NOBILTÀ
. Un fenomeno costante in quasi tutte le forme di società politiche, fino dai tempi più remoti della storia, è l'esistenza di gruppi più o meno numerosi di famiglie costituenti una classe privilegiata, la quale secondo i tempi e le circostanze tende ad accentrare nelle proprie mani il potere, ovvero si limita a esercitare un'influenza più o meno preponderante sull'indirizzo politico dell'organizzazione sociale cui appartiene.
Questa classe è rappresentata dalla nobiltà, la quale pertanto si può definire come l'insieme d'individui o di fmmiglie, costituenti, nel senso sopra indicato, una speciale classe sociale del tutto distinta dalle altre.
La "nobilitas" romana. - Quando nelle lotte tra i patrizî e i plebei combattutesi nei secoli V e IV andarono, uno a uno, perduti i privilegi dei primi, fu legalmente libero a tutti l'accesso alle più alte cariche dello stato, ma di fatto lo conseguirono soltanto poche famiglie plebee e si costituì così un'aristocrazia plebea che, insieme coi patrizî, venne a formare una nuova nobiltà, nobilitas (da nosco "conosco"). Chi, nato fuori di questa cerchia, riesce a conseguire una delle cariche cumli, è un homo novus, il quale, specialmente se giunge al consolato (secondo alcuni soltanto in questo caso) nobilita i suoi discendenti, che entrano a fare parte della nobilitas.
Tre categorie si possono distinguere nella nobiltà del periodo repubblicano: 1. i patrizî di nascita; 2. i patrizî usciti dalla patria potestas per mezzo dell'emancipazione o passati alla plebe; 3. i plebei, di cui qualche antenato ha raggiunto il consolato, o, almeno, qualcuna delle cariche curuli. Non è da presumere che l'istituto della nobiltà e le sue conseguenze giuridiche fossero regolati con una legge organica: tuttavia possiamo riconoscere che prerogative di essa furono il diritto di esporre nell'atrio della casa le immagini degli antenati pervenuti alle cariche curuli, l'adozione di un cognome ereditario, e il riconoscimento, non diremo della capacità alle cariche curuli e ai sacerdozî, ma della legittimità dell'aspirarvi, in vista della carriera degli antenati. Il quale enunciato s'intenderà meglio quando si pensi che, nonostante la parità teoretica del diritto elettorale attivo e passivo di tutti i cittadini, la nobiltà repubblicana, come tutte le aristocrazie, cercò di rimanere quanto più possibile chiusa in sé stessa, e di escludere dalla direzione dello stato chi le fosse estraneo, più o meno osteggiando l'accettazione di nuovi elementi, ma una volta costretta ad accettarli, sospese l'opposizione, e ne trattò i discendenti alla pari.
Prevalse però sempre la tendenza esclusivista e si andò via via compiendo la trasformazione dell'aristocrazia in oligarchia. Delle 29 famiglie plebee che rivestirono il consolato tra il 340 e il 264 a. C., ben 24 raggiunsero la carica in quest'epoca per la prima volta, e invece i gentilizî nuovi che compaiono nei fasti consolari tra la prima e la seconda guerra punica sono appena undici; 16 quelli che vi appaiono tra il 200 e il 146, e di questi soltanto quattro sono di uomini esplicitamente detti nuovi. E mentre i ricambî nell'aristocrazia erano di tanto ostacolati, cresceva sempre più nel seno di essa la potenza di alcune famiglie e nelle mani di queste si andava concentrando ogni pubblico potere. Se nella prima delle epoche che abbiamo sopra definite vediamo 43 consolati in mano di sole 15 famiglie plebee, nei cento anni che precedettero il tribunato di Tiberio Gracco 159 posti consolari su 200 toccano a 26 casate nobili, patrizie o plebee, e tra questi 99 a 10 soltanto.
La degenerazione dell'aristocrazia in oligarchia fu una delle cause principali della caduta della repubblica e dell'avvento del principato. Con Augusto l'eleggibilità di tutti i cittadini venne soppressa e fu determinato giuridicamente il privilegio, che già effettivamente si era costituito, della nobiltà alle nomine magistraturali e al seggio in senato con esse congiunto, in quanto che fu stabilito in un milione di sesterzî il censo minimo per appartenere alla classe, che poteva aspirarvi, cioè all'ordine senatorio. Da esso sarebbero dovuti essere esclusi quei membri della nobiltà repubblicana, che non possedessero questo censo, ma le più scandalose, almeno, delle esclusioni furono evitate col soccorso dell'imperatore al censo di qualche pericolante. All'ordine senatorio nel periodo imperiale appartennero pertanto insieme con i senatori le loro consorti e i discendenti agnatizî sino al terzo grado, ma, indipendentemente dalla nascita, vi si poteva essere ammessi con due forme diverse: il conferimento imperiale del laticlavio, quando si trattava di giovani che avessero tutti i requisiti per entrare nella carriera senatoria e percorrerla dai primi gradini, e l'aggregazione (v. adlectio) a una delle categorie in cui erano distinti i senatori, quando si trattava di persone, cui per la loro età e la loro condizione non si potesse applicare l'altra forma.
L'ereditarietà dell'ordine era sempre rigorosamente subordinata al mantenimento del censo, che non era poi cosa facile, quando si pensi che i senatori non potevano né dedicarsi al commercio, né fare parte di società finanziarie. Vuoti quindi se ne facevano di continuo, ma erano suppliti a usura dalle nuove inclusioni, per le quali il governo incanalava nella carriera magistraturale, con fine ben calcolato, sempre nuove reclute, tratte dalle più importanti e cospicue famiglie dell'ordine equestre, di guisa che il privilegio giuridico delle antiche famiglie senatorie alle magistrature fu effettivamente sopraffatto dall'affluire delle nuove nomine, e la nobiltà repubblicana, col suo ius imaginum, si poté conservare sino alla dinastia Giulio-Claudia. In seguito le sue famiglie rapidamente si estinsero o andarono disperse, per cedere il posto alla nuova nobiltà imperiale, che rimase per molto tempo ancora distinta dall'altra classe dell'aristocrazia, costituita dall'ordine equestre; ma quell'acuto contrasto tra i due ordini, che aveva contraddistinto l'agonia della repubblica, si andò via via componendo, e il passaggio dall'ordine inferiore al superiore avvenne sempre più frequentemente.
Gli appartenenti all'ordine senatorio, anche se non senatori, ebbero diritto alle insegne e alla titolatura senatoria, facoltà d'intervenire alle sedute del senato ed esenzione dagli oneri municipali, ma dovettero sottostare ad alcune limitazioni del diritto di proprietà e di quello matrimoniale.
Da Costantino in poi l'ordine equestre scomparve, assorbito omiai quasi completamente da quello senatorio, e tra i clarissimi, che già dal sec. II era il titolo caratteristico di esso, sorsero due nuove categorie gerarchiche: gli spectabiles e gli inlustres, titoli riservati ai gradini superiori della carriera, non subordinati a censo, ma attribuiti alla funzione. Si riconquistava così uno dei caratteri dell'ordinamento nobiliare dell'epoca repubblicana: era chiuso per la nobiltà tutto un ciclo di sviluppo, e ne incominciava un altro, che si doveva poi arrestare per le invasioni barbariche.
Il disinteresse che le famiglie dell'ordo senatorius mostravano ormai per le cariche pubbliche produsse anche il distacco fra quel ceto e i funzionarî dello stato, i quali venivano scelti dall'imperatore secondo suoi criterî ed esigenze. Sotto Costantino, il quale riformò a fondo gli ordinamenti amministrativi, questa scelta, per i funzionarî più alti, è fatta di preferenza fra i comites, che godevano la particolare fiducia e intimità del sovrano e per questo avevano ottenuto tale titolo d'onore. Essi erano, da principio, quelli che accompagnavano e coadiuvavano i magistrati romani nelle provincie. Anche gl'imperatori li ebbero, in occasione di lontani viaggi e spedizioni guerresche: donde forse il carattere militare che assunse questa dignità. Con il rafforzarsi dell'autorità imperiale è naturale che il sovrano preferisse scegliersi i funzionari proprio fra queste persone anche in omaggio al principio che tutti gl'impiegati dello stato sono di nomina sovrana. La dignità e il titolo di comites, generalizzatisi nel basso impero, sono forse la prima dignità e titolo che appaiono nel periodo dei dominî barbarici. Al tempo della dominazione gotica i comites di molte città, come ad esempio di Siracusa e di Napoli, avevano certamente un posto eminente. Il primo esercitava ampia giurisdizione su tutta la Sicilia, con la qualifica di vir sublimis. Con i Bizantini, salirono in alto i comites rei militaris e i duces, destinati a reggere quelle provincie in cui lo stato di guerra consigliava di attribuire la massima autorità al comandante militare. In Italia dove l'impero bizantino dovette sostenere una lunga lotta coi Goti e poi con i Longobardi, furono posti duces a capo di quasi tutte le regioni, come l'Istria, il Veneto, la Pentapoli, Roma, Napoli, la Liguria, e più tardi Ferrara, Perugia e la Calabria. Essi sono spesso indicati anche con il solo titolo di patricius; titolo assai elevato e perciò attribuito ai più alti funzionarî dello stato, come i duchi, l'esarca, gli strateghi di Sicilia e di Longobardia. E poi in Italia, al primitivo senso di pura dignità il titolo di patricius aggiunse anche il concetto di un ufficio eminente, connesso con quello: per modo che, quando i papi concessero ai re franchi il titolo di patricius Romanorum, intesero conferire loro non solo una dignità, ma anche reali funzioni di protezione su Roma e la Chiesa.
