GRIMALDI, Nicolò
Nacque a Genova, da Agostino e da Bettina Centurione Becchignone di Niccolò.
Le notizie sulla sua giovinezza e sull'inizio dell'attività pubblica sono inficiate dalla difficoltà di distinguere tra i numerosi omonimi che si ripetono all'interno dei tanti rami della famiglia (anche con identico patronimico), una delle più antiche, potenti e filoimperiali della nobiltà genovese, che nel 1528 andò a costituire uno dei 28 alberghi in cui furono raggruppate le famiglie aristocratiche cittadine.
La nascita del G. dovrebbe situarsi entro i primissimi anni del Cinquecento (o forse addirittura prima), se in lui bisogna riconoscere il Nicolò che nel 1515 ricevette dal padre un dono di 80.000 scudi per iniziarlo agli affari e nel 1519 entrò a far parte della ditta-compagnia Agostino e Nicolò Grimaldi, che a Lione operava "sequentem curiam Hispanie" e aveva prestato 55.000 fiorini a Carlo V per assicurare la sua elezione imperiale (Gioffrè, pp. 34 s., 44). La data può invece spostarsi con maggiore probabilità più avanti, intorno al 1510 o anche dopo, se in base a notizie meno confuse e più documentate si deve far iniziare l'attività del G. non prima degli anni Trenta.
È certo, comunque, il precoce inserimento del G. nelle attività mercantili e soprattutto finanziarie familiari negli Stati sotto controllo imperiale e spagnolo, a fianco dei fratelli, Paolo e Lazzaro, e del padre, che fin dai primi anni del secolo trasferiva denaro tra Genova, Madrid, Roma e Londra. Anche il G. dovette dunque viaggiare spesso e operare a livello internazionale sulle principali piazze finanziarie europee, in particolare Siviglia, centro delle transazioni bancarie e sede delle più importanti case di commercio genovesi (Grimaldi, Spinola, Centurione).
Al 19 nov. 1548 risale la prima missione pubblica, quando il G. fu nella delegazione di dieci magnifici genovesi incaricati di accogliere e ospitare l'infante Filippo a Savona nel corso del suo viaggio verso il capoluogo ligure che mirava a rafforzare il dominio spagnolo a Genova. In segno di grande intimità e di vicinanza intellettuale, il 14 apr. 1550 il G. fu scelto dal morente cardinale Innocenzo Cibo come uno dei suoi esecutori testamentari insieme con il cardinale Giovanni Salviati e la marchesa di Massa, Ricciarda Malaspina. è dunque probabile che a questa data il G. avesse già sposato Giulia Cibo, figlia di Giuliano e pronipote di Innocenzo VIII, e iniziato a stringere saldi rapporti con la famiglia dei signori di Massa, destinati ad approfondirsi ulteriormente negli anni successivi.
Il matrimonio del G. fu allietato da numerosa prole, strategicamente utilizzata in un'accorta politica matrimoniale per rinsaldare le alleanze politiche e finanziarie all'interno dell'aristocrazia non solo genovese: Agostino (duca di Eboli, nel 1580 sposò in prime nozze la sedicenne Leonora, figlia del principe di Massa Alberico Cibo Malaspina), Meroaldo (marchese di Diano), Luciano; le figlie Aurelia, Lucrezia, Polissena, Eliana, maritate ai rampolli delle più potenti famiglie genovesi di nobiltà vecchia: rispettivamente Nicolò Doria di Giacomo, Antoniotto Pallavicino di Ettore, Filippo Spinola di Ambrogio, Sinibaldo Doria di Niccolò. Seguendo fonti non concordanti, tra i figli del G. occorrerebbe annoverare anche Giacomo, Francesco, Percivale, Battina e Pellina (o Pomellina), sposa di Baldassarre (secondo altri Stefano) Lomellini, che avrebbe affiancato il suocero in alcune transazioni finanziarie con il re di Spagna.
