MALESPINI (Malespina), Orazio (Celio)
Nacque nel 1531, si ignora la data esatta, da Francesco Malaspina dello Spino Secco, discendente da un ramo secondario della famiglia nobile originaria della Lunigiana, e da Morosetta di Giovanni Imperiali, genovese; nelle fonti il nome di famiglia del M. è indicato sempre nelle forme Malespini/Malespina. Alcune testimonianze lo identificano come veronese di nascita, ma, secondo quanto afferma il M. stesso in un documento della maturità (Saltini, 1894, p. 73), più probabilmente nacque a Venezia.
Nulla è noto della giovinezza e in generale manca documentazione attendibile su lunghi periodi della sua vita. Alcune indicazioni possono essere ricavate dalla sua opera narrativa, le Ducento novelle, fonte sicuramente malfida, ma per lunghi intervalli di tempo la sola che si possieda. Alla luce degli scarsi dati, è da considerare possibile un soggiorno del M. a Bologna dal 1551 al 1554, con un breve intermezzo a Siena, mentre nel periodo successivo dovrebbe collocarsi la sua militanza al servizio di Filippo II nella guerra delle Fiandre; tale militanza è suffragata dall'asserzione ripetuta in più occasioni di essere stato soldato di professione. In seguito soggiornò lungamente a Milano, dove, a suo dire, fu utilizzato dal governatore Gonzalo Fernández de Córdoba per la sua abilità nell'allestimento di apparati scenici e celebrativi. Le Ducento novelle informano di una parentesi mantovana da collocarsi nel 1561, quando il M. fu chiamato dallo scultore aretino Leone Leoni a partecipare all'allestimento dei festeggiamenti nuziali del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga e di Eleonora d'Austria. Di tale partecipazione non si hanno conferme dirette, anche se è accertato che Leoni fu suo amico.
Un documento dell'ottobre 1564 testimonia che a Milano il M. aveva falsificato cedole di pagamento di un mercante milanese, dei Fugger e del cardinale Otto Truchsess von Waldburg, e che aveva contraffatto alcuni documenti per un fuoruscito napoletano, forse Colantonio Caracciolo, figlio di Galeazzo marchese di Vico. Allontanatosi da Milano per timore della giustizia, sotto lo pseudonimo di Conte di Pompei riparò in Savoia, dove presentò al ricevitore imperiale una falsa ordinanza di pagamento a nome dell'imperatore e a firma del segretario di Stato, don Gonzalo Perez. Il funzionario imperiale, insospettito, chiese lumi al cardinale Antoine Perrenot de Granvelle, a quel tempo residente a Baudencourt; condotto al cospetto del cardinale, il M. ammise la truffa dando un saggio delle proprie capacità di falsario. A quel punto Granvelle, d'accordo con Perez, decise di imprigionarlo nel castello di Dôle. Non è noto come e quando il M. si sottrasse alla prigionia, ma a dar fede al racconto romanzato nelle Ducento novelle riuscì a evadere nel 1568, dopo oltre tre anni di reclusione, e trovò rifugio a Pont de Vaux presso il conte Francesco Gorenod, governatore di quel territorio per conto del duca Emanuele Filiberto di Savoia.
Dopo la prigionia tornò a Venezia, ma fu nuovamente accusato di contraffazione di documenti, e dovette quindi allontanarsi dalla città. Nel febbraio 1572 si trovava a Firenze sotto il nome di Celio, con il quale compare in tutti i documenti successivi. Il suo soggiorno fiorentino si protrasse per molti anni, durante i quali risulta stipendiato dalla corte granducale, probabilmente accolto nella cerchia di Bianca Cappello. Non è chiaro tuttavia quali fossero le sue mansioni e, sebbene si fregiasse del titolo di segretario alle cifre, non risulta che ricoprisse un ufficio nell'amministrazione granducale. Le sue attività sembrano collegate all'allestimento di intrattenimenti, spettacoli e apparati scenici. Il rapporto con la corte non valse comunque a preservarlo da un nuova condanna, che lo costrinse ad allontanarsi da Firenze. A partire dal 1578, insieme con alcuni complici - fra cui il poeta Andrea Lori -, falsificò delle cedole testamentarie ottenendone la riscossione. Il raggiro fu smascherato: Lori, condannato dagli Otto di guardia e balia con sentenza del 16 giugno 1579, fu impiccato il 4 luglio successivo; il 17 giugno il M. fu condannato in contumacia all'amputazione della mano destra e alla forca.