Così, fra l'inizio dell'impero e la dominazione bizantina, si ebbero profonde trasformazioni della nobiltà romana. Scaduto il senato dall'altezza delle sue funzioni di assemblea generale dell'impero; non più osservata la regola che gli alti funzionarî si dovessero scegliere dall'ordine senatoriale, e generalizzato invece il principio della piena libertà di scelta del sovrano; cresciuta, sotto l'influenza delle turbolente condizioni dello stato, l'importanza degli ufficiali militari (comites rei militaris, duces); attribuito al titolo di patrizio un valore più alto, ma non in connessione con quello che aveva avuto in origine; la nobiltà romana, cioè quella che si onorava di appartenere all'ordo senatorius, si dissociò completamente dall'esercizio degli uffici. Il favore del sovrano seguitò tuttavia a manifestarsi con la distribuzione di uffici onorarî. E restarono così, quantunque diminuiti d'importanza, ma concessi a vita e poi a poco a poco divenuti ereditarî, gli antichi titoli delle magistrature civili: più elevato di tutti quello di consul. E pare che con l'andare del tempo, non soltanto si siano distribuiti titoli onorifici delle antiche magistrature, ma anche delle nuove e più elevate, cioè di quella di duca: ciò che serve a spiegare la frequenza di questo titolo a cominciare dal sec. VIII, specialmente nei documenti ravennati.
La nobiltà nel Medioevo e nell'età moderna. - La nobiltà medievale si riannoda per le sue origini a quella romana, con la sostituzione di elementi germanici ai romani nei paesi occupati dai Longobardi. Anche sotto questi, e poi sotto i Franchi, ogni dignità derivava dalle funzioni pubbliche e dalla partecipazione alla vita dello stato. Nel regime di accentramento che lo stato medievale aveva ereditato da Roma e che si mantenne fino ai tempi degli Ottoni, il primo posto era tenuto dai funzionari di corte (ministri aulici o palatini), costituenti, con altre persone di fiducia, il consiglio del re (consiliarii aulici). Alla loro testa, era, nei tempi franchi, il comes palatii (l'antico maiordomus, in germanico stolezais, rivestito di nome e di qualifica romana [inluster comes] e di funzioni direttive del governo sotto il controllo del re), e il camerarius (l'antico vestararius regis, in germanico duddus, detto anche thesaurarius, capo dell'amministrazione finanziaria centrale e del tesoro regio). Il primo era assistito dai iudices e dai notarii sacri palatii, da esso creati; il secondo aveva alle sue dipendenze, oltre ai funzionarî centrali, anche i gastaldi detti poi vicecomites, che nelle varie città del regno e relativo territorio amministravano il patrimonio regio e le riscossioni fatte nell'interesse della regia camera. L'Italia ebbe queste cariche di palazzo distinte da quelle dell'impero dopo la costituzione del regno italico nell'825.
Nel territorio del regno, dato il carattere prevalentemente militare dello stato, i posti più elevati fra i funzionarî sotto i Longobardi erano tenuti dai duchi, che riunivano il governo militare e civile di intere regioni; poi, sotto i Franchi, dai conti, con uguali funzioni, e dai conti di confine o di marca, cioè marchesi. Sotto di essi, i capitani; e sotto i capitani, gli arimanni cioè gli uomini liberi che dovevano prestare servizio militare col cavallo. Queste cariche, venivano distribuite, le più alte, direttamente dal sovrano ai suoi fedeli, stretti intorno a lui col vincolo speciale del giuramento, i quali molto spesso convivevano con lui e ne formavano il seguito, detti antrustiones sotto i Merovingi (da trustis, seguito), gasindî o fideles sotto i Longobardi, vassi o vassalli sotto i Franchi (dal celtico gwas, gwasavl, che originariamente significava "servo"); le altre cariche dai duchi e poi dai conti e dai marchesi, similmente fra i proprî fedeli, i quali alla loro volta assegnavano ai rispettivi fedeli altre cariche minori, per modo che tutte le cariche dello stato dalle più alte alle più basse emanavano o direttamente o indirettamente dalla persona del sovrano, che continuava a essere l'unica fonte di autorità. A tutti questi funzionarî si assegnavano terre, come corrispettivo del servizio. Le prime assegnazioni del genere rimontano ai Merovingi, ma ebbero più largo sviluppo sotto Carlo Martello, il quale, con le terre ricavate da larghe confische di patrimonî delle chiese, volle fornire ai suoi fedeli i mezzi sufficienti per il servizio a cavallo; dopo, le concessioni di terre, o benefici, a quelli che erano investiti di cariche pubbliche divennero cosa abituale e si accompagnarono col giuramento di fedeltà e di omaggio che l'investito (vassus, vassallus, valvassor e talora hom0, puer, famulus) prestava al suo signore, il quale lo prendeva sotto la sua protezione, che dicevasi commendatio in vassaticum.
Qualche volta si concessero ai vassalli del re, oppure a chiese e monasteri, le corti regie insieme con le loro pertinenze, e qualche volta i diritti spettanti alla camera regia su parti del territorio soggetto alla giurisdizione del conte. Così passarono nei concessionarî molti di quei diritti che esercitava il gastaldo in nome del sovrano: e ne venne il feudo, sempre più fiorente durante il sec. X. Al tempo degli Ottoni il vescovo fu solitamente investito dei poteri comitali; dove ciò non avvenne, come a Milano, ne esercitò egualmente le regalie come messo regio, pur rimanendo accanto a lui il conte col diritto alla riscossione del fodro e dell'arimannia e alla giurisdizione volontaria; nell'un caso e nell'altro passarono nelle mani del vescovo i poteri che il visconte esercitava sulla curtis regia della città, nelle varie corti regie e nel territorio della campagna, e il visconte divenne un vassallo del vescovo. Allora le grandi famiglie dalle quali erano usciti marchesi e conti con ampie giurisdizioni su grandi parti del territorio dello stato, ritennero le corti regie che a quelli erano state assegnate in vassallatico, continuando nell'ambito di quelle corti a esercitare quella parte dei diritti sovrani che erano stati di spettanza del gastaldo regio. Questa, p. es., è la natura e l'origine delle vaste e numerose zone giurisdizionali della grande famiglia Obertenga nelle sue varie diramazioni. Poi avvenne che i vescovi ai loro vassalli, che erano anche i dignitarî della loro corte, rivestiti delle più alte cariche militari e civili, e perciò i maggiori cittadini, cominciarono a distribuire i diritti vicecomitali in città e fuori, sia affidando loro uffici dapprima di pertinenza del visconte, sia investendoli di nuove curtes costituite a somiglianza di quelle regie, sia anche, e fu il caso più frequente, attribuendo loro il dominatus di una pieve. Sorsero così i domini plebis detti nel Milanese capitanei perché scelti forse tra quelli che comandavano a una parte dell'esercito comitale, o che erano ad essi equiparati. L'attribuzione di particelle dell'autorità sovrana, date certamente non honoris causa, ma in compenso di prestazioni reali, rimase da allora costante nelle famiglie che ne avevano beneficiato: quindi è che da allora per la prima volta la nobiltà, la quale a eccezione dell'antichissimo patriziato romano, era stata o realmente o in modo fittizio connessa con la carica, divenne un fatto e un'istituzione di carattere ereditario. Queste famiglie nelle quali era passata attraverso le concessioni vescovili tutta l'autorità dei gastaldi regi, insieme coi rispettivi vescovi, che hanno le regalie, e prima fra esse l'heribannum, assommano ormai quasi tutti i poteri dello stato; ond'è che esse, direttamente interessate al governo e alla difesa del territorio soggetto alla giurisdizione del vescovo, sono rappresentate durante il sec. XI nel suo consiglio, quel consiglio che è il primo nucleo dal quale si svilupperà nello stesso secolo il comune.
