Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La mostra del 1925 ad Hannover tenta di ricondurre la molteplicità delle posizioni dell’arte tedesca degli anni Venti a un denominatore comune, quello della “Nuova oggettività”. Nasce una sigla di grande successo, sotto cui si nascondono traiettorie individuali irriducibili e conflittuali: le convulse risposte approntate da un mondo intellettuale che, viste deluse le speranze riposte nella rivoluzione tedesca del 1918, si trova a oscillare tra politica e disimpegno, tra critica feroce e spietata di una realtà spaventosa e ripiegamento nell’interiorità e nel sogno.
Nel maggio 1923, da poco assunta la direzione della Städtische Kunsthalle di Mannheim, il critico d’arte Gustav Friedrich Hartlaub invia a critici, direttori di musei e galleristi una circolare – seguita, a luglio, da una agli artisti – in vista di una mostra sulla Neue Sachlichkeit, che verrà inaugurata il 14 giugno 1925 con il titolo Die Neue Sachlichkeit. Deutsche Malerei seit dem Expressionismus. Con Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), Hartlaub impone una sigla di notevole fortuna, che tuttavia non è stato lui a coniare, se già nel 1924 Hildebrandt la definisce “nota a tutti”. Nella letteratura artistica tedesca, il vocabolo Sachlichkeit – da sachlich, a sua volta da sache (“cosa”) – era, del resto, già venuto in uso almeno a partire dagli ultimi anni del XIX secolo.
Quello di Hartlaub non è l’unico tentativo di dare un nome all’eterogenea produzione artistica coeva. Sempre nel 1925, Franz Roh dà alle stampe Nach-Expressionismus. Magischer Realismus, in cui ripropone la definizione di “realismo magico” per una produzione artistica che in buona parte coincide con quella esposta a Mannheim. Altri, ancora, preferiscono definire gli artisti coinvolti, o una loro parte, come “veristi” oppure come “neo-nazareni”. Sarà però la sigla proposta da Hartlaub a imporsi nell’uso comune.
La Nuova oggettività, comunque, non solo non nasce come movimento unitario, ma nemmeno come movimento. Per Hartlaub, aperto sostenitore sino a pochi anni prima dell’espressionismo, si tratta sia di prendere atto di un avvenuto mutamento sia di pilotarlo. Nel far questo, con la mostra di Mannheim tenta ambiziosamente di definire una cornice unitaria per modalità e impostazioni non di rado contrastanti, anche nel recuperare all’arte tradizionalmente intesa alcuni artisti come George Grosz che, passati per il dada berlinese, rinnegano lo stesso concetto di arte. Certo è che, più che una tendenza o un movimento, la Nuova oggettività è un clima, e pure assai sfaccettato. La vaghezza della sigla sotto cui gli artisti vengono raccolti a Mannheim, insieme all’intrinseco spessore metaforico che essa possiede – dall’aderenza alle cose all’obiettività dello sguardo fino a un senso, più generale, di sobrietà – finisce col rivelarsi particolarmente indicata per un fenomeno arduo da definire, ma oscuramente percepito come omogeneo.
Non molto, in effetti, sembra accomunare gli artisti esposti a Mannheim. Il fatto che fosse prevista la presenza di opere di Picasso è sintomatico dell’attitudine inclusiva dell’operazione. E il tentativo di Hartlaub di identificare un’“ala sinistra” – costituita da artisti passati in buona parte per il dada berlinese, come George Grosz, Otto Dix, Georg Scholz (1890-1945), Rudolph Schlichter (1890-1955) e Hans Grundig (1901-1958), e che propone un’arte aggressiva e fortemente connotata in termini politici – e un’“ala destra” – costituita da artisti soprattutto monacensi, come Heinrich Maria Davringhausen, Georg Schrimpf, Carl Mense e Alexander Kanoldt, ruotanti intorno alla galleria Neue Kunst di Goltz, e che propone atmosfere trasognate, naïf, pur senza restare aliena da preoccupazioni di ordine politico – traccia una linea di demarcazione fittizia, che non tiene conto degli intrecci tra gli artisti e della loro parabola individuale. La scena della Nuova oggettività è infatti molto più complessa e variegata; nel suo non essere un movimento organizzato, è costitutivamente policentrica: come propri perni ha numerosi locali, gallerie e riviste (“Das Kunstblatt”, in primis), spesso in fitta relazione reciproca. A Mannheim, sono poi esposte numerose opere di un decano come Max Beckmann, mentre mancano – tra gli altri – Franz Radziwill (1895-1983) e Christian Schad.
