NUTRIZIONE (XXV, p. 85)
Fisiologia della nutrizione. - I recenti progressi, in questo campo, sono scaturiti da un approccio multidisciplinare e integrato, discendente dallo sviluppo delle ricerche di biochimica, fisiopatologia, clinica e medicina preventiva, oltre che, ovviamente, di scienza dell'alimentazione e di dietetica.
Digestione e assorbimento. - È noto che la possibilità di effettiva assimilazione o incorporazione del cibo dipende dalla liberazione, in forma atta a essere assorbiti, dei principi nutritivi contenuti negli alimenti. Si attua così, sostanzialmente, la capacità di trasferimento di energia, come di sostanze chimiche indispensabili dal punto di vista nutrizionale, dall'ambiente esterno (lume intestinale) all'ambiente interno (fluidi dell'organismo, tessuti, cellule). Entrano, di conseguenza, in gioco meccanismi complessi, legati alla singolarità dell'adattamento evolutivo delle cellule della mucosa intestinale che ha fatto sì che queste ultime abbiano sviluppato la proprietà di captare dall'ambiente esterno, con cui si trovano in diretto contatto, aminoacidi, acidi grassi, zuccheri e tutti gli altri nutrienti necessari, non soltanto per il proprio metabolismo, ma per l'intero corpo; come corollario, limitatamente ad alcuni principi nutritivi, per es. il ferro (v. oltre), il livello di tale funzione s'innalza, contribuendo a esercitare il controllo della quantità assorbibile. Indipendentemente dai contenuti della dieta, l'efficienza della digestione e dell'assorbimento è perciò fondamentale per garantire un'adeguata nutrizione. Determinante, a questo fine, è la regolazione della motilità e della secrezione di succhi e di enzimi digestivi nel canale gastro-intestinale, funzioni che sono sotto il controllo, oltre che del sistema nervoso autonomo, di ormoni specifici (enterormoni), in un primo tempo identificati, in base a quattro principali azioni, come secretina, gastrina, colecistochinina, pancreozimina. Negli ultimi anni, peraltro, è stata postulata l'esistenza di altri numerosi ormoni gastrointestinali. Trattasi di peptidi che sono stati ottenuti in forma pura e/o sintetizzati e di cui si conoscono le sequenze in aminoacidi (M. I. Grossman, 1975). Naturalmente molto resta da sapere sulla specifica azione di queste sostanze. Esperimenti condotti con enterormoni puri e determinazioni della loro concentrazione nel sangue con metodi radioimmunologici hanno comunque chiarito importanti aspetti delle loro funzioni. Variamente e più o meno intensamente distribuiti lungo il tubo gastro-intestinale (fig. 1), essi esercitano effetti di vario tipo. La gastrina, che rappresenta uno degli enterormoni più noti, agisce principalmente stimolando la secrezione di acidi nello stomaco e di pepsina, favorisce l'accrescimento della mucosa gastrica e la contrazione della muscolatura del cardias; la sua produzione è influenzata da vari fattori, come la distensione provocata dal riempimento dello stomaco, l'aumento di scariche colinergiche (vagali) e vari altri fattori (J. H. Walsh, M. I. Grossman, 1975); per quanto riguarda la composizione molecolare sono state isolate tre forme di gastrina, che hanno la stessa configurazione terminale: big gastrin, minigastrin, big big gastrin. La colecistochinina-pancreozimina, contrariamente a quanto si presupponeva, e come ancora indica il doppio nome, costituisce un singolo ormone secreto dalla mucosa del tratto superiore dell'intestino tenue, che ha appunto la duplice funzione di provocare la contrazione della colecisti e la secrezione pancreatica. Strutturalmente è ben distinto dalla secretina, che esplica una funzione collaterale di stimolo della secrezione pancreatica. Esistono comunque prove che i citati ormoni gastrointestinali interagiscono tra di loro e con gli altri peptidi la cui funzione ormonica è stata riconosciuta (W. F. Ganong, 1977), come il GIP (Gastric Inhibitory Peptide), il VIP (Vasoactive Intestinal Peptide), la cui relazione con l'enterogastrone (che pure sembrerebbe inibire la secrezione gastrica) è ignota, la motilina, la sostanza P (ritrovata nei neuroni del cervello e del tratto gastrointestinale), la bombesina (che stimolerebbe la secrezione di gastrina e la motilità gastrointestinale), la somatostatina (che inibisce invece la secrezione di gastrina) e il glucagone, ormone iperglicemizzante già ritenuto di esclusiva origine pancreatica e più recentemente individuato anche nello stomaco e nel duodeno.