Il dominatus plebis, di cui godevano i capitanei, consisteva nell'esercitare, come gl'investiti di curtes, il dominatus loci nelle singole vicinie della pieve, che si risolveva nel diritto d'investire della carica qualunque ufficiale della vicinia, di avere una quota fissa nelle alienazioni dei viganali o terre comuni, di percepire una parte delle compositiones e dei banna comminati per le infrazioni alle convenentiae fra i vicini, si risolveva cioè in limitati poteri di sovranità, con esclusione del merum et mixtum imperium, che rimaneva ai vassalli diretti dell'imperatore. Il possesso di questi diritti, che prendevano il nome di honor et districtus, fu presto oggetto di vendite, di scambî e di transazioni: spesso i domini plebis investirono i loro rispettivi vassalli, detti valvassori, del dominatus di una o più vicinie, spesso anche vennero a patti con gli uomini liberi (arimanni) proprietarî di terreni delle vicinie e attribuirono ad essi i diritti di dominatus. Hanno così origine quei molteplici nobili diffusi per ogni terra dell'Italia settentrionale, indicati coi nomi di arimanni, curtisii, gentiles, valvassores, domini, ecc., i quali o discendono dal dominus del rispettivo luogo, o dai gruppi familiari che in uno stesso luogo esercitarono collettivamente il dominatus. La classe dei valvassori, rappresentata largamente anche in città da quelle famiglie che avevano ottenuto il dominatus loci da un capitaneus, cominciò, come è noto, ad agitarsi per ottenere anche per sé l'ereditarietà del feudo, ciò che ottenne con la famosa Constitutio de feudis dell'anno 1037, e per essere rappresentata nel consiglio del vescovo al pari dei capitanei, ciò che pure ottenne verso la metà del sec. XI.
Così tutta la nobiltà medievale ebbe il suo fondamento nell'esercizio di una parte più o meno grande dell'autorità sovrana nel territorio dello stato; dai grandi signori che ebbero il merum et mixtum imperium nei loro dominî, costituiti in altrettanti stati quasi indipendenti dall'imperatore o dal re, giù giù fino ai nobiles di un locus che riconoscevano i loro diritti o dal vescovo o da un dominus plebis, tutti erano signori che derivavano i loro rispettivi poteri o immediatamente o mediatamente dal sovrano. Sennonché il principio dell'ereditarietà fece sì che fossero considerati nobili non soltanto quelli che esercitavano effettivamente un diritto giurisdizionale, ma anche quelli che appartenevano a famiglie che l'avevano esercitato e poi alienato ad altre famiglie signorili o estinto per convenzioni con i rustici del luogo. In altre parole la nobiltà si distaccò dall'esercizio delle funzioni giurisdizionali e divenne una prerogativa agnatizia, divenne nobiltà di sangue, che conservò i titoli di marchio, di comes, di dominus anche dopo la cessazione delle rispettive funzioni.
I discendenti delle famiglie signorili in alcuni territorî delle campagne, se non intervennero altri fattori a modificare le condizioni esistenti, fruirono fino sulle soglie dell'età moderna di una situazione privilegiata, Non soltanto essi continuarono in molti luoghi a formare comunità (comunitates nobilium) distinte da quelle dei rustici dei rispettivi luoghi, ma, dove ciò per diverse circostanze non avvenne, mantennero spesso anche il diritto di essere sottoposti agli oneri cittadini anziché ai tributi imposti dal comune rurale, e di non essere soggetti, neppure nel caso di infeudazione del luogo, al nuovo signore, ma di rispondere nel civile e nel penale al magistrato della città, cioè al maggior magistrato. Nelle città invece e nei borghi anche i nobili maggiori si confusero presto coi cives, cioè con gli abitanti della città che avevano in città o fuori possessi allodiali senza giurisdizione, e che a cominciare dalla metà del sec. XI, ottennero l'equiparazione con i nobili, sia nel diritto di partecipare al governo cittadino, sia nella ripartizione degli oneri. Nelle campagne i nobili si distinguono dai rustici perché continuano a essere detti domini; nelle città e nei borghi invece, dopo la fusione dei cives e dei burgenses, non vi è più distinzione fra gli elementi di origine signorile e gli altri; nelle città gli uni e gli altri costituiscono la nobiltà cittadina, il cui fondamento è l'esercizio della giurisdizione sovrana passata attraverso il vescovo agli organi della città: nei borghi invece, per la mancanza di quella giurisdizione, si determina il fenomeno inverso, per cui i nobili si confondono presto con gli altri abitanti e talora perdono perfino il ricordo della loro origine.
A questa nobiltà feudale dei primi secoli, cioè dal sec. X al XIII, se ne sovrappose un'altra durante e dopo il periodo delle signorie. I principi, grandi vassalli dell'Impero, in virtù della loro qualità di vicarî imperiali, fino dal sec. XIV usarono costituire in feudo, come si diceva, nobile e gentile, alcune parti del territorio del loro stato, talora esigendo in compenso una somma che di solito si computava sul numero dei focolari esistenti nel territorio infeudato, talora mettendo all'asta e vendendo il feudo al migliore offerente. Il principe per altro riserbava per sé una certa parte di diritti sul territorio infeudato.
Questo sistema d'infeudare le terre dello stato a particolari, si diffuse talmente in tutte le parti d'Italia, ma specialmente nel Veneto, nella Lombardia, nel Piemonte e nel Napoletano, che la maggior parte dei comuni dipendeva da feudatarî; in Sardegna alla fine del sec. XVIII dipendevano dal principe solamente sette città e qualche villa. La successione nei feudi restò quasi dovunque regolata dalle disposizioni del diritto feudale che ammettevano a fruirne tutti i discendenti maschi legittimi e anche le femmine in difetto di maschi. In alcuni luoghi per altro, nell'Italia meridionale, per effetto della dominazione normanna, che introdusse il diritto franco, in Lombardia dai tempi della dominazione spagnola, fu limitata la successione ai maschi primogeniti. In caso di estinzione di linea, dove era stata introdotta la successione primogeniturale, succedevano nel feudo, nel Napoletano e in Sicilia, i discendenti dell'ultima femmina investita, e quando anche questi mancavano, potevano succedere nel Napoletano i collaterali fino al quarto grado, purché discendenti dal primo investito (successione napoletana), mentre in Sicilia potevano succedere solo il fratello del defunto e i figli di lui fino al trinipote, cioè sino al sesto grado, esclusa la successione retrograda (successione siciliana). Invece in Lombardia, le femmine non potevano trasmettere il feudo, il quale, dopo l'estinzione della linea primogenita, passava di diritto al primogenito della linea più vicina, discendente dal primo investito.
I possessori di feudi avevano di diritto nell'Italia settentrionale il titolo di dominus (ital. signore), e se la proprietà di un feudo era comune a parecchi individui dello stesso casato, il titolo di condominus. Nell'Italia meridionale invece prevale il titolo di barone. Però questi titoli vennero a poco a poco sostituiti da altri maggiori. Nell'Italia settentrionale si diffuse il sistema di elevare i feudi, anche di piccole terre, a contee e a marchesati e quindi di concedere agl'investiti i corrispondenti titoli di conti e di marchesi. L'uso, a cominciare dal sec. XIV, era talmente generale che, alle volte, i discendenti di antiche famiglie marchionali e comitali che possedevano da antico tempo in feudo un determinato luogo, furono ritenuti marchesi e conti di quel luogo, come avvenne, ad es., dei marchesi Cavalcabò che discendevano dagli Obertenghi marchesi d'Italia ed erano signori di Viadana e furono creduti erroneamente marchesi di Viadana, per modo che perduto nel 1415 il feudo, occupato da Gian Francesco Gonzaga, non furono più ritenuti e chiamati marchesi. Nell'Italia meridionale si fece anche di più, perché si annetterono spesso ai feudi i massimi titoli nobiliari di duca e di principe.