A causa della reticenza delle fonti storiche e documentarie coeve, risulta comunque difficile ricostruire la mappa degli incarichi pubblici ricoperti dal G. e delineare un coerente quadro della sua attività politica, che si intuisce a ogni modo di grande influenza a causa dei rapporti diretti stabiliti con l'imperatore e i suoi più importanti collaboratori in Italia, in particolare Gómez Suárez de Figueroa (dal 1529 al 1549 ambasciatore imperiale a Genova) e i governatori di Milano. Poco probabili le notizie che vogliono il G. componente del magistrato dei Padri del Comune nel biennio 1553-54 e membro dei supremi sindicatori che nel 1565 giudicarono sfavorevolmente il dogato di G.B. Lercari, escludendo l'ex doge dal novero dei procuratori perpetui (Poleggi, p. 303): in effetti il protagonista di quel singolare evento nel panorama politico genovese fu non il G. ma Nicolò Grimaldi olim Cebà.
Certo è invece l'incarico ottenuto dal Senato il 1° nov. 1554 di recarsi a Casale per trattare con il Figueroa, divenuto generale imperiale, al quale il G. aveva anticipato finanziamenti per pagare il soldo delle truppe spagnole, oltre che per chiedere un soccorso immediato per far fronte alla carestia e sollevare la capitale ligure dalla carenza alimentare con l'invio di forniture di grano siciliano. Incarico specifico del G. era di trattare per ottenere il rimborso delle spese sostenute da Genova per il mantenimento delle truppe imperiali a difesa della Corsica, attaccata dalle forze franco-ottomane, e chiudere quel focolaio di guerra che minacciava la sovranità genovese sull'isola, cercando di inserire la cessazione delle ostilità francesi contro la Corsica nelle trattative che si andavano intavolando per concludere la guerra di Siena, allora assediata dagli Imperiali e in procinto di passare sotto il dominio mediceo.
Il 27 ag. 1558 il Senato ricorse ancora ai buoni uffici del G. nominandolo, in sostituzione di Andrea Imperiali (prudentemente ammalatosi), inviato presso il governatore di Milano Gonzalo Fernández de Córdoba, duca di Sessa, per difendere le ragioni della Repubblica e l'intervento armato con cui essa si era appropriata del Marchesato del Finale, sollevatosi contro Alfonso Del Carretto, e sul quale vantava antichi ma contrastati diritti che la opponevano ai Doria (compreso il potentissimo Andrea), legati ai Del Carretto da vincoli di interesse e familiari. Ancora alla Corsica era legata la nomina a commissario generale dell'isola nel 1562, intervenuta in un momento di particolare delicatezza, quando cioè essa era percorsa dalla ribellione contro i Genovesi.
La situazione apparve subito grave, poiché Genova si era alienata tutte le simpatie e non poteva contare sull'appoggio di nessun isolano, per cui la ribellione - era questa la previsione del G. - non sarebbe stata domata prima di numerosi anni. In quelle condizioni si imponeva l'adozione di rigorosissimi provvedimenti: "levare totalmente le armi" agli abitanti, lasciandole solo ai soldati e rassicurando contemporaneamente in proposito i pochi rimasti fedeli alla Repubblica; soprattutto cercare di sopprimere tramite sicari Sampiero da Bastelica, capo della rivolta, e suo figlio Alfonso d'Ornano perché "quando seguisse apporterebbe terrore ai tristi et sigortà al Stato" (Russo, p. 18).
A parte questi pochi incarichi documentati, la figura del G. resta comunque defilata all'interno della distribuzione del potere politico genovese. Certamente, un peso ben più rilevante assumeva il suo ruolo economico e finanziario di "hombre de negocios" e di asentista, sino a tramutarsi, in particolare dopo il 1533, quando i finanzieri genovesi sancirono il loro predominio sulle piazze imperiali e spagnole, in uno dei maggiori e più pronti finanziatori delle esigenze militari dell'imperatore Carlo V prima e di Filippo II in seguito. Nel 1532 il G. aveva fatto fronte al sempre più urgente bisogno di contante per pagare gli eserciti imperiali e le navi impegnate nel Mediterraneo, anticipando 120.000 scudi insieme con Giovanni Battista Grimaldi e Adamo Centurione (le condizioni di restituzione prevedevano un rimborso di 132.000 ducati a un interesse formale del 10%, in realtà più alto). Già nelle liste di asientos degli anni 1533-36 il G. figura aver prestato all'imperatore 201.000 ducati.