In effetti, il modello di interazioni fra assunzione di cibo, funzioni nervose centrali e periferiche, secrezioni ormoniche e funzioni gastroenteriche propriamente dette, è alquanto complesso e nelle sue reciproche relazioni, almeno in parte, ancora da precisare. In pratica, tuttavia, la digestione delle sostanze nutritive che debbono, come proteine, lipidi, polie disaccaridi, essere ridotti in principi più semplici, e il loro successivo assorbimento, avvengono mediante la messa in opera di meccanismi differenti. Per quanto riguarda i glicidi (fig. 2), la digestione è avviata nella saliva dalla α-amilasi salivare, che attacca l'amilopectina (costituente l'80-90% dell'amido alimentare), e viene continuata nell'intestino tenue dalla α-amilasi pancreatica. Gli oligosaccaridi così liberati passano allora nell'orletto a spazzola della superficie delle cellule mucosali dei villi e sono scissi da enzimi specifici (disaccaridasi) con liberazione dei monosaccaridi costituenti. È stato dimostrato che la deficienza di una o più disaccaridasi determina diarrea, rigonfiamento e flatulenza. La prima è conseguente all'aumento nel lume intestinale del numero di molecole osmoticamente attive, le quali richiamano acqua nel tubo intestinale; rigonfiamento e flatulenza sono, per contro, dovuti alla produzione di gas (CO2 e H2) da residui di disaccaridi nella parte inferiore del tenue e nel colon.
Per i riflessi nutrizionali conseguenti al disturbo dell'utilizzazione digestiva, è al riguardo da segnalare il comportamento della lattasi, la cui attività, particolarmente alta alla nascita, nella maggior parte dei mammiferi e delle popolazioni umane, declina successivamente, rimanendo bassa nell'età adulta. I bassi livelli di attività lattasica sono di conseguenza associati a intolleranza al lattosio e quindi al latte, particolarmente per le popolazioni negre (in SUA 70% d'intolleranza fra i negri, 20% fra i bianchi). I monosaccaridi resi liberi (esosi, come pure pentosi) sono infine rapidamente assorbiti dalle cellule mucosali, donde giungono, tramite i capillari, nel circolo venoso portale. Alcuni pentosi sono assorbiti per diffusione, mentre per il glucosio e il galattosio entra in gioco un meccanismo di trasporto attivo (fig. 3), che prevede la partecipazione di una molecola trasportatrice (carrier) e un'alta concentrazione di sodio (Na+), cosiddetta pompa al sodio, sulla superficie della mucosa. Il fruttosio è invece assorbito più lentamente utilizzando un carrier diverso (G. M. Gray, 1975 - P. A. Mayes, 1977).
Anche i prodotti ultimi della digestione delle proteine (L-aminoacidi) sono assorbiti con un meccanismo attivo, legato in maniera ancora da precisare con la presenza del Na+; esisterebbero tre diversi sistemi di trasporto, uno per gli aminoacidi neutri, uno per i basici e uno che trasporta prolina, idrossiprolina e pochi altri.
Per quanto riguarda, d'altro canto, i lipidi, i prodotti ultimi della digestione, iniziata nell'intestino tenue, dopo emulsione e intervento di lipasi, hanno un diverso destino. La fig. 4 mostra l'assorbimento degli acidi grassi derivati dalla scissione dei trigliceridi. Mentre quelli a catena corta, attraversando le cellule, entrano direttamente nella corrente sanguigna portale, quelli a catena lunga entrano in contatto con il reticolo endoplasmatico liscio e sono nuovamente esterificati a trigliceridi; questi, a loro volta, sono messi in rapporto con il reticolo endoplasmatico ruvido che formerebbe lipoproteine e quindi chilomicroni, i quali ultimi lascerebbero le cellule, passando nella corrente linfatica. Il colesterolo, invece, è prontamente assorbito dall'intestino, a eccezione della parte distale del tenue, quando concorrono condizioni come presenza di bile, acidi grassi e succhi pancreatici. Steroli di origine vegetale sono per contro scarsamente assorbiti e possono, come particolarmente quelli presenti nella soja, ridurre l'assorbimento di colesterolo, probabilmente entrando in competizione con esso nella esterificazione di acidi grassi. È importante, comunque, sottolineare che in condizioni sperimentali l'assorbimento del colesterolo alimentare e la sua sintesi endogena sembrano esser sotto. controllo feedback. Nell'uomo, peraltro, non è accertato se l'assorbimento del colesterolo con la dieta comporti una riduzione compensativa della sintesi endogena (P. G. Nestel, 1970).
Ruolo fisiologico delle fibre vegetali. - Fra le sostanze glicidiche sono incluse, com'è noto, la cellulosa e altri componenti indigeribili come emicellulosa, lignina, pectine, pentosani e acidi uronici, cui veniva, fino a pochi anni addietro, riconosciuta la sola funzione di contribuire alla formazione della massa fecale e di stimolare la peristalsi intestinale. La loro importanza è stata comunque negli ultimi anni rivalorizzata da D. R. Burkitt che ha messo in evidenza come al maggiore contenuto in fibre vegetali nell'alimentazione dei popoli del Terzo Mondo, rispetto a quelli occidentali (figg. 5-6), corrisponda una minore incidenza di alcune malattie. Ciò è stato confermato da vari autori (D. M. Hegsted, H. Trowell, A. S. Truswell, 1976). E ancora da chiarire quali delle citate fibre presentino effetti più vantaggiosi e quali siano, di conseguenza, le fonti nutrizionali (cereali, leguminose, ortaggi) più convenienti. Appare certo, comunque, che la funzione delle fibre risiede nella capacità di regolare volume e consistenza della massa fecale, di condizionare i tempi del transito intestinale, il metabolismo della flora batterica, quello dei sali biliari, del colesterolo e degli acidi grassi a catena breve.