Accanto alla nobiltà feudale vecchia e nuova, che doveva la sua condizione all'esercizio remoto o attuale di diritti signorili, fiorì sino dal sec. XIV una nobiltà puramente onorifica concessa dai sovrani a persone che ne erano prive, e che avevano reso speciali servizî o ricoprivano certe cariche. Pare che l'uso di simili concessioni sia stato introdotto da Filippo l'Ardito di Francia nel 1271, ma si hanno esempî fino dai tempi di Federico II. Ne fecero larga distribuzione sia l'imperatore sia il pontefice e poi anche i re indipendenti e i principi soggetti all'impero, i conti palatini, la repubblica di Venezia e perfino le città minori. Queste concessioni erano in principio molto malviste dalla nobiltà feudale, come risulta dalla glossa del diritto feudale sassone nella quale si legge che se il re concede per favore la nobiltà a un rustico fa cosa contro giustizia.
I titoli concessi in tal guisa dall'imperatore, cioè i titoli del Sacro Romano Impero, furono molto diffusi in Germania, ma furono frequenti anche in Italia, poiché i sudditi degli stati vassalli dell'impero erano sudditi anche dell'imperatore. Essi andavano da quello di nobile a quello di principe; a volte se ne concedeva più d'uno in uno stesso diploma, e a volte andavano uniti così pro forma a predicati di piccole borgate di territorî ereditarî della casa d'Asburgo. Avevano la trasmissibilità per maschi e femmine, ma non si trasmettevano ai discendenti delle femmine. In Germania, tutta questa nuova nobiltà senza feudo costituì la nobiltà bassa, guardata con disprezzo dalle classi più cospicue della nobiltà antica o alta, alla quqle appartenevano le famiglie soggette immediatamente all'imperatore, aventi signoria territoriale con seggio e voto nella dieta. Prevalse poi nel sec. XVII e nel seguente l'uso di fare concessioni di simili titoli non feudali anche a sudditi non proprî, come ad es., fecero largamente i duchi di Parma e Piacenza a sudditi dello stato di Milano e della repubblica di Venezia. Questa per altro sottopose alla sua approvazione l'uso dei titoli concessi da un sovrano straniero ai proprî sudditi, mentre le costituzioni dello stato di Milano, fatta eccezione per i titoli del Sacro Romano Impero, stabilivano che i titoli concessi da un principe straniero foasero trasmissibili solo per maschi primogeniti e che il concessionario dovesse acquistare un feudo dallo stato.
Non si ricollegano con la nobiltà feudale neppure in modo fittizio, come quella testé considerata che deriva da concessioni sovrane di titoli feudali senza feudi, le varie nobiltà cittadine. Tuttavia anch'esse hanno la loro origine dall'esercizio di diritti sovrani. C'è chi opina che queste abbiano il loro fondamento negli uffici della curia municipale romana, e che i nobili delle città siano i continuatori degli antichi curiali. Ma anche se i curiali si possono considerare nobili per l'ufficio, essi non hanno nulla di comune con i nobili della città. Si è già accennato al fatto che i diritti del vicecomes o gastaldo regio nella città e nel contado passarono al vescovo, il quale, come conte o come messo regio, deteneva anche le regalie. Dal vescovo i poteri passarono prima alle classi feudali della città e poi anche alla classe dei semplici cittadini non investiti di alcun feudo, ma possessori di beni allodiali, aventi casa in città e tenuti come i feudatarî al servizio delle armi. Così rispetto al governo della città e del suo territorio anche i semplici cittadini, essendo compartecipi del potere giurisdizionale esercitato dalla città, furono considerati alla stessa stregua dei nobili, con i quali avevano in comune la misura dei tributi. Pertanto erano tenuti e considerati essi pure nobili, tanto che negli statuti del sec. XIII sono usate indifferentemente le parole nobiles e cives, oppure la frase nobiles vel cives. Tutti i cittadini, feudatari o meno, costituivano la classe nobiliare della città. Il potere giurisdizionale dei cittadini si esercitò mediante i consigli e i consoli che per un certo tempo ne furono i rappresentanti. I consigli erano dapprima formati da un gran numero di membri che in alcuni casi si aggiravano intorno al migliaio, dopo a mano a mano il numero dei consiglieri diminuì fino a poche diecine scelti da un numero limitato di famiglie.
Le disposizioni che regolarono fino alla rivoluzione francese l'ammissione ai consigli nobili rimontano solitamente alla prima metà del secolo XVII. In alcune città, per entrare nel novero degli eleggibili a consiglieri, bastava provare di appartenere a famiglia antica e originaria della città, e di possedervi un immobile; in altri luoghi si richiedeva la prova di una nobiltà, come si diceva positiva, cioè l'appartenenza a una famiglia qualificata per nobile negli atti pubblici e vissuta per un lungo periodo di tempo more nobilium; la quale avesse avuto per lo stesso tempo stabile abitazione nella città. Più spesso però si formarono prima e poi elenchi chiusi di famiglie dalle quali soltanto si potevano scegliere i consiglieri. Queste famiglie erano dette solitamente patrizie, con un nome antico che anche nelle località della campagna dal sec. XV in poi si usò per indicare le famiglie oriunde del luogo; esse costituivano il patriziato cittadino; i consiglieri erano detti talora decurioni. Fra i patriziati più illustri è quello di Venezia, il cui Libro d'oro fu chiuso definitivamente sotto il doge Soranzo nel 1319, e non fu riaperto che assai raramente anche ai non nobili per meriti verso la patria, come nella guerra di Crimea e di Candia e negli ultimi tempi anche alla nobiltà di Terraferma. A Napoli i nobili che avevano il governo della città formavano delle consorterie che prendevano nome di seggi o sedili, dal luogo di comune convegno: erano 29, che a poco a poco per l'estinzione delle famiglie si ridussero solo a 5, pur rimanendo rappresentanti del numero primitivo di seggi: furono aboliti nel 1800.
Se la nobiltà cittadina, per le sue origini, ha solo un punto indiretto di contatto con quella feudale, come quella che esercitava le regalie e i diritti signorili sul territorio soggetto alla città, la nobiltà dei collegi dei giudici, dei fisici e dei notai, che s'incontra in molte città dell'Italia settentrionale deriva invece dalla nobiltà degli uffici del palazzo regio, in quanto il coprire quelle cariche alla corte del re era ritenuto ufficio nobile. Quando nel sec. XIII si formarono le corporazioni delle arti, anche i giudici, i fisici e i notai si riunirono in proprie corporazioni dette collegi e in omaggio alle tradizioni, che volevano quegli uffici affidati generalmente a nobili, si mise come condizione per essere ammesso ai varî collegi che il candidato dovesse essere di famiglia nobile: bastava dapprima l'appartenenza a una famiglia notoriamente e genericamente nobile, ma poi si volle la prova della nobiltà specifica della linea del candidato con la dimostraziong nei tempi più recenti che gli ascendenti di lui per uno spazio variabile da 120 a 200 anni erano vissuti nobilmente.
Anche per i notai, per i quali non si richiesero vere e proprie prove di nobiltà, occorreva però dimostrare che il padre e l'avo non avevano esercitato arte vile. Chi non era di collegio non poteva dapprima esercitare, né essere chiamato a coprire posti elevati nell'amministrazione della città; ma ben presto per la necessità di provvedere a tutti i bisogni, si ammisero all'esercizio delle professioni nobili anche persone provviste bensì degli studî e dei titoli necessarî, ma di origine tutt'altro che nobile, o almeno di non provata nobiltà. Così per esempio, accanto ai giudici di collegio, per i quali si chiedevano le prove di nobiltà, c'erano molti altri giudici che esercitavano le loro mansioni all'infuori del collegio, e altrettanto si può dire per i fisici. Le famiglie vecchie sparivano e non erano forse rappresentate sempre dai migliori elementi, e allora era necessario provvedere all'infuori dei collegi nobili, pure lasciando a essi le prerogative e i privilegi proprî di ciascuno che ne limitavano l'ammissione tra i nobili. Naturalmente la nobiltà richiesta, non era né feudale, né civica, ma genericamente nobiltà, anche perché quella che derivava il suo titolo dal dominatus dell'epoca feudale si era confusa con quella che nell'epoca signorile aveva ottenuto i feudi di nuova creazione e con la nobiltà civica, né era possibile ormai fare distinzioni, senza dire che, perduta in molti casi la notizia delle origini, si erano mescolate con le nobili ed erano generalmente stimate e trattate per nobili molte famiglie che per le ricchezze e per il fasto vivevano alla maniera di quelle nobili. Doveva tuttavia essere una nobiltà antica, con esclusione quindi di tutti i nobili e titolati creati dal principe in epoca recente.