In fuga dal Granducato, il M. tornò a Venezia e, con una curiosa lettera ufficiale indirizzata al doge e al Consiglio dei dieci, mise al servizio della Serenissima le sue abilità di soldato professionista, falsario, contraffattore di documenti ed esperto di cifre. La proposta fu rifiutata con voto quasi unanime.
Il M. decise allora di mettere a segno un altro illecito. Durante il lungo servizio presso la corte granducale era venuto in possesso del poema, allora ancora inedito, di Torquato Tasso; cercò dunque di trarre profitto stampandone un'edizione pirata: il Goffredo vide la luce a Venezia nel 1580, incompleto e lacunoso, per i tipi di D. Cavalcalupo. Dopo l'immediato successo della stampa, e a seguito delle nuove edizioni del poema allestite da A. Ingegneri, il M. si procurò un testo più completo e corretto, che diede alle stampe presso l'editore G. Percaccino nel 1581 e nel 1582, corredato di un discorso introduttivo, tavole illustrative e indici, in un assetto testuale che venne in seguito più volte ristampato. Altra testimonianza della sua attività editoriale fu la traduzione del Giardino di fiori curiosi del poeta e novelliere spagnolo Antonio de Torquemada, pubblicato nel 1590, sempre a Venezia, da A. Salicato (una seconda impressione reca la data 1591) e anch'esso più volte ristampato fino al secondo decennio del Seicento.
A illuminare le attività del M. nel lungo soggiorno veneziano provvedono, ancora una volta, gli atti di un processo intentatogli nel 1592 per falso e raggiro. A partire dai primi anni Ottanta il M. aveva falsificato almeno cinque cedole testamentarie insieme con alcuni complici, fra cui l'avvocato Antonio Giberti, che lo aveva ospitato nelle sue case a Venezia e Mestre, e un Andrea Padoan, reo confesso, che svelò per intero i dettagli della truffa. Prudentemente, nell'agosto 1591 il M. anticipò l'azione giudiziaria del Consiglio dei dieci trasferendosi a Mantova. Il processo si concluse il 15 nov. 1593 con la condanna in contumacia al bando perpetuo dal territorio della Serenissima.
La permanenza del M. a Mantova è documentata almeno fino all'aprile 1608, ma le notizie sulla natura delle sue attività in quel lungo periodo sono, anch'esse, piuttosto lacunose. La sua occupazione principale dovette essere l'organizzazione degli intrattenimenti alla corte del duca Vincenzo I, ed è certo che partecipò a numerose rappresentazioni teatrali allestite in occasione del carnevale. Nel novembre 1598 recitò una parte nella sontuosa messa in scena del Pastor fido di Battista Guarini, eseguita in occasione della visita della regina di Spagna Margherita d'Asburgo. L'ennesima falsificazione di alcuni documenti non ebbe conseguenze penali per l'ormai anziano cortigiano, ma comportò la sua progressiva emarginazione dalla cerchia ducale e una drastica riduzione dell'appannaggio.
Per occupare il tempo e rimpinguare le finanze il M. cercò di riprendere la sua attività editoriale: negli archivi del Ducato rinvenne alcuni trattati di alchimia e steganografia e - insieme con la traduzione di alcuni libri della Belli sacri historia di Guglielmo da Tiro, del Trésor di Brunetto Latini, di un ricettario medico medievale e di un romanzo di materia bretone - li offrì al granduca Ferdinando I di Toscana con una lettera al segretario Belisario Vinta in data 29 ott. 1607, ma non è noto se il progetto andò in porto. Sempre a Mantova, nel 1595-1605, si dedicò alla composizione della sua prima opera, che vide la luce con il titolo Ducento novelle nel 1609 per i tipi dell'editore veneziano "Al segno dell'Italia".