Per quanto riguarda in particolare l'effetto ipocolesterolemizzante delle fibre, si presume che questo derivi principalmente dalla loro attitudine a legarsi nel lume intestinale con gli acidi biliari e a interferire così sul riassorbimento di questi e quindi sul circolo entero-epatico. La minore concentrazione di acidi biliari nel sangue portale stimolerebbe, di rimbalzo, a livello epatico, la deviazione del metabolismo del colesterolo verso una maggiore produzione di acidi biliari che, essendo a loro volta escreti in maggiore quantità con le feci, contribuirebbero a riequilibrare il bilancio del colesterolo nell'organismo. È stata anche avanzata l'ipotesi che l'effetto ipocolesterolemizzante delle fibre sia in parte dipendente da una modificazione della flora batterica indotta dalle fibre, che trasformerebbe i sali biliari primari in secondari non più riassorbibili. Un altro probabile meccanismo potrebbe consistere in un legame diretto fra fibre e colesterolo alimentare o più verosimilmente in un ridotto assorbimento di quest'ultimo a causa dell'accelerato transito intestinale. Per quanto riguarda, poi, la osservata correlazione fra contenuto in fibra della dieta e incidenza di malattie dell'intestino, fra cui diverticolosi, polipi adenomatosi e cancro del colon, trova sostegno l'ipotesi secondo cui la scarsità di fibre vegetali provoca la stasi fecale; s'innesca così un circolo vizioso che lascia più tempo alla proliferazione batterica con formazione di sostanze tossiche e/o cancerogene o co-cancerogene potenziali, a una più lunga infine possibilità di contatto di queste sostanze e di altri contaminanti o additivi di sospetta sicurezza, eventualmente presenti negli alimenti, con la mucosa intestinale (D. P. Burkitt, 1975).
Utilizzabilità o disponibilità fisiologica di fattori nutritivi. - La formulazione di questo concetto prende origine dalla constatazione che, a prescindere dall'efficienza dei processi digestivi, l'effettiva utilizzazione dei nutrienti dipende dalla disponibilità fisiologica alla digestione e all'assorbimento. La mancanza di questa attitudine può essere inerente alla natura chimica della sostanza - com'è il caso dei ricordati glicidi indisponibili, costituenti la fibra alimentare - o può essere conseguente a trattamenti che, modificando chimicamente le sostanze interessate, ne impediscono l'attacco da parte degli enzimi digestivi. Ciò è particolarmente importante per le proteine.
È noto che durante il trattamento, specie con calore, e la conservazione degli alimenti, avvengono "fenomeni d'imbrunimento" di natura non enzimatica, cioè puramente chimica. Trattasi della condensazione di zuccheri con aminoacidi, studiati per la prima volta da A. Maillard nel 1912. Oltre a modificazioni accettabili, come il colore bruno della birra, della pasta e del pane, del caffè, ecc., l'imbrunimento comporta, tuttavia, effetti indesiderabili, perché il legame che si stabilisce tra aminoacidi e zucchero non può essere scisso dagli enzimi digestivi. Di conseguenza gli aminoacidi coinvolti nella reazione (particolarmente suscettibile è la lisina, che per la sua natura di aminoacido basico presenta sempre un gruppo amminico libero di reagire) vengono a essere, in misura più o meno significativa, resi indisponibili per l'assorbimento.
In prodotti da forno come il pane, la perdita di lisina utilizzabile può raggiungere il 10-15%. In biscotti ad alto contenuto proteico per l'aggiunta di latte in polvere, è stata osservata una perdita del 50%. Sviluppo più o meno intenso della reazione di Maillard si può avere inoltre nel latte in polvere e nel latte sterilizzato e a lunga conservazione (J. Adrian, 1974). La riduzione del valore nutritivo delle proteine, resa evidente con alimentazione lattea esclusiva, è peraltro praticamente irrilevante, allorché il latte sterilizzato viene impiegato come alimento integratore, per es. di diete di solo pane (A. Mariani, 1967).