Anche la nobiltà che si richiedeva per l'ammissione a certi ordini equestri come il sovrano Militare Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme detto di Malta e l'Ordine di S. Stefano di Pisa non era se non nobiltà genericamente intesa, ma antica. Il primo dei detti ordini richiede anche oggi la prova della nobiltà bicentenaria dei quattro ordini, cioè delle famiglie dell'avo paterno, dell'ava paterna, dell'avo materno e dell'ava materna; quello di S. Stefano richiedeva la prova della nobiltà dei 32 quarti. Il nome stesso di ordine equestre, che è quanto dire associazione di cavalieri, cioè di persone tenute a servire il proprio principe nella milizia equestre, sta a indicare che esso non poteva essere costituito che da nobili, poiché solamente i nobili si onoravano di poter rendere quel servizio, e solamente essi presero parte alle crociate in Terrasanta, donde quelle associazioni traggono la loro origine. Ma poi, moltiplicatisi gli ordini equestri e divenuti nulla più che una distinzione onorifica, non si richiese più per la cooptazione dei membri la nobiltà del sangue, e nella maggior parte dei casi bastò appartenere a famiglia distinta. E neppure fu richiesta la nobiltà per gli ordini equestri istituiti od opportunamente adattati dai principi di tutti i paesi per favorire persone loro grate, o che si erano rese benemerite per servizî. L'appartenenza a tali ordini equestri conferiva all'insignito tutt'al più la nobiltà personale.
Ma intanto il concetto romano che la nobiltà fosse radicata nell'elevatezza degli uffici coperti, non era mai caduto. E perciò l'avere coperto uffici eminenti fu sempre considerato come un indizio e una prova di nobiltà, sia perché solitamente venivano chiamati ad essi solo i nobili, sia anche perché l'averli coperti poteva generare di per sé la condizione nobile delle famiglie.
Un riflesso di ciò si ha nelle qualifiche d'onore con cui vengono distinte le persone di famiglia nobile. Quelle che ricoprono cariche, oppure che discendono da individui che ne ricoprirono, sono indicate secondo i tempi con le più ampollose qualifiche, le altre continuano a denominarsi, specie nelle campagne, dove più difficilmente si poteva essere prescelti ad alti uffici, con la semplice qualifica di dominus (ital.: sere [da senior], messere). In Toscana, dove al governo dei nobili era stato sostituito sino dalla fine del sec. XII quello del popolo e dove anche dopo il tardivo insediamento della signoria si rimase ligi a molte forme del governo popolare, il coprire le prime cariche cittadine era considerato agli effetti del riconoscimento della nobiltà, nella legge emanata da Francesco I il 31 luglio 1750, sul regolamento della nobiltà e cittadinanza, alla pari del possesso di feudi nobili, dell'ammissione agli ordini nobili e delle concessioni di nobiltà fatte dal principe. In Piemonte chi nasceva da padre e avo senatori, non doveva dare altra prova della sua nobiltà, l'essere senatore di Savoia radicava nobiltà; possedere il titolo di senatore importava nobiltà personale. A Milano la carica di senatore dava origine alla nobiltà ereditaria e, giusta la legislazione nobiliare dell'imperatrice Maria Teresa del 1769, le cariche di regio ministro presso gli uffici del senato, del Consiglio d'economia pubblica e del magistrato camerale radicavano la nobiltà della famiglia, qualora un figlio o un nipote del primo rivestito di tale carica ne fosse pure stato rivestito; per altre cariche di grado inferiore, come quelle degli avvocati o sindaci fiscali, dei regi capitani di giustizia, dei segretarî del governo e dei tribunali supremi, la nobiltà personale di cui godevano quelli che ne erano rivestiti si poteva trasformare in ereditaria se l'ufficio fosse continuato nella stessa famiglia per tre generazioni.
Ma in alcuni luoghi si poteva conseguire la nobiltà anche senza coprire alcun ufficio, come ad es. in Piemonte, dove, sotto Carlo Emanuele III, bastavano a tale scopo tre generazioni vissute nobilmente. Ciò che trova rispondenza nel diritto anglosassone, secondo il quale l'ignobile che avesse posseduto in proprio cinque mansi e avesse servito nella regia comitiva per tre generazioni acquistava la nobiltà.
A tutte queste svariatissime specie di nobiltà, in cui forse la minima parte derivava dal tronco genuino della feudalità dei secoli X e XI, e la restante doveva la sua aggregazione nel ceto nobile al favore del principe o ad altre circostanze, si aggiunse al principio del sec. XIX per volere di Napoleone una nobiltà nuova, dopo che la rivoluzione francese aveva abolito tutta la nobiltà e i suoi privilegi.
Questa nobiltà nuova napoleonica, istituita col VII statuto costituzionale sopra i titoli di nobiltà e dei maggioraschi del 21 settembre 1808, era strettamente connessa con le alte cariche dello stato: gli elettori che tre volte fossero stati presidenti dei collegi elettorali avevano diritto al titolo di duca; i grandi ufficiali della corona e del regno, i ministri, i senatori, i consiglieri di stato e gli arcivescovi avevano diritto al titolo di conte; i presidenti dei collegi elettorali del dipartimento, il primo presidente, procuratore generale della Corte di cassazione, i primi presidenti e procuratori generali delle Corti d'appello, i vescovi e i podestà delle città del regno avevano diritto al titolo di barone. La trasmissibilità dei titoli ai discendenti primogeniti e nel caso degli arcivescovi e vescovi al loro nipote primogenito o preferito, era subordinata all'istituzione di un maggiorasco di una rendita annua proporzionale al titolo. Simili titoli venivano poi concessi dall'imperatore, secondo che egli giudicava opportuno, ai generali, prefetti, ufficiali civili e militari e ad altri sudditi che si fossero distinti per servigi resi allo stato. I nobili napoleonici erano tenuti a non usare altri stemmi e a non avere altre livree se non quelli che erano enunciati nelle lettere patenti d'istituzione.
I nobili godevano di solito di una condizione privilegiata. Si è già accennato che i nobili della campagna, discendenti dagli antichi domini loci, qualora non fossero intervenute cause perturbatrici della loro condizione, pagavano i tributi insieme coi cittadini o nella stessa misura di questi e non con le comunità rurali. Col procedere del tempo, specie dal secolo XVI, i nobili della campagna perdono quasi dovunque per varie ragioni questa posizione privilegiata. Ma viceversa i nuovi feudatarî creati dai principi godono, insieme con gli ecclesiastici, le più larghe esenzioni dalle imposte, perché erano obbligati solo alle contribuzioni proprie dei feudi; talora le esenzioni si estendevano anche ai beni allodiali dei feudatarî. Anche nei riguardi della giustizia i nobili erano in una posizione di privilegio. Il guidrigildo dei nobili nei tempi più antichi era maggiore parecchie volte di quello dei liberi. Dal principio della parità dei natali fra giudici e giudicato ebbero origine in qualche parte d'Italia i tribunali speciali per i nobili: e infatti negli accordi conclusi nel 1243 tra Innocenzo IV e Federico II fu espressamente stabilito che i nobili fossero giudicati dai loro pari, ciò che lo stesso Federico II riconobbe come un diritto dei nobili dei regni di Napoli e di Sicilia, e che i re Aragonesi riconobbero ai nobili della Sardegna. Nell'impero il tribunale speciale per i principi e per i grandi dignitarî funzionava alla presenza dell'imperatore, costume che fu imitato in quei paesi retti a monarchia, dove la nobiltà ebbe maggiore importanza. A Napoli, dove i nobili avevano anche la pretesa di tener coperto il capo alla presenza del re, la magna curia giudicava delle cause civili e penali dei conti, baroni e altri feudatarî regi, invece una speciale commissione composta di cinque o sei cavalieri del sedile giudicava, per privilegio concesso dal re Roberto d'Angiò alla nobiltà cittadina dei sedili, delle questioni e delle risse senza sangue che fossero insorte fra gli ascritti ai sedili. In Sicilia c'era un foro criminale costituito da dodici nobili, i quali si dovevano deputare ogni anno dal parlamento per sentenziare nei processi contro i possessori di feudi rei di delitti portanti pene corporali. Dai tempi di Carlo V le funzioni del detto foro passarono alla magna curia. In Sardegna, non solo i nobili, ma anche le loro famiglie e i loro servi, tutte le volte che i delitti comportassero pene capitali o mutilazioni, dovevano essere giudicati dai loro pari, cioè dai membri dello stamento militare. In Savoia e in Piemonte le liti dei baroni e dei banderesi erano giudicate dal consiglio residente col principe. Finalmente anche in Venezia la nobiltà godeva di una condizione di favore: i patrizî di quella città nelle materie civili in Venezia riconoscevano i tribunali comuni, ma fuori di Venezia erano soggetti soltanta ai rappresentanti del governo; nelle materie penali non potevano essere giudicati che dai tribunali di Venezia, dove varie leggi dei secoli XVI e XVII li sottoponevano, sia come imputati sia come parte lesa, al Consiglio dei dieci, il quale nei casi meno gravi poteva delegare il Magistrata della bestemmia. Durante il processo i nobili, in alcuni stati come in Spagna, ma non in Francia e in Italia, almeno nel Milanese e nella Stato Pontificio, erano esenti dalla tortura. Si domandarono per essi perfino carceri apposite, che non pare siano state mai accordate; certamente però le pene che s'infliggevano ai nobili erano di solito mena gravi di quelle inflitte ai plebei: a questi era data la galera per quei medesimi delitti per i quali i nobili venivano condannati alla relegazione o alla deportazione e alla privazione degli uffici; spesso poi i nobili potevano scontare il loro delitto col denaro, come stabilivano i capitoli di Carlo d'Angiò, le leggi venete e gli statuti di Amedeo VIII di Savoia. Che se avveniva qualche volta che anche i nobili dovessero pagare il fio dei delitti con la vita, avevano anche diritto a certi riguardi: fatta eccezione per i delitti infamanti, i nobili non venivano impiccati, ma invece decapitati e avvenne che per qualche nobile si ornasse il patibolo in modo speciale.
