NIKIAS (Νικίας, Nicias)
2°. - Pittore greco, ateniese, figlio di Nikodemos, operante nel IV sec. a. C. Sulla sua attività abbiamo varie notizie nelle fonti letterarie. Plinio soprattutto (Nar. hist., xxxv, 130) parla del pittore e delle sue opere dandoci i soggetti di molti suoi quadri. Sappiamo che N. era scolaro del pittore Antidotos, e il discepolo superò di gran lunga il maestro, che è detto più diligente che vario nei ritmi e severo nei colori, mentre N. studiò particolarmente il gioco della luce e dell'ombra, gli effetti luministici, in modo che le immagini dipinte avessero il massimo risalto (lumen et umbras custodiit atque ut eminerent a tabulis picturae maxime curavit). Questa sapiente tecnica coloristica sembra che lo distinguesse anche nella pittura delle statue marmoree, in quella velatura e in quel ritocco policromo che ravvivavano le superfici (circumlitio), tanto che Prassitele preferiva quelle statue da lui scolpite a cui aveva messo mano Nikias. Questa particolare luminosità dei quadri del pittore sembrerebbe confermata dal passo di Frontone (Ad Verum, i) in cui, come esempio di palesi contraddizioni, si cita la supposizione di voler far dipingere pitture dai toni cupi (obscura) a N. sebbene si sia inteso questo aggettivo obscurus con riferimento non già al tono, bensì al contenuto, al soggetto.
Queste ricerche di intenso chiaroscuro, di vivo luminismo, sembrano consertarsi con quelle di particolari colori, come l'uso di materiali bruciati per ottenere le ombre, come ci tramanda Plinio (Nat. hist., xxxv, 38) dandoci la notizia che N. si sarebbe per primo servito di una biacca bruciata che fu rinvenuta in orci in un incendio al Pireo. Questi effetti dovevano bene adeguarsi alla tecnica dell'encausto adoperata dal maestro, che doveva curare questi problemi tecnici e che sentì il bisogno di scrivere di aver dipinto ad encausto (scripsit se inussisse) il quadro di Nemea, come riferisce lo stesso Plinio (Nat. hist., xxxv, 27).
Il pittore attraverso gli echi delle fonti aneddotiche appare tutto preso dalla sua arte, talmente immerso nel lavoro da dimenticare di mangiare; così ci dice Eliano (Var. hist., iii, 31) e ripete Plutarco (Non posse suav. vivi, ii, 2; An seni sit gerenda resp., 5, 4) narrando che, quando stava dipingendo la Nèkyia, i servi gli chiedevano più volte se avesse mangiato e preso il bagno. Sembra che godesse di una certa agiatezza perché, quando ebbe finito la Nèkyia, si rifiutò di venderla al re Tolomeo, che gli offriva sessanta talenti. Plinio che ripete la notizia, con il nome errato di Attalo, aggiunge che preferì donarla alla propria città. Plutarco dice Tolomeo βασιλεύς e dovremmo scendere allora al periodo 306-285, ma non possiamo esser sicuri che questo titolo rispecchi effettivamente il momento in cui avvenne la proposta di acquisto del quadro e non sarebbe da escludere anche il periodo precedente all'assunzione del titolo tra il 323 al 306. Plinio pone l'acmè del pittore nell'Olimpiade cxii cioè negli anni 332-329 e poiché l'acmè di Prassitele è invece l'Olimpiade civ (365-361) la collaborazione con questo scultore dovrebbe risalire al periodo giovanile del pittore. Pausania in tre passi (1, 29, 15; iii, 19, 4; iv, 31, 12) lo dice figlio di Nikodemos, e il Neutsch ha pensato che possa riferirsi al pittore l'iscrizione coregica di Atene per un coro di fanciulli datata al 320-319, dove si cita un N. figlio di Nikodemos.
