VIVENZIO, Nicola Maria
– Nacque a Nola il 28 gennaio 1742 da Felice e da Teresa Mauro (o di Mauro) dei baroni di Palma, secondogenito maschio di dodici figli.
Come il fratello maggiore Giovanni (v. la voce in questo Dizionario), studiò dapprima in famiglia, poi a Napoli, dove si addottorò in diritto nel 1762. Esercitò per molti anni l’avvocatura, per poi percorrere una rapida carriera fino ai vertici della magistratura, grazie anche all’influenza del padre e, soprattutto, del fratello Giovanni, medico del re e della regina oltre che protomedico del Regno. Nel 1783 giudice della Gran Corte della Vicaria, l’anno seguente divenne presidente della Camera della Sommaria, avvocato fiscale dello stesso tribunale e della Giunta di corrispondenza, organo preposto a rivedere conti e giudizi della Cassa Sacra creata per amministrare i beni dei conventi soppressi a seguito del terremoto calabrese. Nel maggio del 1784 fu inviato in Calabria come assessore del vicario generale Francesco Pignatelli. Fu anche avvocato fiscale della Suprema Giunta degli Abusi, incaricata di vigilare sugli abusi degli ecclesiastici, e presidente del tribunale di Ammiragliato e Consolato, istituito nel 1783 per le cause in materia di commercio marittimo.
Esercitò la delicata carica di avvocato fiscale applicando una concezione rigorosa della sovranità regia, contro le tendenze a privatizzare diritti giurisdizionali, rendite fiscali, usi di strade e terre appartenenti al patrimonio dello Stato o delle comunità, diventando un protagonista del riformismo borbonico. Nel 1787 promosse l’affitto sessennale degli erbaggi del Tavoliere di Foggia appartenenti al Fisco. Nel 1789, in qualità di sopraintendente alla città di Brindisi, varò un piano di riforme che andava dalla riorganizzazione dell’amministrazione locale e del carico fiscale, alla censuazione dei terreni incolti dei luoghi pii e allo sviluppo del porto. Grazie alla sua Rappresentanza a Sua Maestà il Re nostro Signore per l’abolizione de’ dritti di passo che si esigono nelle strade del Regno (Napoli 1790), in cui sostenne che solo al sovrano spettavano «la cura delle pubbliche strade, e la pubblica sicurezza» (p. 15) e che in questa materia non si poteva vantare nessuna antica concessione, nel 1792 furono soppressi i pedaggi pretesi dai baroni.
La Rappresentanza dell’avvocato fiscale della Suprema Giunta degli abusi per l’esecuzione della legge di ammortizzazione del 1770 (s.n.t., ma 1790) promosse una più rigorosa applicazione delle leggi che dovevano impedire nuove concessioni di beni ai luoghi pii. Nel 1791 pubblicò la Rappresentanza [...] per l’arrendamento delle grana quindeci a staro d’olio: in base al principio che il sovrano poteva cedere l’esercizio, ma non il dominio delle sue regalie, cioè dei diritti che gli appartenevano, sostenne la ricompra degli arrendamenti, cespiti fiscali che erano stati alienati o appaltati a privati. Nel 1792 fece sopprimere le doganelle di Tagliacozzo, la cui amministrazione era diventata centro di vessazioni e malversazioni sui possessori di pecore e sui pastori d’Abruzzo. Nel 1793 fece limitare la giurisdizione feudale ecclesiastica, esigendo la presentazione dei titoli originali di possesso. Come scrisse un suo biografo, l’«intemerato Fiscale del Sacro Patrimonio di S.R.M.» già alla fine del 1788 era «ben noto al Re, ed al Pubblico per lo zelo imparziale, e per l’amore in ver de’ poveri litiganti, o col Fisco, o co’ Baroni» (Mazzarella da Cerreto, 1819).
Vicino a illuministi meridionali come Gaetano Filangieri e Mario Pagano, nei suoi scritti e nella sua azione è forte l’impronta del pensiero di Antonio Genovesi, in particolare nella lotta alla proprietà ecclesiastica. Ma non condivise le loro più radicali proposte in materia feudale e contrastò con tenacia i progetti di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, intendente generale dei beni allodiali, di rivendere in piena proprietà privata i feudi devoluti, cioè rientrati alla corona per mancanza di successori in linea feudale, come stabilito con risoluzione regia del 30 maggio 1791.