Contrasta con la condizione privilegiata di cui godevano generalmente i nobili, il trattamento che venne fatto a loro a Firenze durante il secolo XIII e XIV per effetto dei moti che avevano portato al potere le classi popolari. Specialmente duri contro i nobili furono gli ordinamenti di Giano della Bella del 1293: tutti i nobili dai 15 ai 70 anni furono obbligati a dare sicurtà con 2000 fiorini di vivere secondo le leggi; il podestà che non avesse punito entro cinque od otto giorni il nobile che aveva offeso un popolano perdeva l'ufficio; i nobili non potevano coprire gli uffici di podestà o di capitano fuori di Firenze: in città non dovevano avere casa o torre vicino a un ponte; non potevano accusare i popolani se non dei delitti commessi contro loro medesimi, né fare testimonianza contro quelli; infine sopportavano imposte diverse e maggiori di quelle dei popolani. Le leggi fiorentine contro i nobili furono a poco a poco adottate da quasi tutte le città della Toscana e non di rado inasprite.
Si perdeva solitamente la condizione nobile per l'esercizio di arti vili o meccaniche, per il commercio al minuto e al taglio; in alcuni luoghi anche le professioni di notaio, procuratore, speziale, chirurgo, attuario e cancelliere erano di pregiudizio alla nobiltà. Non era tuttavia proibito ai nobili l'esercizio dell'arte serica, della lana e dei panni, a patto che non vi prestassero il concorso della loro opera manuale e che non stessero in bottega. Nel resto dell'Europa era quasi dovunque stimata indegna dei nobili qualsiasi professione, eccettuata quella delle armi. Si perdeva poi dovunque la nobiltà per delitti infamanti e specialmente per tradimento contro la patria.
La nobiltà nel tempo più antico non passava ai figli nati fuori del matrimonio, neppure se legittimati per subsequens matrimonium. Specialmente rigorose a tale proposito erano le disposizioni della repubblica veneta, le quali non si accontentarono di togliere nel 1376 il diritto di appartenere al Maggior Consiglio a chi fosse nato da genitori nobili prima del matrimonio, ma negarono quel diritto nel 1422 anche ai figli legittimi se la madre era di vile condizione. Anche la successione nei feudi era solitamente preclusa ai figli legittimati. Ma in seguito, dopo l'applicazione delle norme del diritto romano, si fecero dipendere gli effetti della legittimazione dalle parole del rescritto che la concedeva, distinguendosi la legitimatio plena da quella minus plena. In molti stati vassalli dell'impero la facoltà di legittimare i bastardi nelle forme più ampie era demandata ai conti palatini.
La condizione privilegiata dei nobili, e se non altro la distinzione e il rispetto di cui essi godevano, contribuì a conservare alla nobiltà il carattere di un ceto nettamente distinto da quello del popolo. Questa divisione si rispecchiava negli statuti, come ad esempio in quello del comune di Pisa del 1286, nel quale non si ammettevano i popolani a fideiussori dei nobili e i nobili dei popolani; ma era anche fortemente sentita, cosicché raramente avveniva che un nobile sposasse una popolana o viceversa. A rafforzare questi sentimenti contribuì non poco anche la cavalleria, non solamente perché molti ordini equestri richiedevano la nobiltà delle famiglie da cui discendevano i cavalieri, ma anche perché i cavalieri per essere ammessi ai tornei dovevano dare prova della purezza del loro sangue e presentare al re d'armi, per l'opportuna verifica, lo stemma di famiglia. Da quest'ultima circostanza trae origine il fatto che tutte le famiglie nobili, a cominciare dal sec. XIII, fecero uso di un proprio stemma, cioè di un simbolo e di un'ornamentazione esteriore, che servì maggiormente, almeno durante il Medioevo, a distinguere le famiglie nobili dalle altre.
Ma la condizione privilegiata dei nobili fu anche in ogni tempo un incentivo per una celta classe di persone che non potevano vantare una origine nobile, ma che erano ricche e vivevano alla maniera dei nobili, oppure erano chiamate a uffici elevati, a farsi passare per nobili. D'altra parte, lontana ormai nei secoli l'epoca feudale, dalla quale traeva il suo fondamento la nobiltà del sangue, moltiplicatisi i modi di acquisto di nobiltà e di titoli nobiliari, diversa nei varî stati la valutazione della condizione nobile, che variava anche a seconda degli usi e degli ordinamenti locali, non era facile verso il sec. XVI distinguere quelli che avevano realmente diritto a essere considerati nobili e a portare un titolo nobiliare, dagli altri che si trattavano da nobili e da titolati abusivamente. Sorse pertanto la necessità di disciplinare le prove per il riconoscimento della nobiltà e dei titoli spettanti alle famiglie, e di formare elenchi ufficiali delle famiglie nobili.
In Piemonte, dove fino dai tempi di Amedeo VIII si era provveduto negli statuti a distinguere la nobiltà nei tre gradi di baroni, di banderesi e di vassalli e dove nel 1687 si era ordinata la generale consegna e registrazione delle armi gentilizie, poiché i feudi di giurisdizione non si potevano concedere che a persone nobili, si pensò nel 1738 all'opportunità di stabilire delle norme per accertare la condizione nobile. A Milano, simili norme erano state fissate già nel 1586 per l'ammissione al Collegio dei giureconsulti e nel 1652 per l'ammissione al patriziato, e sulla scorta di quelle norme si ordinò con l'editto dell'imperatrice Maria Teresa, del 20 novembre 1769, che nessuno potesse fare uso di titoli, di qualifiche nobiliari e di stemmi gentilizî, se non ne avesse ottenuto il riconoscimento da parte del Tribunale araldico espressamente istituito a questo scopo. In Toscana una legge di Francesco II del 31 luglio 1750 precisava quali famiglie nelle varie città del granducato avessero diritto ai titoli di nobili patrizî e di nobili e quali altre al titolo di cittadini, istituendo per le prime appositi registri, in cui, insieme con la genealogia, figurasse lo stemma gentilizio. A Roma una costituzione pontificia del 4 gennaio 1746 stabiliva nuove regole sopra la nobiltà e cittadinanza romana ordinando la formazione di un elenco delle famiglie in cui si fossero avuti conservatori della Camera capitolina o persone che avessero coperto l'ufficio di priore nelle capitali delle regioni dello stato, e ordinando pure che dal detto elenco si designassero i nomi di 60 famiglie nobili romane col titolo di coscritti. Anche nei minori stati si volle regolare la materia nobiliare, come in quello di Modena, dove un chirografo sovrano del 22 marzo 1788 imponeva alle famiglie nobili stabilite permanentemente nella città di farsi iscrivere nel Libro d'oro. Gli elenchi nobiliari più antichi però sono quelli dove si registravano i membri delle famiglie patrizie dalle quali si dovevano scegliere i membri del consiglio delle città. Simili elenchi di famiglie appartenenti al patriziato cittadino, quando scoppiò la rivoluzione francese, si avevano in quasi tutte le città italiane e spesso furono distrutti sulle pubbliche piazze da popolani fanatici. Essi sono generalmente molto antichi. La serrata del Maggior Consiglio di Venezia, deliberata il 28 febbraio 1297, presupponeva la formazione di un libro delle famiglie patrizie, che però fu istituito solo nel 1506 (v. libro d'oro). Un elenco più antico è quello voluto dall'arcivescovo di Milano Ottone Visconti nel 1277 per la designazione delle famiglie nobili da cui si potevano scegliere gli ordinarî del duomo. A Genova il liber nobilitatis, volgarmente detto Libro d'oro, quello che il 14 giugno 1797 fu bruciato sulla pubblica piazza, risaliva al 1528 e conteneva i nomi dei nobili e veniva via via aggiornato con l'aggiunta dei discendenti e successori dei nobili stessi. Altri elenchi speciali si fecero poi con l'intento di reprimere l'abuso di titoli nobiliari: così il senato veneto il 4 febbraio 1662 approvava la proposta dei provveditori sopra feudi relativa all'istituzione di un libro dei veri titolati e invitava a mezzo dei rettori di Terraferma tutte quelle famiglie che facevano uso dei titoli di conti, marchesi, ecc., a produrre documenti per provare i titoli stessi; il libro d'oro dei titolati così formato fu poi aperto a successive iscrizioni e aggiornamenti negli anni 1674 e 1729; nel 1760 poi il Consiglio dei dieci decretò che i titoli da chiunque concessi non avessero valore se non fossero riconosciuti e registrati dai provveditori sopra feudi. Analogamente a Milano nel 1718 un editto governativo obbligava i titolati a presentare i loro privilegi e documenti per la formazione di un catalogo dei titolati, che si formò nel 1720. Al tempo della restaurazione austriaca nella Lombardia e nel Veneto si ordinò una nuova revisione dei titoli nobiliari che ebbe luogo tra il 1815 e il 1828 e fu alfidata alle II. RR. Commissioni araldiche di Milano e di Venezia; a seguito di questa revisione furono formati nuovi elenchi nobiliari, che per la prima volta vennero dati alle stampe. I due elenchi ufficiali delle famiglie lombarde e venete videro la luce nel 1828 e quello delle famiglie lombarde fu poi ristampato nel 1840.