Riguardo ai temi delle sue pitture, le fonti ci danno alcuni cenni che sembrerebbero indicare tendenze diverse e alcune spiccate preferenze. Da Demetrio Falereo (De eloc., 76) ricaviamo che N. considerava elemento importante dell'arte pittorica il trattare una materia grandiosa (ὕλην εὐμεγέϑη γράϕειν) e non sminuzzarla in piccoli soggetti come uccelli o fiori, ma scegliere ippomachie e naumachie, dove era possibile rappresentare molti schemi con cavalli che corrono, s'impennano, si accosciano, e molti combattenti con giavellotti, molti che cadono da cavallo. Egli cioè riteneva che il soggetto fosse parte sostanziale dell'arte pittorica, come i miti per i poeti. Questa notizia sembra concordare con quella di Plutarco (De glor. Athen., 346) quando, nell' esaltare a gloria di Atene l'aver promosso e sviluppato la pittura, cita N. fra i pittori ateniesi che rappresentarono chi generali vittoriosi, chi battaglie, chi eroi. È strano peraltro che nell'elenco di quadri che ci dà Plinio non compaia alcun tema di combattimenti terrestri o navali; l'unico quadro ricollegabile a un tipo eroico è l'Alessandro che spiccava nei Portici di Pompeo a Roma, pur non conoscendo sotto quale aspetto e con quale intonazione il pittore avesse raffigurato il personaggio.
Pausania (i, 29, 15), nel ricordare la tomba di N. sulla via dell'Accademia vicino a quelle di Zenone, figlio di Mnasea, e di Crisippo di Soli, lo dice il miglior pittore di animali del suo tempo (ζῷα ἄριστος γράψαι τῶν ἐϕ᾿ αὑτου), ma la frase è stata interpretata già dal Letronne nel 1836 nel senso, invece, di "dipinger figure" e cioè del miglior pittore del suo tempo, seguito anche dallo Pfuhl e dal Neutsch; ζῷα γράϕειν sarebbe cioè equivalente a ζωγράϕειν, ζωγράϕον e deriverebbe forse dall'iscrizione incisa sulla tomba stessa, letta da Pausania, nella quale l'artista veniva celebrato come il miglior pittore dell'epoca. Bisogna peraltro tener anche presente che Plinio (Nat. hist., xxxv, 130), prima di Pausania, dice che a N. sono attribuite pitture con figure di quadrupedi, e che rappresentò nel modo più felice i cani; sicché questo aspetto animalistico dell'arte del maestro sembra comunque attestato, anche se rimarrebbe un po' strano che Pausania, nel ricordarne la tomba, si limitasse a celebrarlo soltanto come pittore sommo di animali, tanto più che non sono citati nelle fonti quadri di questo specifico soggetto, pur ammettendo che non si prestavano ad esser nominati con titoli particolari, come quelli mitologici, che potevano esser ricordati nel complesso come genere di pittura, e che figure di animali potevano apparire anche in varie composizioni figurate mitologiche. Comunque l'unica pittura in cui siano attestati dei cani è il monumento funerario di marmo bianco che Pausania (vii, 22, 6) descrive fuori della città di Triteia in Acaia, raffigurante una coppia di sposi: la donna seduta in trono, con la schiava accanto che la ripara con l'ombrello e il marito stante, con tunica e clamide purpurea con accanto un servo che tiene giavellotti e cani da caccia al guinzaglio. In questo genere di pitture funerarie rientra anche il monumento dipinto con l'immagine di un sacerdote di Artemide ad Efeso, ricordato da Plinio, attestante un' attività del maestro fuori di Atene. Accanto a queste opere su commissione, o di carattere funerario, si può mettere, per il tema dell'Oltretomba, la creazione della Nèkyia ispirata ad Omero; fu considerata uno dei capolavori del pittore, tanto che è celebrata anche in un epigramma dell'Anthologia Graeca (ii, 21, 53), pur non sapendo in quale aspetto l'artista avesse rappresentato l'evocazione delle anime e la dimora dell'Ade, "tomba di tutte le età".