Altri meccanismi di regolazione dell'utilizzabilità entrano in gioco per quanto riguarda i minerali, come dimostrano gli studi sull'assorbimento del ferro. Come già accennato, tale processo assorbitivo è controllato da due importanti fattori: 1) lo stato delle riserve dell'organismo; 2) l'attività empoietica del midollo osseo. Il ferro è assorbito allo stato ferroso (Fe++) nell'orletto a spazzola delle cellule della mucosa intestinale. L'acido ascorbico e altre sostanze riducenti possono facilitare la conversione dello ione ferrico apportato con la dieta in ione ferroso. Altre sostanze contenute nella dieta, come l'acido fitico nei cereali, riducono invece l'assorbimento del ferro, formando composti insolubili nell'intestino. L'assorbimento del ferro è un processo attivo. Nel passaggio dalle cellule mucosali della parte prossimale dell'intestino tenue alla corrente sanguigna, la maggior parte del ferro si lega a una proteina, l'apoferritina. Il prodotto di combinazione, la ferritina, si accumula nelle cellule e per quanto riguarda quelle intestinali si elimina solo per effetto della loro perdita per desquamazione. Il controllo dell'assorbimento del ferro risiede quindi, in prima istanza, nella quantità di ferro ivi depositato, che viene a costituire il cosiddetto "sipario di ferritina". Entra in gioco, comunque, anche la predetta disponibilità del ferro della dieta, che per un complesso di fattori complessi, ancora in gran parte da delucidare, varia nettamente passando da alimenti vegetali ad alimenti animali (v. fig. 7) (C. V. Moore, 1973, C. Martinez-Torres e M. Layrisse, 1974).
Valutazione del valore nutritivo delle proteine. - In teoria, il valore nutritivo delle proteine è espresso dalla proporzione fra gli aminoacidi in esse contenuti e la quantità necessaria per la sintesi di nuove molecole proteiche nei tessuti. Emerge da tale definizione il concetto di aminoacido limitante, dipendente dal fatto che il più basso contenuto di un aminoacido, rispetto a tutti gli altri, limita implicitamente l'utilizzazione per la sintesi dell'intera miscela.
In questi ultimi anni, vari tentativi sono stati fatti (FAO, 1957; FAO-OMS, 1973) per definire qualitativamente e quantitativamente la combinazione di aminoacidi necessari per soddisfare il bisogno nell'uomo. Le formulazioni escogitate non sono tuttavia esenti da critiche. Da quando T. B. Osborne e L. B. Mendel (1917) proposero una metodologia di valutazione della qualità biologica delle proteine basata sulla loro efficienza nel promuovere la crescita, il campo di ricerca sull'argomento si è andato, infatti, sviluppando e ampliando, per cui attualmente le metodologie disponibili, con le diverse varianti, anche limitandosi alle più attendibili, assommano a una ventina circa. Inoltre, da quando i classici studi di W.C. Rose (1957) hanno portato su basi quantitative i bisogni in aminoacidì essenziali per l'uomo, si è aperta una problematica di ricerca, non ancora completamente risolta, riguardante l'influenza su tali bisogni dell'età e dello stato fisiologico soprattutto per quanto riguarda la validità del trasferimento all'uomo dei risultati ottenuti sperimentando su specie diverse. Fino a non molto tempo indietro, la ricerca metodologica sulla qualità biologica delle proteine è stata d'interesse quasi esclusivo dei biochimici e fisiologi della nutrizione. Presentemente, tuttavia, l'introduzione attuale o potenziale di nuove fonti di proteine variamente trattate ha posto la necessità di una più precisa definizione delle caratteristiche nutrizionali. Ciò ha stimolato l'interesse per il problema tanto da parte dell'industria quanto dei vari organismi nazionali e sovranazionali (come per es. la CEE). Ne è derivato un diverso modo d'impostare il problema, non necessariamente in contrasto con il precedente quanto a finalità, ma certamente differente per quanto attiene ai criteri per la scelta della o delle metodologie più adatte per la valutazione dei preparati proteici. Mentre da un punto di vista teorico resta fermo il principio della validità biochimico-fisiologica di ogni singolo test, da un punto di vista pratico divengono qualificanti certe caratteristiche come rapidità dell'esecuzione, costo e possibilità di applicazione per un ampio spettro di alimenti. I metodi di valutazione degl'indici chimici, enzimatici o microbiologici sono divenuti di conseguenza oggetto di approfondita ricerca. Tutta questa vasta problematica è stata recentemente oggetto di un dibattito e revisione critica di C. E. Bodwell (1977), nella Midlands Conference del 1977 e da parte della National Academy of Science degli Stati Uniti d'America.