Per questo fece scalpore la sua allegazione sul Dritto del Fisco sul feudo di Arnone, pubblicata nel 1794, volta a rivendicare al patrimonio regio i beni feudali del principe della Riccia, morto nel 1792, contro le pretese del principe di Bisignano Tommaso Sanseverino. Il caso singolo divenne occasione per ridiscutere alla radice la natura della politica antifeudale della monarchia borbonica. Nell’allegazione, ancorata a estese ricerche di documenti d’archivio (molti dei quali riprodotti in appendice), svolse le sue argomentazioni giuridiche sulla base di ampie ricognizioni storiche e della principale storiografia settecentesca sul Medioevo, da Muratori a Robertson a Montesquieu. Fonti archivistiche e storiografia gli permisero di difendere il ritorno a un diritto feudale depurato da letture e usi arbitrari, ma comunque intoccabile (Rao, 1997, pp. 275-384).
Lo scoppio della Rivoluzione francese e l’entrata in guerra contro la Repubblica della monarchia napoletana inasprirono il conflitto tra i sostenitori di una via riformatrice basata sulla rigida applicazione del diritto preesistente, come Vivenzio, e i sostenitori di un radicale riassetto dello Stato sulla base di una nuova legislazione, come quello che aveva auspicato Filangieri. La monarchia borbonica assunse posizioni di netta reazione contro qualunque innovazione, e nacquero i primi club cospirativi filofrancesi. I Vivenzio videro coinvolti nelle congiure scoperte e represse a Napoli nel 1794-95 il loro stesso nipote, Vincenzo Russo, che proprio l’intervento di Nicola sottrasse alla dura repressione regia.
Nel 1796 pubblicò presso la Stamperia simoniana un altro importante intervento in materia feudale, Del servizio militare de’ baroni in tempo di guerra, in cui sostenne la necessità di un contributo straordinario dovuto dai signori feudali in tempi di guerra. L’opuscolo sollevò le vibrate proteste di Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa che, alla fine del 1796, nell’Epistola ovvero riflessioni critiche sull’opera dell’Avvocato fiscale D. Nicola Vivenzio intorno il servizio militare dei baroni in tempo di guerra, contrappose alle sue tesi una vera e propria apologia del baronaggio e del suo ruolo di difesa del trono e dei sudditi. Vivenzio sferrò un nuovo attacco antibaronale in una memoria del 6 settembre 1796 sul valimento, l’imposta dovuta dai feudatari forestieri.
Nello stesso anno uscirono le Considerazioni sul Tavoliere di Puglia, in cui Vivenzio propose una soluzione radicale alla questione plurisecolare delle terre del Foggiano gestite direttamente dall’erario regio per contemperare ragioni agricole e ragioni pastorali: darle a censo ai coloni. D’ispirazione genovesiana era la considerazione della proprietà come base principale dello sviluppo economico e della redditività agricola: «La ripartizione delle terre fra un più gran numero di possessori presso tutte le nazioni, ed in ogni tempo si è riputata sempre la cagion principale della loro potenza, e della ricchezza loro [...]; tutti quelli, che niente possiedono, siccome non hanno alcun interesse, né amore per la patria loro, così non possono più strettamente attaccarsi allo Stato, che per la proprietà delle terre, che loro si dia» (p. XXXIV).
Nominato marchese nel 1797, nella primavera dello stesso anno accompagnò nel suo viaggio in Puglia Ferdinando IV, in occasione delle nozze del figlio Francesco con Maria Clementina d’Austria, celebrate a Foggia il 27 giugno. In maggio fu a Brindisi a ispezionare i lavori di bonifica e riassetto del porto: nella Descrizione e Iscrizione del nuovo Porto di Brindisi riportò il testo dell’iscrizione scritta sull’obelisco eretto per la visita del re.
In nome della fedeltà alle istituzioni e non certo per adesione ai principi repubblicani Nicola, a differenza del fratello Giovanni, restò al suo posto dopo la proclamazione della Repubblica napoletana nel gennaio del 1799, scrisse una memoria sull’abolizione della feudalità e continuò a difendere le comunità contro gli abusi baronali (Rao, 2012, p. 199). Rischiò per questo di cadere in disgrazia, come il 28 luglio osservò il diarista Carlo De Nicola: «Il marchese Vivenzio è stato anche per cadere a causa del discorso da lui stampato circa l’abolizione dei feudi, ma sento che siasi giustificato nell’animo del Re» (1906, I, p. 261). Lo stesso De Nicola riferì del saccheggio subito da Vivenzio il 13 giugno nella sua casa nel palazzo del principe di Monteleone, con gravi danni per la sua «bellissima raccolta» di «carte e quadri» (pp. 208 e 421). Un nuovo incendio, di origine imprecisata, colpì il palazzo e il suo appartamento nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1800.