L'anticipo del contante era fondamentale per fare fronte al pagamento delle truppe e delle flotte impegnate negli anni di guerra contro la Francia e a presidio delle piazzeforti imperiali in Italia e in Europa soprattutto di fronte al ritardo con cui il denaro giungeva dalla Spagna (e dall'America i carichi di metalli preziosi). Quello dei contratti di anticipo - o più precisamente di trasferimento di denaro o credito sul quale i cambisti lucravano le differenze di cambio contrattate tra una piazza e l'altra - era un meccanismo perverso, che indubbiamente soffocava le casse imperiali ma creava problemi agli stessi finanzieri, che si vedevano talvolta rinviare il rimborso degli asientos in scadenza, come accadde nel 1537 al Grimaldi.
Nel 1546 il G. aveva già assunto un posto di assoluto rilievo tra i finanzieri genovesi, figurando tra i pochi in grado di disporre di grandi somme. Incaricato dall'imperatore di sondare la possibilità di ottenere un prestito di 150/200.000 ducati, l'ambasciatore Figueroa si limitò a consultare Adamo Centurione e il G., poiché di fronte a un loro rifiuto nessun altro avrebbe accettato il negoziato sulla fornitura di tale somma e in tal caso la reputazione stessa dell'imperatore ne sarebbe uscita incrinata (Pacini, 1999, p. 447). La disponibilità economica personale del G. era a quella data già elevata ma più ancora contava la cerchia di capitalisti e associati che a lui faceva capo, quella che in effetti gli permetteva di godere di ampi crediti e di gestire gli enormi capitali dati in prestito.
Subentrando ai banchieri tedeschi (Fugger e Welser), dopo il 1556 i Genovesi consolidarono una posizione di pressoché totale monopolio finanziario a Madrid, che doveva portare non solo a una loro pervasiva ingerenza negli affari spagnoli ma al dirottamento del flusso dei metalli preziosi spagnoli provenienti dal Nuovo Continente verso Genova e verso le casse delle maggiori famiglie aristocratiche cittadine, come testimoniava ad esempio il partito sottoscritto da Filippo II e dal G. il 12 maggio 1558 a Valladolid. Esso prevedeva l'anticipo da parte sua di un milione di ducati in oro, da pagare ad Anversa e a Milano, per far fronte al pressante fabbisogno regio di denaro per l'esercito, ma la somma fu offerta a condizioni di particolare durezza per il sovrano, al quale furono richieste gravosissime garanzie. Le clausole poste per la stipula di quei contratti in più occasioni crearono frizioni tra la corte e l'aristocrazia spagnole da un lato e i banchieri genovesi dall'altro, e pure il G. a ondate ricorrenti dovette far fronte alla non positiva fama di mercadero e all'accusa di esosità.
Negli anni Sessanta parte degli interessi del G. cominciarono a indirizzarsi verso il Regno di Napoli e i domini meridionali del re di Spagna: nel 1567 acquistò dal principe di Melito e dal duca di Eboli, probabilmente a garanzia di crediti non altrimenti esigibili, la città di Rapolla, il castello di Diano e il territorio di Eboli, acquisendone i rispettivi titoli nobiliari di conte, marchese e duca. Il culmine di questo processo di parziale infeudamento dei suoi interessi economici fu sancito il 10 febbr. 1575, quando Filippo II approvò la vendita al G. della città di Salerno, di tutti i suoi territori, dei diritti feudali che vi gravavano e del titolo annesso di principe che egli tenne orgogliosamente per sé, passando ai figli Agostino e Meroaldo quelli ora meno squillanti di duca di Eboli e marchese di Diano. Intanto, a sancire formalmente la penetrazione e l'espansione nel Regno di Napoli e il crescente peso delle partecipazioni alle gabelle e ai commerci napoletani, il 12 luglio 1572 il G. aveva acquistato le case appartenute ai principi di San Severino situate nel seggio di Nido a Napoli, mentre il 3 apr. 1574 era stato nominato consigliere del Collaterale di Napoli.