I principali metodi usati per la valutazione delle proteine sono, comunque, quelli indicati nella tab.1, distinti fra quelli basati sull'impiego di una sola dose delle proteine o della miscela di proteine in esame e quelli che prevedono dosi multiple. In verità, un metodo ideale di valutazione della qualità proteica dovrebbe (M. A. Spadoni, 1978) avere requisiti tali da consentire di discriminare con precisione tra proteine di diversa qualità, di disporre di uno standard interno valido per assicurare l'indipendenza dei risultati da fattori interferenti (per es., la quantità di proteine e di alimento consumato), di ottenere risultati proporzionali alla potenza vera del materiale in esame e infine di avere risultati validi per l'uomo. Accanto a questi requisiti il metodo dovrebbe essere rapido (possibilmente meno di 48 ore), economico, riproducibile, utilizzabile per un'ampia varietà di alimenti complessi. Attualmente, però, nessun metodo ha al completo questi requisiti e ovviamente nell'operare la scelta bisogna decidere quale filosofia o scopi pratici seguire. Dall'insieme dei lavori finora pubblicati sull'argomento e dai criteri seguiti, sembrerebbe emergere la tendenza a ricercare, sul piano pratico, metodi rapidi in vitro, possibilmente con alta correlazione con i metodi biologici. Il problema allora dovrebbe essere spostato sulla scelta del metodo biologico con il quale la correlazione dovrebbe essere ricercata. È perciò importante tenere presente che il PER, pur essendo il metodo biologico ufficialmente riconosciuto e più frequentemente applicato, manca di troppi dei requisiti che si richiedono per poter servire come termine ideale di confronto. E, dovendo scegliere tra gli altri metodi a disposizione, è da stabilire se il metodo dev'essere condotto sulla specie di destinazione, nel caso in questione l'uomo, oppure sul ratto. Sotto questo riguardo, la validità del trasferimento dei risultati dal ratto all'uomo è controversa, ma è sostanzialmente controversa anche l'esistenza o meno di una diversità della qualità proteica, per le diverse età, il che equivale a dire che non è sicuramente vero che possa essere fatta una discriminazione tra qualità proteica per la crescita e qualità proteica per il mantenimento. Anche riconoscendo che il bisogno in aminoacidi essenziali è molto maggiore nella prima infanzia che nella maturità, non va trascurato, infatti, che i bisogni nell'adulto sono di necessità misurati a bassi livelli di consumo e in genere con una sperimentazione relativamente di breve durata, per cui è possibile una sottovalutazione dei bisogni. D'altra parte i tests sull'uomo, anche se teoricamente i più logici, presentano praticamente notevoli difficoltà, non solo tecniche, ma anche d'interpretazione. Inoltre, se gli studi sull'uomo adulto sono discutibili, quelli sui bambini lo sono ancora di più per ragioni etiche. Allo stato attuale, di conseguenza, le più recenti esperienze per quanto riguarda i tests biologici sul ratto suggeriscono che il "valore proteico relativo" (RPV), determinato secondo A. Sammonds e D. M. Hegsted, è, fra i metodi disponibili, quello che ha i maggiori requisiti per servire da metodo di controllo, anche se alcuni problemi esecutivi debbono ancora essere risolti. Un eventuale metodo in vitro per essere accettabile dovrebbe essere quindi altamente correlato con il RPV. Altri metodi biologici, che per ragioni di spazio sono solo accennati, come quelli che si basano sul modello deplezione-replezione o su altre tecniche capaci di mettere in evidenza gli aminoacidi limitanti, richiedono ulteriori ricerche o sono troppo sofisticati per essere utilizzati routinariamente.
Unità di energia nutrizionale. - A partire dal 1969, un vivace dibattito metrologico si è aperto fra i nutrizionisti e, più in generale, fra gl'interessati ai problemi alimentari. Vari argomenti sono stati portati, infatti, a sostegno o a sfavore delle raccomandazioni con cui (per aderire al SI o Système International d'Unités: v. unità di misura, in questa App.) il Comitato per la Nomenclatura della IUNS (International Union of Nutritional Sciences) proponeva di rimpiazzare, quale unità di misura nutrizionale, la caloria con il joule. Accogliendo, comunque, almeno in parte, le riserve di ordine teorico e pratico sollevate dalla proposta (E. D. Vitali, 1971), invece della sostituzione, una duplice indicazione è cominciata ad apparire nella letteratura nutrizionale in riferimento alla misura di energia.