Un motivo non indifferente, nel determinare il clima culturale in cui sorge la produzione artistica cui si tenta di sovrapporre la cornice della Nuova oggettività, è il precipitare di alcune delle istanze proclamate nei giorni rivoluzionari dell’autunno del 1918. Non appena conclusa la prima guerra mondiale, infatti, il più grande massacro organizzato che l’umanità avesse conosciuto fino a quel momento, in Germania fioriscono fantastiche visioni di mondi altri, liberi dal dominio della tecnica, in cui il singolo avrebbe potuto compiutamente sviluppare la propria individualità e, al tempo stesso, sarebbe sorto, irrefrenabile, uno spirito comunitario. Tali aspirazioni palingenetiche sarebbero ben presto state deluse. Alle speranze di un mondo diverso, farà seguito il lento ma deciso rimettersi in moto della macchina politica e industriale tedesca. Non a caso, già nel 1922 Hartlaub mette in relazione la reazione politica con quella artistica.
Superata la crisi economica, la Germania si risveglia con i propri sogni infranti, ma in condizioni economiche e sociali tutto sommato sopportabili, malgrado i colossali debiti di guerra e la disoccupazione e la criminalità dilaganti. Non vi è però più spazio per i grandi sogni. La ripresa dell’andamento della vita sociale e politica, quasi indifferente a esperienze decisive della grande guerra e della rivoluzione, costituisce lo sfondo su cui la classe intellettuale tedesca si trova a operare a partire dai primi anni Venti: senza ormai alcuna speranza di un mutamento radicale, si trova gettata nella realtà di tutti i giorni, priva di qualsiasi prospettiva più ampia. “E gli artisti delusi, disincantati, amareggiati spesso fino al cinismo – osserva Hartlaub –, divenuti pessimisti dopo aver vissuto un’epoca in cui avevano nutrito speranze immense, quasi apocalittiche, nel vortice della catastrofe riflettono su quanto c’è di più concreto, sicuro, e duraturo: la verità e il mestiere”. All’espressionismo postbellico, che alla massificazione e alla nullificazione dell’essere umano aveva reagito con l’esaltazione dell’individualità, una parte cospicua dei pittori tedeschi inizia a rispondere con un atteggiamento opposto: l’accettazione. L’artista non è più l’eroico tramite tra divinità e comunità, ma un distaccato e non di rado sensibilmente disgustato osservatore dalla realtà, cinico e talvolta sarcastico quanto basta per non soccomberle. Il linguaggio della pittura si fa asciutto, chirugico; i soggetti su cui si concentra concernono il presente, nei suoi inquietanti protagonisti, nella sua irresistibile brutalità e oscenità. La grande e tutt’altro che idilliaca città e il ritratto, privo di qualsiasi vena idealizzante, sono occasione per l’esercizio di uno sguardo analitico – lo sguardo dell’ingegnere, dello scienziato o del giornalista da feuilleton, non disposto a concedersi illusioni di sorta, che volentieri osserva il suo soggetto nel suo luogo di lavoro o circondato dai ferri del mestiere, come ne Il medico (Dottor Koch) di Dix o ne L’affarista di Davringhausen. Le cose, estrapolate ed esposte in un’allucinato nitore, si pongono dal canto loro come indizi e come emblemi di un mondo nel quale tra di esse e l’uomo non sembra più sussistere significativa distinzione; come osserva Michel, non si tratta del “ritorno all’oggettività del periodo preespressionista. È la riscoperta dell’oggetto dopo la crisi dell’io”.
Pur rivolte a una committenza costituita prevalentemente dai “nuovi ricchi”, come nota il critico Behne, le nuove tendenze artistiche di cui Hartlaub rileva il “sapore socialista”, in genere non rinunciano a una forte critica nei confronti del presente. L’artista, sostiene Schmidt, aspira a “sbattere in faccia al borghese i suoi vizi, la sua aridità e la sua ristrettezza morale […]. Questa oggettività risulta urtante per l’uomo medio: non ha il minimo rispetto per la sua sensibilità, perché non ha in sé nessuna gioia e sottopone alla cruda luce dei proiettori il terribile deserto di un mondo senza Dio. Il borghese vorrebbe un po’ di romanticismo, magari un’infarinatura di tragedia, in una forma qualsiasi, invece qui trova solo un’assoluta negazione del romanticismo, e di qualsiasi parvenza di bellezza e di illusione che potrebbe ancora illuminare la nostra vita”. Il “naturalismo ostinato e impassibile” e l’“intensa veridicità virile, senza errori” (Dix) sono così funzionali a una critica tanto più efficace quanto più sa cogliere i tratti fisiognomici della “vita normale nel suo inappariscente orrore”: in Hausvogteiplatz di Schlichter, così, in secondo piano, irrompe, tra la folla dedita allo shopping, in mezzo a grandi blocchi edilizi, un patibolo insanguinato. Se allo stato di fatto non esiste alternativa, non resta che la disperata operazione di denudare ciò che è, di rivelarne il volto inquietante, e tanto più inquietante in raffigurazioni sobrie e meticolose. D’altro canto, proprio il senso di stasi, di paralisi, che sembra caratterizzare il momento storico agli occhi degli artisti, spiega come mai la critica che la Nuova oggettività rivolge alla contemporaneità rischi spesso di risultare attenuata, se non inficiata, da un “senso di rassegnazione e di cinismo” (Hartlaub) sempre sul punto di sfociare nell’indifferenza.