Le ricchezze accumulate con gli asientos fecero del G. uno degli uomini più potenti e doviziosi di Genova, e forse d'Italia, tanto da essere definito dagli stessi contemporanei come "il monarca", o "il signor monarca": il suo gigantismo si manifestò nel 1564 anche per mezzo dell'acquisto dei terreni nel nuovo quartiere dell'aristocrazia genovese, strada Nuova, per erigervi il suo palazzo, che testimoniasse anche fisicamente la potenza economica conquistata, una possibilità a portata di pochissime famiglie per quanto ricche esse fossero.
La fabbrica che ne venne fuori era eccezionale per mole, fasto residenziale e sontuosità dei materiali adoperati, tanto che il palazzo (oggi Doria-Tursi in via Garibaldi) fu giudicato più "degno d'un monarca, che d'un privato signore" e proprio per questo motivo P.P. Rubens lo riprodusse solo in parte nel suo volume sui Palazzi di Genova, caratterizzati invece per una più familiare e intima dimensione domestica (Poleggi, p. 317).
La costruzione della magnifica residenza cittadina testimonia il mecenatismo artistico e letterario del G. e i suoi interessi culturali, che dovevano essere rilevanti, per quello che si può arguire. La moglie e le figlie furono al centro delle celebrazioni di letterati e musicisti, oltre che dedicatarie di omaggi e composizioni: nelle Bellezze di Genova (Genova 1583), Bartolomeo Paschetti annoverò Giulia Cibo, la moglie del G., tra le donne più degne di essere magnificate per bellezza e intelletto mentre il musicista calabrese Gasparo Fiorino dedicò alle figlie del G. alcune canzoni polifoniche nel Libro secondo delle Canzonelle a tre et a quattro voci edito a Venezia nel 1574 (Moretti, pp. 417, 442).
All'inizio degli anni Settanta i mai sopiti dissidi tra le fazioni nobiliari genovesi si accentuarono a causa dell'arroccamento oligarchico delle famiglie di nobiltà vecchia e del desiderio dei nuovi di contare maggiormente sulla scena politica interna e di condividere la partecipazione ai lucrosi commerci e agli affari con gli Stati spagnoli. La discussione politica si indirizzò inevitabilmente a chiarire il concetto di nobiltà e il suo status, poiché i vecchi accusavano gli esponenti dell'opposto schieramento di essere nobili per convenzione e di esercitare professioni vili, mentre gli altri sostenevano l'equivalenza repubblicana del concetto di nobiltà con quello di cittadinanza e ritorsero la critica di svolgere professioni socialmente poco prestigiose o addirittura degradanti contro gli avversari.
In questa accesa discussione, il G. fu pesantemente accusato dai testi di propaganda politica redatti da nobili "nuovi" di svolgere attraverso gli investimenti finanziari e i prestiti alla Corona spagnola attività di carattere usuraio: egli - sostenevano - aveva acquistato il principato salernitano "con danari guadagnati ad usura col Re Cattolico" poiché era solito fare prestiti "caricandoli honoratissimi interessi di 60 e 70 per cento perché s'ha da andare all'inferno dice che così li anderà per poco come per assai". E se formalmente i contratti da lui sottoscritti non davano mostra dell'esosità degli interessi richiesti, "egli è tanto l'utile che ne caua che importa anche più a chi sa far li conti". Di più, gli avversari addebitavano al G. l'invenzione di "noue forme" di contratti "ritrovatti in Ispagna a rovina del Regno": una crisi, lamentavano i nuovi, che avrebbe avuto gravi ripercussioni a Genova, maggiore alleata e finanziatrice del Regno iberico. Per questo motivo in Spagna da tempo montava l'opposizione contro quegli avidi mercanti-banchieri che i "denari […] soli adorano" e nelle cortes "la prima domanda che fanno a S. Maestà è che se schiacci di suo Regno tali infami" ([Dialogo] Paolo e Uberto, Genova, Biblioteca civica Berio, Mss. e rari, XIV.3.24, cc. 136v-137r).