Gli altri quadri nominati nelle fonti attingono invece al mito e sembrerebbero di un'intonazione diversa dalle composizioni belliche o animalistiche. Sono, è vero, soprattutto i quadri citati da Plinio, che erano stati trasportati ed esposti a Roma e, può darsi, che rappresentino soltanto una parte e un aspetto della produzione del pittore. Sembrano peraltro costituire un gruppo omogeneo per tema, contenuto, intonazione e composizione, con solo una, due o tre figure del repertorio più rappresentativo del gusto del IV secolo. Un Dioniso era nel Tempio della Concordia, un Giacinto molto ammirato da Augusto che lo trasportò a Roma dopo la presa di Alessandria e che poi Tiberio dedicò nel tempio di Augusto stesso: Pausania (iii, 19, 4) ci fa sapere che N. aveva dipinto Giacinto di una particolare bellezza fiorente, volendo significare che era stato oggetto di amore di Apollo. È un soggetto che fa pensare ad analogie con le creazioni di Prassitele, che dovevano esser familiari al pittore. Tutti gli altri quadri hanno come protagoniste eroine e vengono a confermare la notizia riportata da Plinio che N. dipinse con la massima accuratezza le figure femminili (diligentissime mulieres pinxit). Una Danae era esposta con il Giacinto nel tempio di Augusto. Un quadro con la personificazione di Nemea era stato portato via dall'Asia da Silano ed esposto nella Curia; Plinio (Nat. hist., xxxv, 27) lo descrive con Nemea seduta sul leone, che tiene una palma, simbolo delle vittorie agonistiche che erano simboleggiate anche da una piccola tabella dipinta sopra alla testa raffigurante una biga mentre, accanto a Nemea, era una figura di vecchio stante con bastone. Plinio dice poi che N. fece anche grandes picturas e si è discusso sul significato di "grandi". Se si intende nel senso di grande formato, sembra strano che fra i quadri citati prima sia la Nèkyia, che doveva comprendere molte figure, che fu valutata ben sessanta talenti e che non poteva esser di piccole proporzioni. Si è pensato che questa distinzione si riferisca ai quadri ad encausto e a quelli maggiori a tempera, oppure che la citazione di queste grandes picturas in Plinio derivi da una fonte diversa dove erano definiti "megalografie", mentre il Neutsch non vede una distinzione ma una continuità nel discorso pliniano che, tra le varie megalografie dipinte dal maestro, viene a citarne alcune. In questa serie Plinio nomina una Calipso, una Io, un'Andromeda, l'Alessandro nei Portici di Pompeo, e una Calipso seduta, che viene così ad esser distinta dalla prima che dovremmo immaginare stante.
Il titolo dei quadri si riferisce chiaramente alla protagonista femminile, che almeno in alcuni non era isolata, perché ad esempio l'Andromeda, che doveva esser considerata fra i capolavori del maestro, è descritta in un epigramma (Anth. Pal., ii, 157, 13) come una composizione in cui compariva anche Perseo: "Questa è la terra degli Etiopi; quello dai calzari alati è Perseo; quella avvinta alla roccia Andromeda; la protome è della Gorgone dallo sguardo pietrificatore; pòsta della lotta per la conquista dell'amore, il mostro; di Cassiope muta la felice discendenza, Andromeda scioglie dalla roccia i piedi a lungo intorpiditi; Perseo adorna come sposa il suo premio".