Per es., i valori relativi ai bisogni di energia stabiliti sul piano internazionale (FAO/OMS, 1973) e in vari paesi (Regno Unito, 1973; Italia, 1974; ecc.) risultano espressi in chilocalorie (kcal) e chilojoule (kJ). In occasione del X Congresso Internazionale di Nutrizione tenutosi a Kyoto nell'agosto 1975, tuttavia, la IUNS, rielaborando e ridiscutendo nuove osservazioni e pareri, ha votato una risoluzione che, tenendo conto dei dubbi avanzati sulla convenienza del joule come unità di misura usuale, suggeriva il mantenimento dell'uso generalizzato della caloria o, meglio, della chilocaloria (kcal). Non si è mancato di considerare, peraltro, che la caloria, così com'è ora definita, può essere oggetto di critica per la sua dipendenza dal calore specifico dell'acqua, che varia leggermente in ragione del range di temperatura, al di sopra del quale è misurata. Di conseguenza, anche come connessione col sistema SI, è stato proposto di ridefinire la caloria in quanto unità di energia di uso nutrizionale, esprimendola come quella unità di calore che può essere ottenuta dall'efficiente conversione di 4,184 joule (4,184 kJ per la kcal) di lavoro meccanico. A quest'ultimo riguardo, comunque, il rapporto presentato dal competente comitato della IUNS avanza qualche riserva. Il punto cruciale consiste nel fatto che la conversione del lavoro meccanico in calore può verificarsi efficientemente solo in una direzione, come nei classici esperimenti originali di J. P. Joule. Nell'organismo, inoltre, nella trasformazione dell'energia apportata con gli alimenti, il rapporto lavoro-calore prodotti varia con la natura del lavoro e la velocità, più probabilmente il quadrato della velocità con cui viene svolto. L'implicazione 1 kcal = 4,184 kJ non sembra quindi così semplice come appare a prima vista e potrebbe essere fonte di errore per i nutrizionisti che calcolassero l'energia alimentare spesa in prestazioni in cui l'entità del lavoro meccanico è misurabile. Si mancherebbe così di valutare la quota di energia (variabile) a seconda del lavoro, dissipata come calore. La definizione della cosiddetta "caloria nutrizionale" è quindi, al momento, secondo la IUNS, un obiettivo che potrà essere raggiunto solo dopo una lunga e attenta esplorazione del problema. Nel frattempo, in accordo al SI, la CEE ha di recente ribadito il principio della sostituzione della caloria con il joule, mentre recenti pubblicazioni britanniche (v. la 5a ed. di S. Davidson e R. Passmore, 1973) hanno iniziato a presentare il joule come sola misura di dispendio energetico.
Stato di nutrizione e composizione corporea. - Lo stato di n. è la risultante dell'equilibrio dinamico, rilevato al momento dell'osservazione, fra i bisogni di nutrienti e di energia e il loro soddisfacimento; in definitiva, esprime il bilancio fra disponibilità di nutrienti e la loro più soddisfacente utilizzazione. Tenuto conto delle interazioni fra determinanti genetiche e fattori ambientali, esso presenta, d'altra parte, un'ampia variabilità interindividuale e intraindividuale; ciò comporta ovviamente notevoli difficoltà nello stabilire i limiti di "normalità" e nello scegliere i termini di riferimento. È da ribadire, comunque, che lo stato di n. di individui o popolazioni è in larga misura espressione della predominante situazione ambientale; costituisce l'effetto dei molteplici fattori (nutrizionali, igienico-sanitari, socio-economici e culturali) che, nel senso più lato, interagiscono sull'eco-sistema umano. Se è dunque vero - ferma restando l'importanza del potenziale genetico - che noi siamo ciò che mangiamo, è altrettanto certo che noi siamo ciò che il più vasto contesto ambientale ci consente di divenire. Questa impostazione, collocando la n. nell'ambito del grande problema ecologico (P. Gyorgy, 1970), pone vari problemi dal punto di vista metodologico e presuppone un accurato esame della situazione sociale. Al riguardo, già all'inizio del secolo, P. Albertoni aveva affermato che l'alimentazione è una questione eminentemente sociale. E, in ogni caso, la preliminare conoscenza della situazione ambientale o l'esigenza di rilevarla, contestualmente alle indagini biologiche e sanitarie, influisce, in misura determinante nella scelta dei più idonei parametri di studio. Sotto questo aspetto, l'esistenza di attendibili bilanci alimentari nazionali o regionali, da un lato, e la disponibilità di dati epidemiologici, dall'altro, sono di particolare utilità per mettere a fuoco l'indagine in rapporto alle manifestazioni di cui può essere sospettato il rilevamento: per es. malnutrizione proteico-calorica, altre carenze o presumibili squilibri in difetto o in eccesso, situazioni al margine (v. malnutrizione, in questa App.). Come primo approccio, nel caso di studi di popolazione, è quindi basilare la sorveglianza o monitoraggio della situazione biosanitaria e socio-economica, secondo la metodologia proposta recentemente dall'OMS; l'esame clinico nutrizionale trova, invece, più utile applicazione nelle ricerche su singoli individui o gruppi, fornendo la possibilità di discriminare sintomi specifici di malnutrizione (D. B. Jelliffe, 1969).
L'impossibilità di raccogliere, in uno studio di popolazione, attendibili dati anamnestici, remoti e/o attuali, comporta tuttavia la difficoltà d'identificare con certezza eventuali casi d'iponutrizione, secondaria a quella piccola patologia (episodi tonsillitici Iebbrili o afebbrili recidivanti, episodi bronchitici, febbricole, non meglio definite, dispepsie, ecc.), che, compromettendo in maniera non reiterata la cenestesi generale e pertanto l'appetito, possano indurre, nel tempo, manifestazioni di malnutrizione secondaria. Ciò significa che il problema dell'interazione nutrizione-infezione, cioè reciproca interferenza tra principali variabili ambientali, secondo H. B. Young (1970), resta aperto all'indagine e alla discussione, soprattutto quando si prendono in esame soggetti viventi in condizioni al limite, sia sotto il profilo dei consumi alimentari, sia sotto quello igienico. A tal fine, per la valutazione delle reciproche interrelazioni, è sempre utile il rilevamento dei consumi alimentari attuali e pregressi; in rilevamenti a carattere individuale, soddisfacenti risultati possono essere ottenuti mediante la registrazione per ricordo delle frequenze di consumo dei cibi abituali, utilizzando eventuali sussidi visivi per una più esatta stima delle quantità ingerite (B. Lancia e altri, 1971).