La raccolta è divisa in due parti: la prima contiene 106 novelle, la seconda 96. Nella prima parte sono presenti due novelle replicate, sicché il titolo descrittivo si può considerare esatto. Da principio il libro sembra volersi inserire in una tradizione boccacciana ormai al declino: un Argomento delle novelle introduce la raccolta e traccia una cornice esile e pretestuosa che ritrae un gruppo di gentiluomini trevigiani rifugiatisi in villa per sfuggire alla peste del 1576 e desiderosi di ingannare il tempo novellando. L'impalcatura del libro cede immediatamente e lascia spazio a un susseguirsi di novelle giustapposte senza nessun evidente nesso logico o cronologico. Consueti i temi attorno ai quali ruotano i racconti: beffe, furti, inganni, amori tragici o licenziosi, storie di viaggio e fatti di cronaca. Il riuso di materiali preesistenti, comune a tutta la tradizione novellistica, nelle Ducento novelle assume dimensioni imponenti: quasi la metà del materiale consta di una sciatta riscrittura di novelle della raccolta quattrocentesca francese Cent nouvelles nouvelles; altre fonti sono il Mambriano, le opere di Anton Francesco Doni e la Diana enamorada del portoghese Jorge de Montemayor.
Rimane un nucleo di novelle originali in prevalenza ambientate fra Venezia, Firenze e Milano, che più o meno scopertamente si presentano come autobiografiche, anche se di questa autobiografia, che passa attraverso la lente deformante della sublimazione del ricordo e che si nutre di una pervasiva letterarietà, è lecito più volte dubitare. Questi racconti conservano notevoli descrizioni di costumi e usi locali ritratti dal vivo con dovizia di particolari, e tramandano affreschi verosimili, se non veritieri, tanto della vita popolare e caotica di Venezia quanto dell'ambiente di corte nella Firenze del granduca Francesco I e di Bianca Cappello. L'orchestrazione drammatica delle novelle è alquanto sconnessa e la lingua, un toscano letterario appesantito da una sintassi e da una morfologia incerte, riceve dalla tradizione teatrale cinquecentesca la tendenza a un uso stereotipato e caratterizzante del dialetto e degli idiomi stranieri. Le Ducento novelle si presentano dunque con un profilo ambiguo, irrisolto nella struttura a cavallo fra raccolta di novelle e romanzo autobiografico, decisamente più interessanti per alcuni contenuti cronachistici e per la vivida immagine riflessa di una società febbrile e picaresca che per il valore letterario, complessivamente molto modesto.
L'ultima lettera conosciuta del M. è datata da Mantova 29 genn. 1608, ma dall'edizione delle Ducento novelle del 1609 non si ricava in alcun modo che a quel tempo egli fosse morto. Allo stato delle ricerche sia la data, sia il luogo della morte rimangono sconosciuti.
Resta notizia di una moglie legittima, di cui non è noto il nome, e di due figli, Francesco Antonio e Carlo.
Dopo la editio princeps, le Ducento novelle non sono state più ristampate; le raccolte antologiche che contengono novelle del M. sono elencate in R. Lencioni Novelli, C. M. tra biografia e novella, p. 42 n. 13, a cui si aggiungano: Novelle italiane del Cinquecento, a cura di B. Maier, Milano 1962, pp. 457-475; Novelle italiane, Il Cinquecento, a cura di M. Ciccuto, Milano 1982, pp. 635-653; M. Guglielminetti, Una novella cinquecentesca sulla Valle Antigorio (C. M., Duecento novelle, II, XXIII), in Almanacco ossolano, Torino 1995, pp. 9-23; Novellieri del Rinascimento, a cura di M. Prisco, Roma 1997, pp. 993-1014. Per la traduzione del Trésor di B. Latini, G. Manzoni, Saggio di una edizione dell'originale francese inedito del Tesoro di Brunetto Latini, con una parte della traduzione inedita di C. M., in Riv. enciclopedica italiana, II (1856), pp. 501-514.
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