Poiché nelle pitture pompeiane abbiamo quattro copie di un quadro raffigurante questo episodio di Andromeda con elementi costanti che dimostrano la derivazione da un unico archetipo greco, ben inquadrabile nell'arte del IV sec., considerando la fama del pittore e la diffusa conoscenza di molte sue opere esistenti a Roma, è più che verisimile pensare che l'originale da cui derivano queste copie pompeiane possa essere la famosa Andromeda di N., come già suppose lo Helbig, seguito dal Klein, dal Rodenwaldt, dallo Pfuhl, dal Curtius, dal Marconi, dal Rizzo, dal Rumpf, dal Neutsch. Le copie finora note sono: Casa dei Dioscuri (Helbig 1186), Casa dei Cinque Scheletri della Regione VII (Helbig 1187), Casa della Regione VI (Helbig 1188), Casa del Principe di Montenegro, ora distrutta (Helbig 1189). Sono su pareti del cosiddetto III e IV stile pompeiano, e al di là dei varî modi propri dei diversi copisti sono evidenti gli elementi che accomunano queste varie redazioni di un unico archetipo. È raffigurato il momento in cui Perseo, dopo aver ucciso il mostro marino, che appare nell'angolo a sinistra in basso, e aver sciolto i vincoli che tenevano incatenata Andromeda alla rupe, l'aiuta a scendere dalla roccia sorreggendola sotto il braccio sinistro, che reca al polso ancora l'anello di ferro. Il momento corrisponde cioè a quello descritto nell'epigramma, e Andromeda muove lentamente dal ripiano roccioso il piede sinistro avanzato, che l'epigramma dice intorpidito dal lungo incatenamento, e tutta la figura nella testa leggermente piegata a sinistra, nella spalla destra abbassata con il seno denudato dal chitone, che scivola sul fianco e che la mano destra trattiene all'altezza del grembo, assume un atteggiamento languido, svagato, proprio come chi esca da un incubo e da un torpore, secondo l'interpretazione ecfrastica epigrammatica. La posa di Perseo con il piede destro poggiato su un rialzo roccioso, che sembra riflettere esperienze ritmiche contemporanee lisippee, con il braccio destro sollevato per sorreggere quello di Andromeda, conferisce all'eroe un premuroso atteggiamento cavalleresco nell'apprestarsi ad accogliere il premio d'amore della sua fatica, e tutta la scena assume un'intonazione romantica e idillica perfettamente consona allo spirito del IV secolo. Questa concezione si distacca nettamente dalla tradizione iconografica precedente, nota attraverso la ceramica dipinta, dove l'episodio mitico si svolgeva in una più complessa narrazione, in una cornice fastosa, con Andromeda in vesti orientali, con influssi forse teatrali. Le pitture attestano invece una creazione limitata ai due protagonisti, dove scompare ogni carattere barbarico nel costume dell'eroina, dove all'illustrazione dell'incatenamento e della lotta con il mostro si sostituisce un duetto amoroso dopo l'angoscia, dove il dramma si risolve nel romanzo. Questa nuova interpretazione originale del mito può ben esser attribuita a N., che ci appare un temperamento vicino a quello di Prassitele. Il chitone di Andromeda, pur con le varianti dei copisti, mostra quella sottigliezza, quel gioco di trasparenze e di partiti di pieghe, che rientrano nell'arte del IV sec.; il nastro nei capelli, gli orecchini, che ritornano in tutte le copie possono far parte dell'originale. Nel Perseo il mantello, che nelle copie è marrone o azzurro, rosso, violetto, scendendo dietro il dorso, girando intorno all'avambraccio sinistro, ricadendo con un lembo fra le gambe, crea uno sfondo scuro al corpo nudo, che doveva risaltare con vivo plasticismo sostenuto da un forte chiaroscuro di cui sentiamo l'eco in tutte le copie. La hàrpe, da cui pende la testa di Medusa, tenuta nella mano sinistra abbassata, diviene un attributo che ha perduto il suo carattere di mortale strumento, seminascosto tra i lembi della clamide. Così il mostro, dove più facilmente si avverte la varia interpretazione dei copisti, più fantastico nella pittura della Casa dei Dioscuri, ridotto a un grosso pesce nelle altre, ha perso il suo carattere terrificante e diviene un elemento del parco paesaggio che fa da cornice ai protagonisti: la rupe che s'innalza al centro e fa da sfondo scuro alla luminosa figura di