Restaurata la monarchia, non solo conservò l’incarico di presidente del tribunale dell’Ammiragliato e del Supremo magistrato del Commercio, ma il 5 agosto 1799 fu promosso alla carica suprema di luogotenente della Camera della Sommaria. A riprova del suo lealismo monarchico, insieme al fratello Pietro (v. la voce in questo Dizionario) partecipò attivamente alle celebrazioni nolane per la caduta della Repubblica. Scrisse le iscrizioni sulla croce eretta nella città dopo il 13 giugno, pubblicate nel 1800 dalla Stamperia reale (Per la solenne dedicazione della Croce nella città di Nola, in memoria della restituita felicità del Regno). Celebrò nel 1802 il ritorno della famiglia reale (Per lo fausto ritorno del Re signor nostro, pubblico uffizio di rispetto e riconoscenza della città di Nola).
Riprese a scrivere e a operare contro la giurisdizione baronale, come attestato dalla Memoria sull’abolizione della giurisdizione baronale e dei diritti proibitivi e personali, rimasta manoscritta, ma databile tra la fine del 1799 e i primi del 1800. In un’altra memoria, datata 28 marzo 1800, riprese la questione della manutenzione del porto di Brindisi (Rao, 1997, p. 337). Ai primi del 1800 fu messo a capo della giunta incaricata di rivedere i conti dell’Amministrazione dei beni dei rei di Stato. In difesa delle comunità pubblicò la Rappresentanza al re per le Università dello stato cassinese (s.d., ma 1802).
Per il suo costante impegno antifeudale fu così celebrato da Vincenzo Cuoco nella prima edizione del suo Saggio storico (1801): «Vivenzio, sia che amasse la patria, perché era democratico; sia che meritasse di esser democratico, perché amava la patria, seppe valersi e dell’opinione pubblica, e del favore, di cui godeva presso il re, per scuotere dalle radici l’albero antico, che nato nelle selve della Germania, avea coi suoi rami ingombrata tutta la terra. In due altri anni di tempo, Vivenzio ne avrebbe lasciato a pena la memoria» (Cuoco, 1801, 1988, p. 78).
Tornati i francesi nel 1806, a differenza di altri funzionari borbonici che si integrarono nell’amministrazione napoleonica, Vivenzio scelse di rimanere ai margini della vita politica, benché nominato nel 1807 nella sezione del Comitato di legislazione che doveva discutere la formazione dei nuovi tribunali. Si dedicò pienamente agli interessi storici e antiquari che aveva sempre coltivato, ma manifestandoli solo nei suoi scritti giuridici e amministrativi. Oltre alle raccolte vascolari finanziate per il Museo nella casa paterna, affidato al fratello Pietro, anche nella sua casa di Napoli alla calata della Trinità Maggiore, nel palazzo dei principi di Monteleone, ebbe una raccolta antiquaria.
Nel 1808 pubblicò presso la Stamperia simoniana Delle antiche provincie del Regno di Napoli e loro governo. Dalla decadenza dell’Imperio romano infino al re Manfredi.
Basata su una concezione della storia come strumento indispensabile di conoscenza e dunque di governo, purché esposta sulla base di «autentici monumenti» (p. VI), l’opera ricostruiva le vicende della «propria nazione» (p. III), sottolineando la cesura prodotta dall’arrivo dei Normanni con l’introduzione della feudalità, ma anche l’importante azione di rigoroso controllo dall’alto esercitata dalla monarchia normanno-sveva.
Nel 1809 uscirono a Roma presso Francesco Bourlié le Lettere scientifiche di vario argomento, riedite a Napoli nel 1812 dalla tipografia di Angelo Trani. Nella dedica al celebre erudito romano abate Francesco Cancellieri, l’editore ricordava che l’autore, malgrado i suoi gravi impegni amministrativi, aveva sempre coltivato gli studi letterari e antiquari, come attestava il celebre Museo nolano. Dichiarava che il primo volume della storia Delle antiche provincie del Regno di Napoli era stato accolto con grandi elogi dai giornali letterari.