La nobiltà nel diritto pubblico odierno. - Oggi la nobiltà non è più che un ricordo storico e, salvo poche eccezioni, sussiste solo come una distinzione ereditaria in quegli stati che si reggono a monarchia. Giova però ricordare che tuttora nell'ordinamento costituzionale inglese la classe nobiliare rappresenta una frazione del potere legislativo, giacché i primogeniti delle famiglie decorate di titoli di nobiltà, costituenti la paria, sono chiamati a sedere per diritto ereditario nella Camera alta. Con i nuovi ordinamenti costituzionali, nella generalità degli stati monarchici furono mantenuti in vigore i titoli di nobiltà e fu espressamente riconosciuta al sovrano la facoltà di concederne dei nuovi. Era però evidente che tali concessioni - e l'art. 71 della carta francese del 1814 lo dichiarava espressamente - non costituivano che semplici gradi e onori, senza alcuna esenzione dai carichi e dai doveri della società.
Ordinamento attuale in Italia. - Lo statuto di Carlo Alberto, divenuto legge fondamentale del regno d'Italia, ha pure esplicitamente negli art. 79 e 80 riaffermata la facoltà nel re di continuare a concedere nuovi titoli di nobiltà e ad autorizzare i cittadini a riceverli da potenza estera, mentre dichiarava mantenuti in vigore quelli precedentemente concessi. Sostanzialmente il contenuto delle disposizioni dei citati art. 79 e 80 dello statuto, integrate dalle numerose norme legislative riflettenti la materia, successivamente emanate, si possono riassumere nei seguenti punti principali:
1. sono mantenuti e riconosciuti i diritti di nobiltà preesistenti, ma il mantenimento delle distinzioni nobiliari non può implicare il concetto che la nobiltà si possa considerare ancora come un ordine o una classe sociale distinta dalle altre, o che, comunque conservi il godimento di privilegi o d'immunità, che nei secoli passati costituivano il suo retaggio. Su questo punto lo statuto italiano non ritenne necessario ripetere la dichiarazione già riferita, inserita nell'art. 71 della carta francese del 1814, e poi riprodotta anche nell'art. 62 della carta del 1830, per chiarire che la nobiltà si risolve in una semplice attribuzione di onori, senza alcuna esenzione dai doveri sociali. Tale dichiarazione fu giudicata superflua, sia perché l'abolizione del regime feudale, già da molti anni attuata nel regno di Sardegna, come in ciascuno degli stati preesistenti che concorsero poi a formare il regno d'Italia, aveva operato di pieno diritto la soppressione di ogni effettiva separazione di classe e annullato tutti i privilegi della classe nobiliare, sia perché l'art. 24 del medesimo statuto proclamava, senza possibilità di equivoci o d'interpretazioni restrittive, il principio della perfetta uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge, qualunque fosse il loro titolo e grado;
2. il re è riconosciuto come unica fonte degli onori, conservando all'uopo l'esercizio esclusivo di una prerogativa sovrana, intendendosi che in tale prerogativa si debba ravvisare l'esercizio di una speciale attribuzione della corona, quale supremo organo dello stato costituzionale. Si aggiunga che l'esercizio di tale prerogativa non si limita alle funzioni di natura meramente esecutiva, quali la concessione di nuovi titoli, la rinnovazione di quelli estinti, l'autorizzazione a riceverli da una potenza estera, ovvero a far uso di quelli concessi dalla Santa Sede dopo il 1870, ma si estende altresì all'esercizio di una vera e propria potestà legislativa. Tale competenza fu riaffermata in modo definitivo dall'art. 1 lett. a dell'ordinamento dello stato nobiliare italiano approvato con r. decr. 21 gennaio 1929, n. 61.
Circa il fondamento della suddetta competenza legislativa, è controverso se essa derivi da un potere di speciale autarchia, di cui il sovrano sarebbe il soggetto in tale materia, o da un residuo dell'antico potere assoluto del re, che la costituzione avrebbe inteso in questo campo lasciargli integro, ovvero tale facoltà debba rientrare nell ordinario potere di emanazione dei regolamenti indipendenti di cui all'art.1, n. 2, della legge 31 gennaio 1920, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo per emanare norme giuridiche;
3. indipendentemente dalla prerogativa reale, sanzionata negli art. 79 e 80 dello statuto relativi al conferimento di nuovi titoli di nobiltà, rinnovazione o autorizzazione, si deve riconoscere una sfera indipendente e autonoma di diritti sia a favore di coloro che già si trovano nel legittimo possesso di distinzioni nobiliari, sia per quanto riguarda ulteriore devoluzione delle medesime secondo le norme della successione nobiliare, salvo l'adempimento di determinate formalità amministrative, prescritte per la legittimità dell'uso, e consistenti principalmente nell'obbligatorietà dell'inscrizione individuale nell'elenco ufficiale della nobiltà italiana. A garantire il pieno godimento di tali diritti è accordata ai titolari di essi ampia protezione giuridica da sperimentarsi anche verso gli organi dello stato medesimo, mediante l'azione giudiziaria; ma ciò solo in caso di denegato riconoscimento, qualora si tratti di diritti già perfetti che non abbisognano di sanatorie, le quali si possono invocare solo dalla prerogativa reale.
Per la cognizione di tutta la materia nobiliare funziona la Consulta araldica istituita presso il Ministero dell'interno con r. decr. 10 ottobre 1869, n. 5318, deferita alla presidenza del Consiglio dei ministri con r. decr. 7 gennaio 1888, n. 6093, restituita alle dipendenze del Ministero dell'interno con r. decr. 19 febbraio 1891, n. 69, e passata nuovamente alle dipendenze della presidenza del consiglio con r. decr. 11 febbraio 1923, n. 325. Dalla fondazione del regno a oggi furono in vigore varî regolamenti per il funzionamento della consulta. Il più vecchio è quello approvato con r. decr. 8 maggio 1870. Seguì il regolamento approvato con r. decr. 8 gennaio 1888, poi quello approvato con r. decr. 5 luglio 1896, n. 314 e finalmente l'attuale ordinamento dello stato nobiliare italiano approvato con r. decr. 21 gennaio 1929, n. 61. Secondo quest'ordinamento i provvedimenti nobiliari si distinguono in atti sovrani di grazia e in atti governativi di giustizia, a seconda che si tratti di concessione, rinnovazione, riconoscimento con sanatoria, oppure di riconoscimento puro e semplice di diritti nobiliari. I titoli ammessi nel regno sono quelli di principe e duca, marchese, conte, visconte, barone, signore, patrizio, cavaliere ereditario e nobile. Quelli conferiti da Napoleone non si riconoscono ai discendenti dell'investito se non fu costituito il prescritto maggiorasco. I titoli feudali del Napoletano e della Sicilia non sono più trasmissibili alla discendenza femminile, ma solo per ordine di primogenitura maschile. Non si possono rinnovare i titoli del Sacro Romano Impero, quello di conte palatino e i titoli concessi da una potenza straniera. Non si possono concedere nuove ascrizioni al patriziato o alla nobiltà cittadina, fatta eccezione per la nobiltà romana a favore dei fratelli del sommo pontefice e dei loro discendenti. I titoli concessi dal sommo pontefice dopo il 1870 si possono portare previa autorizzazione reale. La nobiltà non si trasmette con l'adozione, invece si trasmette ai figli legittimati per susseguente matrimonio e a quelli legittimati per rescritto di principe, qualora nel rescritto stesso sia contemplato il diritto alla successione. Incorrono nella perdita dei titoli e attributi nobiliari e nella decadenza del diritto a succedervi i condannati per delitti contro la patria e i condannati a pene non inferiori a cinque anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici.