Andromeda, un accenno al mare a sinistra sulla cui spiaggia giace il ketos ucciso, mentre si è discusso se le due giovanili figure femminili, aggruppate come tranquille spettatrici, sedute su una roccia sul lato sinistro delle copie delle case Reg. vi, Reg. vii e del Principe di Montenegro, facessero o no parte della composizione originaria niciana. Si sono dette le Aktai, personificazioni del litorale roccioso dove si svolge la scena, e il problema della loro presenza si è posto in relazione anche con quello analogo della presenza di Hermes nel quadro di Io ed Argo. La maggior parte dei critici propende per un originale con due sole figure, ma se i copisti romani possono variare le dimensioni della scena, gli elementi del paesaggio, adattandoli al campo da decorare, abbreviando i motivi della composizione originale, è più difficile che aggiungano in quadri classici figure di loro invenzione, desumendole, se mai, da altre fonti con una eclettica contaminazione di motivi. D'altro canto l'asse centrale della composizione appare la rupe emergente a cui era legata Andromeda, e Perseo occupa il lato destro del quadro a un livello più basso di quello dell'eroina; non è quindi da escludere che le Aktai facessero parte della composizione originale occupando l'estremità sinistra del campo, sedute su una roccia e perciò con le teste a un livello più basso di Andromeda, equilibrando nel loro aggruppamento di profilo e con la curvatura in avanti dei loro corpi i volumi e le linee della figura di Perseo, mentre lo spazio sottostante a loro era colmato dal ketos.
Anche per il quadro di Io, ricordato da Plinio, si sono visti echi precisi in una serie di copie di Pompei e di Roma, il cui numero attesta la fama dell'archetipo. A Pompei conosciamo le copie: Macellum (Helbig 131), Casa di Meleagro (Helbig 132), Casa dei Dioscuri, distrutta (Helbig 133), Casa del Banchiere, distrutta (Helbig 134), Tempio di Iside (Helbig 135), Casa di Io ed Argo, distrutta (Helbig 136), Casa del Citarista (Helbig 137), Casa Reg. ix, 7, 14; a Roma, Casa di Livia sul Palatino. In queste copie le varianti dovute alla elaborazione dei pittori pompeiani sono maggiori che in quelle di Andromeda, ma dalle copie del Macellum, della Casa di Meleagro, della Reg. ix, e del Palatino si possono ricavare sicuri elementi comuni da riportare ad un unico prototipo, con caratteri compositivi, con intonazione e con elementi formali equivalenti a quelli della creazione di Perseo ed Andromeda. Io siede al centro su una roccia, su cui poggia la mano sinistra; la mano destra si piega a trattenere davanti al petto il velo scivolato dalla testa, mentre il chitone cala sulla spalla sinistra, denudandola. La gamba destra è retratta, la sinistra avanzata e il torso leggermente girato come ad esprimere l'atto di ritrarsi sotto lo sguardo implacabile del suo guardiano, verso cui però, ansiosa, volge leggermente la testa, sulla cui fronte spuntano due piccole corna. La leggera torsione del corpo, la diversa posa delle gambe, il giramento della testa, il gesto di trattenere il velo conferiscono alla figura una patetica tensione, che risulta più fedelmente resa nella copia del Palatino e che crea un significativo contrasto con la intensa fissità della figura di Argo. Questi si può ricostruire soprattutto dalle copie del Macellum, della Reg. ix, del Palatino, dalle quali desumiamo che aveva la gamba destra piegata con il piede poggiato su un rialzo roccioso e sulla coscia poggiava l'avambraccio sinistro la cui mano stringeva la spada; il corpo gravitava sulla gamba sinistra tesa, mentre il braccio destro sollevato si appoggiava con la mano alla roccia che s'innalzava dietro ad Io, come sfondo alla figura. Sulla spalla sinistra poggiava la lancia obliqua attestata dalle copie del Palatino e della Reg. ix. Completamente falsata dal copista è invece la figura di Argo nel quadro della Casa di Meleagro, riportata di tre quarti verso lo spettatore, con l'avambraccio destro e non con il sinistro appoggiato alla coscia, mentre la mano sinistra è riportata sul fianco in atteggiamento di riposo. La figura perde così con la posizione di profilo la stretta relazione che la legava intensamente