Di fondamentale utilità nello studio di popolazioni, soprattutto per quanto riguarda la valutazione dell'accrescimento di bambini e ragazzi, è l'antropometria nutrizionale. Seguendo la metodologia indicata da OMS e IBP (1968 e 1969), è stato possibile mettere in evidenza il miglioramento delle condizioni nutrizionali e di accrescimento di gruppi di popolazione italiana (A. Mariani e altri, 1977; A. Ferro-Luzzi e altri, 1977).
Soprattutto in situazioni come quelle esplorate in paesi occidentali, come appunto l'Italia, dove non esistono gravi carenze, ma squilibri marginali, solo l'antropometria nutrizionale sembra costituire l'unico strumento valido per il confronto tra gruppi di soggetti che si differenziano per situazione socio-economica e per conseguente diversa qualità dei consumi alimentari. Le misure antropometriche esprimono, infatti, la storia, cioè l'integrazione di tutte le precedenti fasi di accrescimento dell'individuo. Ciò è confermato, per es., dal fatto che, come in tutto il mondo, il miglioramento delle condizioni ambientali ha determinato in Italia un sensibile aumento della statura media della popolazione. Dalle statistiche di leva risulta, infatti, che rispetto ai nati nel 1900 i nati nel 1951 sono 8 cm più alti. Naturalmente diversi fattori entrano in gioco nel fenomeno. Non sembra tuttavia che la specifica situazione italiana possa essere spiegata, su base genetica, con il cosiddetto "lussureggiamento degli ibridi". I maggiori incrementi staturali sono stati infatti rilevati (v. tab. 2) nelle regioni dove si sono verificati minori movimenti e quindi incroci di popolazione come nelle Marche (+ 10 cm), negli Abruzzi (+ 9 cm), in Sardegna (+ 9 cm), in Basilicata (+ 9 cm), mentre i minori aumenti si sono avuti nelle regioni dove i trasferimenti di popolazione e le probabilità di incroci sono state massime come nel Lazio (+ 6 cm), in Lombardia (+ 7 cm). L'attenzione dev'essere quindi rivolta soprattutto all'intervento, in senso migliorativo, delle due principali variabili ambientali: n. e difesa contro le infezioni. Per identificare, in fasi critiche dello sviluppo, momentanee insufficienze o squilibri della dieta, può essere, d'altro canto, opportuno ricorrere alla determinazione di indici biochimici atti allo scopo. Informazioni particolarmente utili anche dal punto di vista della fattibilità, possono essere raccolte attraverso lo studio del rapporto N ureico-creatinina, proposto da R. Luyken e R. Luyken-F. W. H. Koning (1960) e G. Arroyave (1962) e l'indice di escrezione di idrossiprolina (HOP) proposto da R. G. Whitehead (1966). Per quanto riguarda il rapporto N ureico-creatinina, non sembrano apparire tuttavia differenze significative, in rapporto ai consumi di proteine riscontrabili in gruppi di popolazioni occidentali. L'indice HOP che, essendo dipendente dal metabolismo del collagene, è proporzionale alle dimensioni del pool di quest'ultimo e, di conseguenza, alla velocità di accrescimento del tessuto connettivo, sembra esprimere, per contro, come dimostrano anche ricerche condotte nell'area metropolitana di Roma, interessanti indicazioni sullo stato di n. durante la crescita, anche in situazioni di squilibrio nutrizionale marginale. Esso risulta, inoltre, correlato con la valutazione della velocità di maturazione dello scheletro. Esiste, comunque, la possibilità che al momento dell'esame, il bambino o i gruppi dei bambini esaminati mostrino, per quanto riguarda i tests biochimici, valori tali da non far presumere un'interferenza nutrizionale in atto sulla velocità di accrescimento, mentre dal punto di vista antropometrico esistono significative differenze attribuibili, probabilmente, a restrizioni alimentari sofferte in età precedente. Naturalmente, può verificarsi anche il contrario: cioè che a valori biochimici alterati non corrisponda una già concretizzatasi ripercussione sulla crescita. Ciò conferma l'utilità degli studi longitudinali per verificare nel tempo la possibilità di recupero o meno di ritardi della crescita eventualmente riscontrati. Per quanto riguarda, d'altra parte, la valutazione dello stato di n. di gruppi di popolazione adulta, un problema fondamentale è rappresentato dal significato attribuibile alla misura del peso corporeo, tenuto conto della grande varietà di proporzioni esistenti tra peso totale del corpo, e la sua reale composizione. Come risulta dal rapporto pubblicato recentemente dalla FAO e dall'OMS sui fabbisogni energetici, la considerazione di questo problema presenta, oltretutto, una grande importanza, tanto che dimensioni e composizione del corpo (proporzione tra grasso e massa magra) influiscono in misura determinante nel calcolo del dispendio energetico e della quantità di proteine necessarie. La quantità di grasso corporeo in differenti gruppi di popolazione può variare dal 10% al 25-30%. Se è evidente l'interesse di conoscere la reale composizione corporea, ben si sa che i più comuni metodi di misura, densitometria e conteggio totale della radioattività corporea con Whole Body Counter (WBC) trovano precisi limiti, a prescindere dall'affidabilità delle misure sul piano dell'applicabilità su individui e gruppi di popolazione. In questi ultimi anni, per superare queste difficoltà, è stato portato avanti lo studio di modelli atti a calcolare la composizione del corpo utilizzando per la predizione equazioni di regressione lineare, ricavate dalle analisi delle interrelazioni fra determinazione del grasso corporeo, ottenuto con WBC e varie combinazioni di peso, statura, età e spessore di pliche cutanee (G. Clemente e altri, 1973).