La Nuova oggettività è un fenomeno prettamente tedesco. Questo non significa che manchino i riferimenti alla coeva arte europea, e in particolare a quella di Carrà e de Chirico, veicolata da “Valori plastici”. Il linguaggio che ne deriva, spiega Schmidt, è “caratterizzato da un assoluto rigore della costruzione pittorica e della raffigurazione della realtà nello spazio; da una rappresentazione perfino troppo corretta – e di conseguenza abbastanza gelida ma anche stravolta – della prospettiva e della volumetria dei corpi; da una penetrante precisione dei particolari […] e, non da ultimo, da un’attrazione gelida sia per l’esattezza fotografica, portata a una fissità quasi priva di vita, sia per l’esattezza della macchina, che con la sua precisione porta nella costruzione e nella fisionomia dell’immagine una logica implacabile fino all’orrore”. La coeva arte italiana viene ripresa, ma come in uno specchio deformante, vuoi più naïf vuoi più allucinata e stravolta, come accade a quella del Rinascimento italiano e degli antichi maestri tedeschi. Tutti tali modelli tendono a definire una pittura che si basi nuovamente su solide capacità tecniche: l’arte viene intesa come un mestiere. Non sono pochi i pittori della cosiddetta Nuova oggettività a scegliere deliberatamente di insegnare presso l’Accademia, integrandosi così nelle strutture educative. Nulla resta, in questo, della contestazione dada; d’altro canto, attraverso l’accettazione del proprio status, l’artista depone l’aureola e scruta il mondo come borghese tra i borghesi.
Quando, nel 1927, Kurt Tucholsky afferma che “ieri erano tutti espressionisti, oggi tutti vogliono appartenere alla Nuova oggettività”, non è detto che si riferisca soltanto alla pittura. In architettura, soprattutto, la definizione di Nuova oggettività gode di particolare successo, come anche in altri ambiti espressivi, relativamente, ad esempio, al cinema di Georg Wilhelm Pabst, della fotografia di Albert Renger-Patzsch, W. Petry e August Sander, della letteratura di Alfred Döblin, dello Schönberg di Von Heute bis Morgen, in ambito musicale, o della Gebrauchmusik di Paul Hindemith .
Il vocabolo Sachlichkeit viene usato in ambito architettonico molto precocemente. Ai tempi della mostra, Hartlaub osserva che la “salutare disillusione” operata dalla Nuova oggettività “trova in Germania la sua più chiara espressione nell’architettura”; se a questo si aggiunge il fatto che i rapporti tra il critico e il Deutscher Werkbund sono fitti e solidi (nel 1931, l’ultimo dei “Werkbund-Bücker” è Das Ewige Handwerk di Hartlaub), diviene comprensibile come a partire da un certo momento Nuova oggettività divenga sinonimo di Neues Bauen, fulcro in quel momento dell’attività del Werkbund. Così, quando Finsterlin o Worringer vogliono criticare la nuova architettura radicale – il Neues Bauen –, la tacciano proprio di Nuova oggettività. In cosa essa consista, per contro, in architettura è ancor meno chiaro che in pittura. Ben prima della mostra di Mannheim, i principali architetti e critici di architettura che, nell’immediato dopoguerra, si erano attestati su posizioni radicali – Bruno Taut, Walter Gropius e Behne su tutti – mostrano un deciso mutamento di orientamento. Ancor più che nel mondo della pittura, in quello dell’architettura i protagonisti della cosiddetta Nuova oggettività sono i medesimi che, prima della guerra, erano stati membri del Werkbund e che, subito dopo, avevano salutato colmi di speranza la nascita di un mondo nuovo. Non è però possibile interpretare, per comparti stagni, l’architettura tedesca del dopoguerra – così come il Werkbund – in termini di semplice continuità con quella degli ultimi anni dell’impero guglielmino, e la fase rivoluzionaria come una mera deviazione dalla retta via oppure un’apertura subito negata. È ad esempio evidente come quella medesima carica politica che, tra il 1918 e il 1919, irrompe sfrenata, negli anni successivi si ripiega come su se stessa ma, pure, permane. A ben vedere, sembra essere la modalità con cui perseguire gli obiettivi a mutare: l’aspirazione a un mutamento totalizzante della realtà, preconizzato dai radicali, sembra imboccare una via alternativa per il proprio realizzarsi, in una parabola che, a partire dalle cattedrali del futuro, porta alle Siedlungen operaie. L’alleanza tra Werkbund e radicali, che nel dopoguerra si era lacerata, si ricompone; ora a governare la scena sono quest’ultimi, disposti tuttavia ad agire nel contesto e con le armi di questo mondo.
Rimane un grande problema: che quanto in architettura viene identificato come Nuova oggettività non sembra costituire una categoria unitaria e utilizzabile. Anche un’icona della Nuova oggettività come il quartiere sperimentale del Weißenhof, del 1927, nasconde sotto una patina unitaria istanze irriducibilmente contrastanti – le stesse che, d’altro canto, stanno alla base dell’ambigua sigla di Nuova oggettività in pittura.