alla Io e in cui risiedeva il significato della scena. La lancia è fatta verticale e trasferita sul lato destro. Nonostante questa alterazione nella figura di Argo, la Io deriva dal medesimo prototipo delle copie precedenti, mentre ad un originale del tutto diverso si riferisce la pittura della Casa dei Citarista, con Argo seduto a sinistra, Hermes a destra che gli porge la siringa e Io che troneggia in mezzo in secondo piano in posizione più elevata; ai suoi piedi giace la giovenca. Ai corpi scuri dei due protagonisti di primo piano si opponeva la massa più chiara della figura di Io nel fondo, con una sintassi piramidale che aveva il suo vertice nella testa velata dell'eroina. La scena in questa diversa creazione s'impernia sull'insidioso dono della siringa fra i due protagonisti maschili e il copista del quadro della Casa del Citarista contamina ecletticamente questo originale con un tipo di Hermes, ispirato invece dalla figura di Argo delle copie precedenti, e specialmente al tipo di quello della Casa del Meleagro. Ma se queste due versioni dove compare Hermes non hanno nulla a che vedere con il supposto originale niciano a cui sembrano far capo le altre copie, quella del Palatino presenta peraltro la figura di Hermes che compare, a sinistra, in atto di avanzare furtivo a lato della roccia che fa da sfondo ad Io. Si è discusso perciò se Hermes facesse parte o no della composizione originale e i più propendono per escluderlo, mentre l'accettano lo Helbig e il Neutsch. Si può osservare che la roccia con Io sembrerebbe costituire come nel quadro di Andromeda, l'asse della composizione, e che Argo, poggiando la mano destra sull'orlo superiore della roccia, che in parte nascondeva l'avambraccio che girava dietro, sembra concepito in un piano più arretrato di quello di Io, che siede sul ripiano roccioso più avanzato. Questa diversità di piani mal si accorderebbe sintatticamente in un quadro limitato a queste due figure, mentre la posizione di Argo potrebbe trovare un complemento compositivo e una contrapposizione spaziale con la figura opposta e ugualmente più arretrata di Hermes; fra queste due figure che si bilanciano emerge così al centro quella seduta di Io, con una sintassi analoga a quella del quadro di Andromeda, dove ugualmente l'eroina occupa il fuoco centrale, Io a un livello più basso, Andromeda più alto. In ambedue le creazioni si avverte uno stesso temperamento artistico, che concentra il tema mitologico nello stretto e intimo rapporto fra la coppia dei protagonisti, che diviene romantico in Perseo ed Andromeda, patetico in Io ed Argo. Il languore di Andromeda è equivalente all'inquietudine di Io, l'aggraziata mossa della prima all'angosciato ritrarsi della seconda; il premuroso e soddisfatto gesto di Perseo equivale all'attenta fissità di Argo; la svagata partecipazione del gruppo delle due Aktai equivale alla furtiva apparizione di Hermes, ambedue in funzione di sommesso accompagnamento illustrativo al vibrante duetto dei protagonisti, i cui toni luminosi, ricchi di luci e di ombre, (lumen et umbras custodiit) ben dovevano staccarsi (eminerent e tabulis) da quelli più diffusi della roccia, del mare e del cielo. Più difficile è dire se la colonna con il simulacro di Hera sopra alla roccia nella copia del Palatino facesse parte dell'originale niciano; potrebbe esser dettata dalla necessità di ampliare in altezza il quadro inserito nella parete del II stile.
Riguardo al quadro con Calipso stante, ricordato da Plinio, il Lucas ha voluto riconoscerlo in copie dalla Casa dei Cinque Scheletri (Helbig 1131) e dal Macellum (Helbig 1132) con Odisseo seduto in vesti di mendicante e una figura femminile stante dinanzi a lui, in atteggiamento di concentrazione, che lo guarda; ma il soggetto deve interpretarsi piuttosto come l'incontro di Odisseo e Penelope fra le ancelle e la nutrice. In una pittura da una tomba di Kerč appare una figura femminile in un simile atteggiamento raccolto che un'iscrizione definisce come Calipso, che ha servito da principale argomento per la tesi del Lucas, ma lo schema è attribuibile a più soggetti e la figura rimane generica e non ci aiuta nella ricerca dell'originale di Nikias.