Lo studio ha condotto alla formulazione delle seguenti equazioni:
dove
Le equazioni, essendo state calcolate su campioni di soggetti che presentavano ampie variabilità, possono essere quindi usate per la predizione dei contenuti in grasso di gruppi eterogenei di popolazione, tenendo presente che l'errore standard della stima è inversamente correlato alla grandezza del campione. Un'altra stima indiretta della composizione corporea è stata proposta da J. V. Durnin e altri (1974) partendo dallo spessore di 4 pliche cutanee. Appare possibile così, utilizzando dati antropometrici di semplice rilevazione, procedere a una più approfondita valutazione delle principali componenti corporee (cioè grasso e massa magra) quali indici dello stato di nutrizione energetica di popolazione.
Livelli raccomandabili di fattori nutritivi. - Le prime proposte di formulazione di livelli raccomandati di nutrienti e di cosiddetti "standards dietetici" risalgono all'attività della Commissione tecnica sulla Nutrizione della Società delle Nazioni (1935). È a partire dall'ultima grande guerra, comunque, che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna se ne iniziano le periodiche pubblicazioni e revisioni. Attualmente, oltre alle ben note RDA (Raccomanded Dietary Allowances) proposte dal Food and Nutrition Board del National Research Council of National Academy of Sciences degli SUA, numerosi paesi hanno elaborato opportuni standards.
Nella tab. 3 sono presentati i livelli di assunzione raccomandati per la popolazione italiana (LARN), stabiliti in funzione dei suoi caratteri antropologici. Tali valori sono stati enunciati da un'apposita commissione nominata dalla Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU) e pubblicati a cura dell'Istituto Nazionale della Nutrizione (INN) e del ministero Agricoltura e Foreste. A evitare un uso non appropriato dei LARN dev'essere tenuto in considerazione quanto segue:
1) i livelli di assunzione raccomandati, a eccezione di quelli per l'energia, sono ritenuti "sufficienti o meglio più che sufficienti a coprire i bisogni nutrizionali praticamente di tutte le persone sane di una popolazione". Questo implica che i LARN comprendono un quantitativo aggiuntivo al di sopra dei bisogni per tener conto sia della variabilità individuale, sia della mancanza di precisione inerente alla loro valutazione. Questo quantitativo, che sovrastima le necessità, va quindi inteso come garanzia di sicurezza per l'intera popolazione. I LARN non corrispondono, di conseguenza, fatta eccezione per l'energia, ai bisogni medi, e ne deriva così che un'assunzione al di sotto dei livelli raccomandati non s'identifica sempre con un rischio di malnutrizione, e che essi non possono venire quindi utilizzati per una valutazione dello stato di nutrizione. 2) Tali livelli sono basati sulle più fondate conoscenze sull'argomento a disposizione al momento della loro formulazione. Non si possono pertanto considerare come parametri di significato definitivo, in quanto vanno periodicamente revisionati in rapporto all'aumento del patrimonio conoscitivo. 3) È pure opportuno che, nella pratica comune, la traduzione dei LARN in diete per le diverse condizioni fisiologiche sia fatta utilizzando una larga varietà di alimenti comuni, in modo da essere sicuri che le razioni proposte siano in grado di fornire quantità sufficienti anche di quei fattori nutritivi i cui bisogni non sono ancora ben definiti e che pertanto non compaiono nei LARN. Questi ultimi, infine, esprimendo valori medi per gruppi di riferimento, non possono essere come tali applicati nel calcolo delle esigenze nutrizionali individuali; per quest'ultima valutazione si rendono infatti sempre necessari particolari adattamenti.
I LARN hanno in definitiva un ampio raggio di applicazione: a) come guida per la pianificazione di diete per comunità di persone sane o per singoli; b) come base per la razionalizzazione dell'approvvigionamento di alimenti: in particolare come punto di partenza a livello governativo per la pianificazione in agricoltura e l'orientamento delle importazioni ed esportazioni.
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