La consulta è presieduta dal capo del governo; essa elegge nel suo seno la giunta araldica. Accanto alla consulta e alla giunta araldica vi è il commissario del re, al quale spetta riferire alla giunta circa le istanze e le proposte di provvedimenti nobiliari che gli vengono comunicate dall'ufficio araldico, e di sottoporre al sovrano assenso i provvedimenti di grazia, udito il capo del governo. Per dare avvisi e notizie sulla materia nobiliare riguardante le rispettive regioni, funzionano dodici commissioni araldiche regionali.
Per la registrazione dei provvedimenti nobiliari si tengono dall'ufficio araldico e sotto la direzione del commissario del re: 1. il Libro d'oro della nobiltà italiana, dove s'iscrivono le famiglie italiane che ottennero un provvedimento nobiliare; 2. il Libro dei titolati stranieri, in cui s'iscrivono tanto le famiglie italiane che sono in possesso di titoli stranieri, quanto le famiglie straniere che sono in possesso di titoli italiani e stranieri; 3. il Libro araldico degli enti morali, dove sono segnati gli stemmi, le bandiere, i sigilli, i titoli e le altre distinzioni riguardanti provincie, comuni, società e altri enti morali; 4. l'Elenco ufficiale nobiliare, da approvarsi mediante decreto reale su proposta del capo del governo, in cui sono segnati per ordine alfabetico i nomi e i cognomi di tutte le persone che si trovano nel legittimo e riconosciuto possesso di titoli e attributi nobiliari.
Il primo elenco ufficiale nobiliare italiano fu curato dalle commissioni araldiche regionali e apparve sul bollettino della consulta araldica come Elenco ufficiale dei nobili e titolati nelle singole regioni tra il 1895 e il 1900, preceduto intorno al 1892 da elenchi provvisorî. Nel 1922 fu pubblicato l'Elenco ufficiale nobiliare italiano, approvato con r. decr. 3 luglio 1921, che fu il primo elenco generale della nobiltà italiana. Recentemente esso è stato sostituito da un nuovo elenco ufficiale approvato con r. decr. 7 settembre 1933, n 1990, pubblicato in volume nel 1934.
Le tasse erariali per la concessione e la rinnovazione dei titoli e dei predicati nobiliari sono fissate dal r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3279; quelle per il riconoscimento furono introdotte col r. decr. 22 settembre 1932, n. 1464. I diritti di cancelleria per i provvedimenti araldici furono stabiliti con r. decr. 6 novembre 1930, n. 1494, in parte modificati dal decreto del capo del governo 20 febbraio 1931, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 31 marzo 1931, n. 66.
Sotto il regno d'Italia non erano stati ancora stabiliti i termini per una revisione generale dei diritti nobiliari, e negli elenchi ufficiali figurano, insieme con le famiglie che produssero con le commissioni regionali gli atti di stato civile comprovanti la derivazione da persone riconosciute o create nobili dai cessati governi, le famiglie che ottennero provvedimenti nobiliari dal governo del regno e che come tali sono iscritte nel libro d'oro della nobiltà italiana. Ma con il citato r. decr. 7 settembre 1933, con il quale venne approvato il nuovo elenco, è stato fatto obbligo ai cittadini indicati nell'elenco stesso e non ancora iscritti nel libro d'oro di chiedere l'iscrizione dei proprî titoli, predicati e stemmi nel detto libro d'oro nel termine di tre anni. I non adempienti non potranno ottenere l'iscrizione negli elenchi successivi.
Bibl.: Per la nobilitas romana, v.: L. Lange, Römische Alterthümer, II, Berlino 1879, p. i segg.; C. Neumann, Geschichte Roms während des Verfalles der Republik, I, Breslavia 1881, p. 30 segg.; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III, i, Lipsia 1887, pp. 458 segg.; 466 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i, Torino 1917, p. 344; IV, i, ivi 1923, p. 486 segg.; M. Gelzer, Die Nobilität der römischen Republik,Lipsia 1912; J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino e Lipsia 1926, p. 476 segg.; E. Pais, Storia interna di Roma dalle guerre puniche alla rivoluzione graccana, Torino 1931, pp. 14 segg., 47 segg.; E. Meynial, Quelques réflexions sur l'histoire de la noblesse romaine, in Studi giuridici in onore di Carlo Fadda pel XXV anno del suo insegnamento, II, Napoli 1906, pp. 129-163; G. Bonolis, I titoli di nobiltà nell'Italia bizantina, Firenze 1905; G. B. Picotti, Il "Patricius" nell'ultima età imperiale e nei primi regni barbarici d'Italia, in Archivio storico italiano, 1928, p. 3 segg.
Per la storia della nobiltà nel Medioevo e nell'età moderna: P. Del Giudice, Origine del feudo e sua introduzione in Italia, in Nuovi studi di storia e diritto, Milano 1913, pp. 106-107; F. Calvi, Il patriziato milanese, Milano 1875; A. Solmi, L'amministrazione finanziaria del Regno italico nell'alto Medioevo, Pavia 1932; G. B. Bognetti, Sulle origini dei comuni rurali del Medioevo, ivi 1927; R. Caggese, Classi e comuni rurali nel Medioevo italiano, Firenze 1907, voll. 2; G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, ivi 1899; A. Pertile, Storia del diritto italiano, 2ª ed., Torino 1896-1903, voll. 6; A. Dopsch, Beneficialwesen und Feudalität, in Mitteilungen des öst. Institut für Geschichstforschung, XLVI (1932), pp. 1-36.
Per le notizie storiche e genealogiche sulle famiglie nobili giovano gli annuarî della nobiltà che senza carattere ufficiale furono pubblicati in molti stati. Il più importante di questi annuarî è l'Almanacco di Gotha (Gothaischer Geneal. Hofkalender, Gen. Taschenbuch, dal 1763, Gräfl. Taschenbuch, dal 1825, Freiherrl. Taschenbuch, dal 1849, Adel. Taschenbuch dal 1900), che esce regolarmente ogni anno. Su di esso si foggiarono quasi tutte le pubblicazioni consimili tra cui anche l'Annuario della nobiltà italiana, un volume all'anno, dal 1879 al 1905, e il Libro d'oro della nobiltà italiana, di cui sono usciti finora sette volumi dal 1911 al 1932. Una pubblicazione che intese dare le notizie storiche e genealogiche su tutte le famiglie nobili attualmente viventi è l'Enciclopedia nobiliare italiana, pubblicata a cura del marchese Vittorio Spreti, in 6 volumi dal 1928 al 1932 e di cui si attende ancora un volume d'appendice. I problemi nobiliari vengono trattati in primo luogo nel Bollettino della consulta araldica, di cui venne iniziata la pubblicazione col settembre 1891, ma per importanza devono anche ricordarsi il Giornale araldico-genealogico, compilato da una società di araldisti e genealogisti, diretto da G. B. Crollalanza, edito a partire dal 1873, e la Rivista araldica, pubblicata dal Collegio araldico, a cominciare dal 1904. Un'ottima bibliografia in materia di nobiltà e di araldica per l'Italia fu pubblicata nel 1904 da G. Colaneri, Bibliografia araldica e genealogica d'Italia, Roma 1904. Per lo studio della legislazione nobiliare degli antichi stati italiani è molto utile il Memoriale per la Consulta araldica (Legislazione nobiliare), Roma 1889; 2ª ed., Roma 1924. Invece, per lo studio della legislazione vigente, giova il volume di G. Piano Martinuzzi, Il codice nobiliare (Manuale di legislazione e giurisprudenza), Roma 1932. Vedi inoltre G. Sabini, L'ordinamento dello stato nobiliare italiano nella vigente legislazione, Roma 1933.