I disordini popolari e gli atti di violenza che scoppiarono a Genova nel marzo del 1575 e proseguiti nelle settimane successive spinsero gran parte della nobiltà vecchia ad abbandonare la città; anche il G. decise di muoversi con quasi tutta la famiglia per portarsi con due galere a Massa dove, il 3 maggio, venne accolto e ospitato dal principe Alberico Cibo Malaspina, insieme con numerosi esponenti di almeno trenta famiglie di nobiltà vecchia che lo raggiunsero nei giorni successivi. Lì i fuorusciti si fermarono per diversi mesi, prendendo parte alle feste e agli intrattenimenti organizzati nella corte principesca in loro onore e divertimento. Nel frattempo concordarono di finanziare con i loro patrimoni la guerra intestina e procedere alla conquista di parti del territorio ligure: lo stato patrimoniale che fu così abbozzato, attestato quindi su valori certamente inferiori rispetto al dato reale, censiva 877 nobili genovesi e indicava che soltanto tre aristocratici raggiungevano la cifra più alta con un patrimonio personale ammontante alla cospicua somma di 500.000 ducati. Uno dei tre era il G., che si confermava anche in quella occasione tra gli uomini più ricchi di Genova.
La crisi finanziaria spagnola sfociata nella dichiarazione di bancarotta della Corona resa pubblica con decreto del 1° sett. 1575 non solo spinse le fazioni genovesi a ricompattarsi e a trovare un accordo, raggiunto nei primi mesi dell'anno successivo, ma fece sentire i suoi effetti sul patrimonio del G. e della sua famiglia, gravato da una pesante esposizione. Su 37 milioni di ducati cui ammontavano i debiti del Tesoro spagnolo, ben 10 milioni erano somme spettanti agli uomini di finanza genovesi e la metà apparteneva al solo Grimaldi. I suoi immediati tentativi di contrattare direttamente con il sovrano il dissequestro dei beni dei finanziatori della Corona per limitare i danni dell'insolvenza spagnola furono vani e solo nel settembre 1577 furono conclusi i negoziati che riconobbero in parte i crediti vantati dai finanzieri, limitandone le perdite. Questi dal canto loro si impegnavano a riprendere a prestare al re spagnolo 5 milioni di ducati in cinque anni in Fiandra e in Italia: il G. e i suoi associati dovevano garantire la disponibilità di oltre metà della somma, 2 milioni e 2/3.
Se i banchieri genovesi riuscirono a superare la crisi e a riprendersi economicamente, per il G. fu una durissima prova e forse andò vicino al fallimento, come esagerò qualche contemporaneo. Certo dovette rinunciare al suo lussuosissimo train de vie e, per recuperare contante, cedere villaggi, borghi e terre del Meridione d'Italia accumulati nei decenni precedenti, che in alcuni casi colsero l'occasione per pagare l'affrancamento dai diritti feudali.
Nel 1586 rivendette a Cesare Ávalos y Aragón la città di Capaccio e le terre di Altavilla e Padula nel Ducato di Eboli; quindi gli toccò alienare Salerno e il titolo principesco (i figli conservarono invece i propri): il 26 apr. 1591 il re confermò lo strumento con il quale la città veniva restituita al Regio Demanio dietro pagamento di 40.000 ducati di carlini; nel febbraio 1593 toccò al feudo di Olevano riscattarsi e a essere integrato nel Regio Demanio napoletano. Alla fine dello stesso anno si vide costretto a disfarsi del nuovo e grandioso palazzo genovese, vendendolo per 50.000 scudi a Giovanni Andrea Doria principe di Melfi, il nuovo protagonista della scena genovese.
Il G. morì a Genova, probabilmente nel 1594, anno al quale risalgono le ultime testimonianze su di lui.
