MALEBRANCHE, Nicolas de
Nato a Parigi il 6 agosto 1638, ivi morto il 13 ottobre 1715. Nel 1660 entrò nella congregazione dell'Oratorio e nel 1664 fu ordinato prete. Appassionatosi agli studî filosofici, vide nel Descartes il vero filosofo del cristianesimo, lo sterminatore dell'ateismo e del materialismo. La sua attività di scrittore cominciò nel 1674, con la pubblicazione del 1° volume della Recherche de la vérité. Ad acerbe polemiche (col Bossuet, col Fénelon, con A. Arnauld) diede occasione il suo Traité de la nature et de la grâce (1680). Del 1683 sono il Traité de morale e le Méditations chrétiennes; del 1688 gli Entretiens sur la métaphysique et la religion. Il Traité de l'amour de Dieu (1697) combatte le dottrine "quietiste" a cui si era avvicinato il Fénelon, seguendo criterî analoghi a quelli del Bossuet. Le conversazioni avute con un vescovo missionario in Cina lo indussero a pubblicare l'Entretien entre un philosophe chrétien et un philosophe chinois sur l'existence de Dieu (1707). Ultima sua opera furono le Réflexions sur la prémotion physique (1714).
La caratteristica fondamentale della filmofia e della teologia del M. si trova nell'intima unione di un razionalismo dell'intelligibilità assoluta con un misticismo della passività assoluta della creatura, in relazione a Dio come a unica causa efficace. Si comprende perciò come a taluni egli sia potuto apparire più rigorosamente razionalista del Descartes, in quanto eliminava dalla sua dottrina le tesi volontaristiche (e specialmente la tesi che anche le veritates aeternae dipendano da un decreto della libera volontà divina, antecedente perciò ad ogni razionalità e necessità); ma ad altri invece sia apparso più mistico del Descartes, in quanto toglieva ogni aspetto di attività alle creature, e specialmente quella libertà efficace positiva del volere umano, che ne fa in certo modo una causa sui, di fronte allo stesso Dio (sebbene anche il Descartes ammetta per fede il mistero della prescienza e della predestinazione).
Quando si trattava di determinare il rapporto fra il senso e il pensiero, il razionalismo del Descartes si limitava ad affermare risolutamente il primato del pensiero, con le sue idee chiare e distinte; le sensazioni sarebbero invece soltanto idee oscure e confuse; v'era in ogni modo fra i due ordini (come vi sarà anche secondo il Leibniz) una certa continuità. Il M. invece nega che vi siano idee oscure e confuse, e toglie alla sensazione ogni carattere veramente conoscitivo; essa è soltanto una "modificazione" e serve come una specie di "segnalazione" per avvertire e guidare l'uomo nella sua condotta, preavvisandolo, specialmente, di certi pericoli. Distingue perciò il M. tre gradi di conoscenza, l'ultimo dei quali però non può dirsi conoscenza se non in senso molto largo e impreciso: 1. conoscenza di una cosa per mezzo della cosa stessa; 2. conoscenza di una cosa per mezzo dell'idea; 3. conoscenza o coscienza di noi stessi, e delle nostre modificazioni (non come "oggetti" da noi distinti, ma proprio come "noi stessi in quanto modificati"). La prima forma di conoscenza è quella per cui conosciamo i corpi (cose distinte dall'anima che le conosce, e che di per sé stesse sono inconoscibili); la terza quella per la quale la nostra anima ha una "coscienza", un "sentimento interiore" di sé stessa, una certezza immediata del proprio esistere a cui non si accompagna nessuna rivelazione della sua propria essenza (il che è del resto opportuno, sotto l'aspetto mistico, perché l'anima non s'insuperbisca della propria eccellenza sul mondo corporeo, e non si compiaccia peccaminosamente di sé).
La conoscenza per idee costituisce quindi la sola scienza propriamente umana; ed essa è possibile solo per il mondo corporeo, in quanto si presenta come estensione, e rapporti di grandezza; secondo la tesi cartesiana (collegata entro certi limiti con quella dell'antico atomismo) che l'estensione (e le proprietà o relazioni di questa) presenti tutto quanto vi è d'intelligibile nei corpi come loro reale essenza; mentre gli aspetti qualitativi (le cosiddette proprietà sensibili: colore, suono, ecc., che il Locke chiamerà poi qualità secondarie) sono soltanto modificazioni del soggetto senziente.