In dieci lettere, in maggior parte indirizzate a «rispettabilissime dame» (p. IV), Vivenzio scriveva di arti, scienze, antichità, storia sacra, ribadendo l’importanza della storia «come maestra della vita umana» (p. 118). Con toni vichiani trattava Dell’origine della favola, della poesia, e de’ romanzi; metteva a confronto Omero, Dante e Petrarca, le opinioni degli antichi intorno alla felicità, celebrava l’educazione spartana delle donne; affrontava le origini delle prime nazioni secondo la Genesi e i libri di Mosè, fieramente contestando le dottrine preadamitiche. Nella storia di Atene, piena di esempi dell’incostanza del governo del popolo, come le «statue erette e abbattute alternativamente», sembrava rievocare i recenti eventi napoletani; mentre nel confronto tra Socrate e Alcibiade additava la prova che un uomo senza virtù non può «diriggere i pubblici affari» (pp. 112-115). Chiudeva con due componimenti poetici sulla «ragione» e il «disinganno». Ostentava questo suo ritorno agli studi – «per molti anni ho tralasciato quegli studi, che tanto amai nella mia giovanezza» (p. 29) – praticato anche grazie alla quiete frequentemente ricercata e ritrovata a Nola, « per alcun tempo lontano dalle mie cure nella placida quiete di questa mia patria, e fra liete campagne, che spirano un aere pieno di vita» (p. 52): «aere nativo» che lo liberò anche «dal mal di stomaco» (p. 135), che lo aveva afflitto a Napoli. Con orgoglio ricordava, fra le sue attività amministrative, le opere di prosciugamento realizzate a partire dal 1785 nella provincia di Salerno. E informava il suo interlocutore, don Argimiro Lucci, che sarebbe andato in quei giorni «alla Sala» (Sala Consilina), nel Vallo di Diano, a dirimere le contese intorno al pascolo sulle montagne della comunità (Descrizione di tutte le opere che si sono eseguite nell’asciugare il Vallo di Diano, pp. 126-133).
Nel 1811 uscì nella Stamperia simoniana il secondo volume della sua storia di Napoli: Delle antiche provincie del Regno di Napoli e loro governo da Carlo I d’Angiò infino al re cattolico Carlo III.
Era una storia di lotte di fazioni, di continue concessioni al potere ecclesiastico e feudale, «onde gran parte della Nazione divenne soggetta a Baroni» (p. VI). Dopo il lungo governo viceregnale e i suoi «tristi effetti», «il Re Cattolico Carlo III venuto nel regno, dopo averlo restituito all’antico splendido stato di Monarchia [...] rendendolo ricco, e tranquillo, ne apparve quasi un nuovo magnifico fondatore» (p. VII).
A questa storia aggiunse un nuovo capitolo, il XV (pp. 330-350), in una nuova edizione pubblicata l’anno stesso della sua morte con il titolo Dell’istoria del Regno di Napoli e suo governo dalla decadenza dell’imperio romano infino al presente re (1816). Al regno di Carlo aggiungeva quello di Ferdinando IV, tratteggiato come un re riformatore, protettore della giustizia, delle leggi, delle arti e delle scienze. In realtà, il lungo elenco dei suoi meriti suonava come un’autocelebrazione di ciò che Vivenzio stesso aveva realizzato: riordinamento di «antiche pubbliche vie» e apertura di nuove strade, abolizione dei pedaggi, prosciugamento del Vallo di Diano, riattamento del porto di Brindisi, riorganizzazione delle terre del Tavoliere, divisione dei terreni demaniali delle Università (comunità) fra i «cittadini poveri» (pp. 332). Un quadro idilliaco, bruscamente guastato dagli «orridi mali prodotti dalla funesta rivoluzione di Francia», con la distruzione di «ogni sovranità, ed ogni giustizia, e religione» (pp. 333 s.). Il ritorno dei francesi nel 1806 aveva di nuovo sovvertito «tutto l’ordine del governo, e della pubblica amministrazione» (p. 335).
Riformatore accanito, ma tenacemente attaccato al passato, al suo tradizionalismo diede sfogo più organico nei Pensieri sul vero intorno alle cognizioni umane ed alla religione, pubblicati nel 1814 nella consueta Stamperia simoniana.
