uomo che non sia figlio di Adamo. Parimente l'efficacia della Redenzione si estende a tutti gli uomini in quanto scorre nelle loro vene, come in quelle del secondo Adamo, Cristo Salvatore, il sangue del primo. Non è dunque permesso a un cattolico di ammettere alcuna forma di evoluzione che faccia provenire gli uomini da diversi rami primitivi.
Un altro punto di dottrina è la formazione della prima donna, come è raccontata nel Genesi (II, 21-23). Quantunque alcuni esegeti cattolici, come il Gaetano e il Lagrange (Rev. bibl., 1897, p. 364) abbiano tentato un'interpretazione simbolica di questo testo, e quantunque non tutti gli altri credano necessario intenderlo letteralmente, tutti però, dopo il decreto della Commissione biblica, citato di sopra, intendono e insegnano che il corpo della prima donna fu formato da una parte del corpo del primo uomo. Per stare d'accordo con questo insegnamento, i cattolici che vorrebbero riconoscere il trasformismo antropologico, lo debbono limitare alla formazione del corpo del solo primo uomo.
Infine, non sarebbe conforme al dogma cattolico considerare i primi rappresentanti dell'umanità in condizioni fisiche e psicologiche inferiori e quasi appena diverse da quelle dei bruti. La S. Scrittura, la tradizione, i concilî descrivono il primo stato dei nostri protoparenti, come uno stato di felicità e di elevatezza morale. Per i doni dell'intelletto e per il dominio sulle passioni erano a noi assai superiori.
In forza dunque di questi tre punti dell'insegnamento cattolico, e senza badare anche ad altre considerazioni, il trasformismo che potrebbe applicarsi all'uomo, non solo sarebbe limitato al corpo, ma varrebbe per un individuo solo, il primo uomo; non si applicherebbe alla prima donna, il cui corpo fu altrimenti formato; ammetterebbe come prima coppia umana due esseri pienamente, anzi eccellentemente umani. È difficile negare che tali limitazioni tolgono all'ipotesi trasformista estesa all'uomo una gran parte, se non tutta, della sua seduzione. Se poi si viene all'esame filosofico della questione, tenendo fermo all'origine distinta dell'anima, non si riesce a capire come da un principio di vita inferiore venga formato un corpo fatto unicamente per l'anima superiore dell'uomo. E allora non sarà necessario un altro intervento divino, per supplire alle forze inferiori naturali e per finire, con qualche ritocco il loro operato, adattandolo a ricevere il soffio divino, l'anima creata? Ecco dunque un'altra limitazione e un altro ostacolo per il trasformismo antropologico.
Compresi dalle difficoltà di accomodare col dogma cattolico l'origine del corpo umano dall'evoluzione delle forme animali, la maggior parte dei teologi e dei filosofi cattolici si rivolgono agli argomenti portati dai trasformisti per misurarne il grado di certezza.
Una ragione fondamentale che si fa valere per il trasformismo universale e che si ritrova soggiacente alle altre ragioni è la somiglianza delle forme, e, nel caso presente, la stretta affinità anatomica che esiste tra l'uomo e gli altri Primati. Però l'unità di origine non sembra l'unica spiegazione che si possa dare delle corrispondenze esistenti nei diversi organismi. L'unità di disegno nell'intelletto creatore e conseguentemente l'unità delle leggi di sviluppo della materia organica bastano a render conto dell'unità delle forme. Per trasformare quella parentela ideale in parentela fisica per via di generazione è necessaria una dimostrazione distinta. Lo stesso vale per le concordanze che si vedono nello sviluppo embrionale dell'uomo con lo sviluppo di forme inferiori, ed anche per l'esistenza di organi rudimentali: l'identità delle leggi di formazione degli organismi e le necessità dei diversi stadî embriologici di ciascuno di questi organismi in formazione spiegano le similitudini osservate, non meno bene che col ricorrere a una ripetizione abbreviata dell'evoluzione delle specie secondo i placiti degli evoluzionisti. Insomma, quelle armonie morfologiche non costituiscono una prova del trasformismo. Quantunque poi siano notevoli le relazioni di somiglianza tra l'uomo e gli animali a lui vicini, rimangono pure differenze importantissime, quali, principalmente, la stazione eretta e lo sviluppo del cervello. Come spiegare il passaggio dall'assenza alla presenza di quei caratteri? Sembra manifesto, e ogni giomo viene più ammesso da tutti, che la selezione darwiniana, con le sue piccole mutazioni senza direzione, non arriva a tanto. La riuscita del corpo umano rivela un'intenzione; e un tale organismo, così bene ordinato all'apparizione e all'attività del pensiero, non si è formato per ritocchi casuali o graduali, ma ha ricevuto d'un colpo i suoi caratteri essenziali. Quando si viene a considerare concretamente come dalle forme più prossime all'uomo si sarebbe operato il passaggio al corpo umano, le difficoltà si presentano così serie che quasi tutti gli scienziati di oggi rifiutano alle forme attualmente conosciute la funzione di forme di passaggio.
Le scoperte fatte nella paleontologia umana meritano senza dubbio l'attenzione di tutti. Ma chi oserebbe affermare che tali scoperte ci diano una vera dimostrazione della discendenza dell'uomo da una forme animale? I fatti più accertati e di indubbia interpretazione (i fossili di Neanderthal, Cro-Magnon, Grimaldi) ci mettono alla presenza di uomini, distinti bensì da noi per alcuni loro caratteri, ma inequivocabilmente uomini con l'industria e la religione umana. Non ci mostrano l'uomo in formazione, ma l'uomo bello e fatto; né si è sicuri che le forme più vicine a noi siano più recenti. Alcuni casi, come quello della mandibola di Mauer o come le ossa del Pitecantropo e del Sinantropo lasciano un campo più indefinito alle ipotesi. Ma le discussioni che hanno sollevato rendono il loro significato troppo ambiguo per farne la base di una solida argomentazione. Se sono veri uomini, conoscendo il fuoco e fabbricando strumenti, rimane integra la questione del passaggio dalle forme inferiori a quella forma umana. Ad ogni modo sembrano troppo specificamente definiti nei loro caratteri proprî per aver potuto condurre agli uomini oggi esistenti. Bisogna dunque cercare il tronco che conduce all'uomo al disotto di tutti i Primati fossili. Ma non rimane allora la linea evolutiva dell'uomo puramente ideale e senza testimonianza paleontologica?
È quindi ragionevole che i teologi, trovando da una parte gli argomenti dei trasformisti insuficienti per la dimostrazione dell'evoluzionismo antropologico e considerando d'altra parte le difficoltà non sormontate e forse insormontabili, opposte all'evoluzionismo antropologico dalla loro fede, ritengano imprudente e non da saggi l'abbandonare la dottrina tradizionale per attribuire la formazione del corpo dell'uomo alla lenta trasformazione degli organismi piuttosto che all'immediata azione di Dio.
Bibl.: L. Vialleton, l'origine des êtres vivants, 13ª ed., Parigi 1930; id., Morphologie et transformisme, in Le Transformisme, ivi 1927; E. Messenger, Evolution and Theology, Londra 1931; R. C. Macfie, The Theology of Evolution, ivi 1933; A. Bea, Institutiones Biblicae, II, Roma 1933; CH. Boyer, De Deo Creante et Elevante, 2ª ed., ivi 1933; e inoltre A. Breuil e J. Bouyssonie, in Dict. Apol.,s. v. Homme; R. de Sinéty, ibid., s. v. Transformisme.