Ma nel concetto che il M. si forma dell'idea (a differenza di quello che era avvenuto nel Descartes) prevale la nozione platonica del modello o archetipo a quella aristotelico-scolastica di mezzo rappresentatívo. Lungi perciò dal potersi dire (come diceva il Descartes) che l'essere dell'idea nella mente sia un "être objectif", di grado inferiore all'"être formel" che è proprio della cosa com'è in sé stessa; si deve ritenere che l'idea costituisce la forma più alta, "esemplare" di essere, di cui la cosa è soltanto partecipazione. Molto superiore ai corpi che mediante essa sono conosciuti, l'idea è molto superiore anche all'anima che la pensa o la percepisce; non è una parte né una modificazione di essa, ma un oggetto che le s'impone, e che resiste a qualunque sforzo essa faccia per alterarne l'essenza eterna, immutabile, suprema. Non possono quindi, le idee, né essere prodotte dai corpi che agiscono sull'anima, né dall'anima stessa (dalla quale invece sono e si manifestano affatto indipendenti); arbitraria, e sorgente d'innumerevoli difficoltà, è la supposizione che siano innate nell'anima. Rimane la tesi (visione delle cose in Dio) che il M. infatti sostiene: che le idee pensate dall'uomo siano le stesse idee divine, i supremi archetipi, gli esemplari contenuti nel Verbo, e secondo i quali furono create tutte le cose. Queste idee sono poi la stessa essenza divina; non com'è in sé stessa, ma in quanto è imitabile dalle creature, e più precisamente dai corpi. Ogni natura corporea determinata, ogni figura geometrica, rappresenta un modo particolare dell'imitabilità divina, dal punto di vista dell'estensione; una "limitazione" in quella che il M. chiama "estensione intelligibile" e che appunto si trova in Dio. Questa teoria diede luogo a discussioni e a polemiche contro quelli che credevano doversi questa dottrina del M. sostanzialmente identificare con quella dello Spinoza, che faceva dell'estensione un attributo divino.
Ma la teoria forse più comunemente nota del M. è quella dell'occasionalismo, o delle cause occasionali. Essa non va ricollegata soltanto col dualismo cartesiano di anima e corpo, che non consente di concepire la possibilità di un'azione reciproca fra le due sostanze; neppure soltanto con la riduzione del corpo a estensione, nella quale ultima non si trova intelligibilmente inclusa nessuna forza, potenza, virtualità, o simili. Poiché l'efficacia causante, il potere produttivo reale, è dal M. negato alle creature tutte: non soltanto ai corpi, non soltanto all'anima e al corpo nelle loro relazioni reciproche, ma anche all'anima sopra sé stessa e sopra i suoi proprî stati (anche l'attenzione è una preghiera a cui Dio fa seguire l'effetto; non uno sforzo efficace). Piuttosto la dottrina ha la sua sorgente nel razionalismo dell'intelligibilità assoluta, a cui s'è sopra accennato. Di una vera causa si può parlare soltanto se nell'idea della causa si manifesta evidentemente inclusa l'idea dell'effetto, come nel principio è logicamente inclusa la conseguenza; in modo che appaia assolutamente contraddittorio il pensare la causa senza l'effetto. C'è dunque nel M. un'identificazione che riesce veramente solo quando il concetto della causa s'identifica con quello della volontà onnipotente, e cioè della Divinità. Efficacia e onnipotenza sono dunque per il M. due termini che designano una stessa cosa.
Il carattere razionalistico della filosofia del M. si rivela ancora tuttavia nel suo modo di affermare e interpretare la necessità delle leggi di natura, pur dopo avere negato l'efficacia delle cause naturali; nella razionalizzazione che egli riesce a fare, in altri termini, di una teoria che parrebbe aprire la via al misticismo del più incontrollabile e imprevedibile arbitrio divino. Il M. afferma cioè che Dio agisce sempre per volontà generali, e mai per volontà particolari, e sceglie sempre le vie più semplici. Stabilisce una volta per sempre che certi movimenti corporei e certe modificazioni delle anime debbano seguirsi secondo un certo ordine; e a questo ordine non deroga mai, essendo questo la píù alta manifestazione della sua gloria.
Edizioni: L'edizione completa delle opere del M., in 11 voll., 1 del 1712 (Parigi). Edizioni recenti si hanno di singole opere: p. es., della Recherche de la vérité (ed. Bouillier, Parigi 1880); degli Entretiens sur la métaphysique (ed. Fontana, Parigi 1922); delle Méditations chrétiennes (ed. Gouhier, Parigi 1928); del Traité de morale (ed. Joly, Parigi 1882); del Traité de l'amour de Dieu (ed. Roustan, Parigi 1922).
Bibl.: L. Ollé-Laprune, La philosophie de M., Parigi 1870-72; F. Pillon, L'évolution de l'idéalisme au XVIIIe siècle: M. et ses critiques, in Année philosoph., 1893, 1894, 1896; V. Delbos, Étude sur la phil. de M., Parigi 1924.