Poiché fra i quadri ricordati da Plinio è la Danae, esposta con il Giacinto nel tempio di Augusto, si è indagato se, fra le pitture pompeiane di questo soggetto, vi fossero elementi riportabili ad un archetipo niciano. Quella della Casa della Caccia Antica presenta la sola Danae stante seminuda con la testa volta verso Eros che versa su di lei, dall'alto, l'aurea pioggia, mentre la presenza di Zeus è simboleggiata dal fulmine a sinistra di Danae. Nella pittura della Casa di Gavio Rufo, oltre a Danae più languida e flessuosa e ad Eros, compare anche Zeus giovanile, seduto su roccia; la pittura della Casa della Regina Margherita mostra Danae seduta, di profilo, accanto a Zeus sbarbato, appoggiato allo scettro; la pittura della Casa di Pansa ha la sola Danae seduta mentre sta ricevendo la pioggia d'oro. Il Lippold vedeva una contraddizione nel tema dei quadn con la presenza di Zeus, mentre il Neutsch la giustifica, come epifania che vuol indicare la potenza del momento amoroso, vedendo la pioggia a cui volge lo sguardo Danae come il segnale della presenza del dio, e considerando la possibilità di un'ispirazione ad un originale di N. del quadro della Casa della Regina Margherita, dove lo Zeus seduto potrebbe ricordare la posizione di Io, e il contrasto tra i toni chiari di Danae e quelli più scuri di Zeus, potrebbe avvicinarsi a quello analogo fra le coppie dei protagonisti degli originali di Io ed Argo, e del Perseo ed Andromeda. La concezione del mito riassunta anche qui nell'intimo e patetico rapporto di una figura femminile e di una maschile, l'interpretazione giovanile di Zeus, come romantico amante, potrebbero convenire allo spirito del IV sec. e di N., pur attraverso la rielaborazione del copista pompeiano.
Se si accetta questo riconoscimento di echi niciani in questa serie di pitture pompeiane, ne deriva un aspetto coerente e omogeneo dell'arte del maestro ispirato a temi mitologici, scevri di minuzie, e quindi offrenti una materia che può definirsi "grandiosa" (ὔλη ἐυμεγέϑης), e colma sempre di èthos anche se in tono già romantico; rimane sempre problematico invece l'altro aspetto del pittore di combattimenti equestri e navali, a meno che non si intenda il passo di Demetrio Falereo come rifiesso di un giudizio espresso da N. sui compiti del pittore in generale che deve volgere il proprio interesse verso temi grandiosi come questi bellici, che egli peraltro non avrebbe trattato. Gli echi pompeiani confermerebbero invece la sua raffinata predilezione per le immagini femminili, i suoi effetti luministici e di grande risalto plastico ottenuto con intenso gioco chiaroscurale. Forse nel suo primo periodo di attività colori le statue del grande Prassitele, che molto apprezzava la sua opera; passò poi a eseguire varie commissioni di privati, soprattutto per pittura di steli e monumenti funerarî in Atene e fuori della città, come in Achaia e ad Efeso, commissioni che gli fruttarono guadagni, accresciuti attraverso un'intensa attività nella creazione di quadri mitologici, che lo assorbivano intieramente con appassionato interesse per la propria arte, per i problemi tecnici, tanto da trascurare la propria persona e perfino il vitto. Conseguita una notevole agiatezza poteva rifiutare di vendere la Nèkyia ad un re e offrirla in dono alla propria città, di cui fu uno dei più famosi artisti nel IV sec. per la pittura, come Prassitele lo fu per la scultura, e come sembra che proclamasse l'iscrizione incisa sulla sua tomba sulla via dell'Accademia, accanto ad altri illustri personaggi.
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