Fonti e Bibl.: Per la bibliografia elencata va precisato che il G. è confuso, spesso nella stessa pagina, con omonimi. Arch. di Stato di Genova, Mss., 494, c. 240r; Diversorum Corsicae, f. 125; Secretorum Corsicae, f. 338; Litterarum venientium ex Corsica, f. 503; Genova, Biblioteca civica Berio, Mss. e rari, X.2.168: A. Della Cella, Famiglie di Genova antiche e moderne estinte e viventi nobili e popolani, II, c. 561; XIV.3.24, cc. 136v-137r: [Dialogo]Paolo e Uberto; IX.5.4: G. Giscardi, Origine e fasti delle nobili famiglie di Genova, III, p. 1085; Parigi, Archives de le Ministère des affaires étrangers, Mémoires et documents, Espagne, supplément, 347, c. 49r; I. Cybo Ghisi, Dialogo della nobiltà dell'illustriss. famiglia Cybo, Genova 1588, p. 108; G.B. Spinola, Commentari delle cose successe a' Genovesi dal 1572 sino al 1576, a cura di V. Alizeri, Genova 1838, p. 122; U. Foglietta, Clarorum Ligurum elogia, Genuae 1864, p. 270; G. Sforza, Cronache di Massa di Lunigiana, Lucca 1882, pp. 46 s.; Il libro dei ricordi della famiglia Cybo, a cura di L. Staffetti, in Atti della Società ligure di storia patria, XXXVII (1908), ad indicem; Archivo General de Simancas, Catalogo, XVI, Papeles de Estado de la correspondencia y negociación de Nápoles, a cura di R.M. Redondo, Valladolid 1942, ad indicem; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, I, Spagna (1494-1617), Roma 1951, ad indicem; Archivo General de Simancas, Papeles de Estado. Genova, a cura di R. Magdaleno, Valladolid 1972, ad indicem; Títulos y privilegios de Nápoles. Siglos XVI-XVII, a cura di R. Magdaleno, I, Onomástico, Valladolid 1980, pp. 281 s.; F. Poggi, Le guerre civili di Genova in relazione con un documento economico-finanziario dell'anno 1576, in Atti della Società ligure di storia patria, LIV (1930), p. 128; R. Russo, La ribellione di Sampiero corso, Livorno 1932, pp. 14, 16, 18; A.E. Sayous, Les noblesses. Aristocratie et noblesse de Gênes, in Annales d'histoire économique et sociale, IX (1937), p. 378; R. Romano, Banchieri genovesi alla corte di Filippo II, in Riv. stor. italiana, LXI (1949), pp. 243, 245; R. Carande, Carlos V y sus banqueros, II-III, Madrid 1949-67, ad indices; G. Coniglio, L'infeudazione di Salerno ed un contratto tra N. G. e Filippo II, in Rass. stor. salernitana, XII (1951), pp. 37 s.; R. Ehrenberg, Le siècle des Fugger, Paris 1955, ad indicem; J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, Paris 1955, ad indicem; D. Gioffrè, Gênes et les foires de change de Lyon à Besançon, Paris 1960, pp. 34 s., 44; R. Cantagalli, La guerra di Siena (1552-1559). I termini della questione senese nella lotta tra Francia e Asburgo nel '500…, Siena 1962, ad indicem; F. Chabod, Storia di Milano nell'epoca di Carlo V, Torino 1971, ad indicem; E. Poleggi, Strada nuova. Una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova 1972, ad indicem; F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino 1986, ad indicem; E. Otte, Il ruolo dei Genovesi nella Spagna del XV e XVI secolo, in La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, a cura di A. De Maddalena - H. Kellenbenz, Bologna 1986, pp. 31, 34 s., 43-45; A. Pacini, I presupposti politici del "secolo dei Genovesi": la riforma del 1528, in Atti della Soc. ligure di storia patria, n.s., XXX (1990), ad indicem; F. Caraceni, Una strada rinascimentale. Via Garibaldi a Genova, Genova 1992, pp. 141 s.; G. Doria, Nobiltà e investimenti a Genova in età moderna, Genova 1995, p. 16; M.R. Moretti, "In lode et gloria d'alcune signore et gentildonne genovesi": Gasparo Fiorino e l'aristocrazia genovese, in Villanelle napolitane canzonette. Relazioni tra Gasparo Fiorino… e scuole italiane del Cinquecento, a cura di M.P. Borsetta - A. Pugliese, Vibo Valentia 1999, pp. 408, 412, 417, 423; C. Galiano, La musica e il mondo in Italia durante il Rinascimento: sistema della dedica e modelli… nelle Villanelle e Canzonelle di Gasparo Fiorino, ibid., pp. 562, 564; A. Pacini, La Genova di Andrea Doria nell'Impero di Carlo V, Firenze 1999, ad indicem.