Indirizzati «ad un giovane suo nipote» che lo aveva interrogato su cosa si dovesse «giudicar come vero nelle scienze umane, e nella Religione», riprendeva alcuni pensieri in precedenza annotati sulla questione, in particolare sui filosofi greci e sulla «verità della nostra eterna religione» e poi lasciati da parte, «distratto sempre dalle cure del mio ministero, e dall’avermi per più anni dovuto occupare a scrivere la storia del nostro regno» (pp. 3 s.). Riprendeva osservazioni già sparse nelle Lettere scientifiche sull’anima, sulla felicità, sulla vichiana coincidenza di «verum» e «factum». Ma più esplicite erano qui la polemica antimaterialistica e la difesa della religione cristiana e della Chiesa cattolica contro «i nuovi orgogliosi increduli» (p. 51).
Pur privilegiando i suoi studi, non rimase estraneo alla pubblica amministrazione. Ancora nel maggio del 1815, chiamato a reggere interinamente il ramo delle Finanze, diede subito conferma di «fermezza» e di «vero spirito patriottico» cacciando dal ministero tutti i francesi e altri forestieri, nonché gli ecclesiastici, invitati ad attendere «al servizio degli altari cui si erano dedicati», e difendendo le prerogative dell’autorità civile contro i commissari militari (De Nicola, 1906, III, pp. 9, 13, 33, 40). Il 4 agosto, come presidente della Corte dei conti, fu chiamato a far parte della commissione incaricata dei nuovi codici, nella sezione per la compilazione del codice di commercio. A fine settembre fu nominato in una commissione addetta a verificare la conformità alle leggi del Regno delle norme su cui si erano basate le decisioni della Commissione feudale.
Ormai infermo, con testamento redatto il 7 agosto 1816 nella sua casa napoletana, divise i suoi beni (incluso il «Museo di vasi etruschi» a Nola) tra il fratello Pietro e le numerose sorelle ancora in vita. Al suo cameriere lasciò la metà dei suoi abiti e «due mesate». Diede disposizioni per la sua sepoltura nella chiesa di S. Giuseppe dei Nudi, alla cui confraternita era iscritto, e per la celebrazione di venti messe per la sua anima.
Morì a Napoli il 27 agosto 1816, pianto per la sua rettitudine e la sua fermezza, secondo De Nicola, dagli stessi baroni «che un tempo declamavano contro di lui» (De Nicola, 1906, III, p. 89).
Fonti e Bbibl.: Nola, Archivio storico diocesano, Libri Baptizatorum VIII, attualmente segnato 732, anni 1738-1749, f. 63 a tergo; Archivio di Stato di Napoli, Collegio dei dottori, 90/12; Esteri, 3546, memoria del 28 marzo 1800 su Brindisi, 4263, memoria del 6 settembre 1796 sul valimento; Ministero Finanze, f. 806 (contiene sue varie «rappresentanze» – esposti – al re); Finanze, f. 2356, Memoria sull’abolizione della giurisdizione baronale e dei diritti proibitivi e personali, pubblicata da Coppola, 1983, pp. 121-123; Giunta dei siti reali 1788-1802, B4, ff. 1-17 (contengono la sua corrispondenza come capo della giunta stessa); Amministrazione dei beni dei Rei di Stato, il fondo contiene numerose lettere, suppliche, corrispondenze. Il testamento è conservato nell’Archivio storico del Museo nazionale di Napoli, XXIII A4-16. Bandi a stampa emanati nell’esercizio delle sue funzioni sono nella Biblioteca nazionale di Napoli e nella Biblioteca della Società napoletana di storia patria.
V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, Milano 1801, a cura di F. Tessitore, Napoli 1988; S. Gallotti, Elogio del marchese N. V., Napoli 1817; A. Mazzarella da Cerreto, N. V., in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli Ornata de’ loro rispettivi ritratti compilata da diversi letterati nazionali..., VI, Napoli 1819, s.v.; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, rist. anast. Bologna 1967, pp. 374 s.; C. De Nicola, Diario napoletano 1798-1825, I-III, Napoli 1906, rist. a cura di R. De Lorenzo, Napoli 1999, ad ind.; P. Villani, Il dibattito sulla feudalità nel regno di Napoli dal Genovesi al Canosa, in Id., Saggi e ricerche sul Settecento, Napoli 1968, pp. 252-331; L. Ammirati, I fratelli Vivenzio di Nola (Giovanni, Nicola, Pietro), Nola 1980; M. Coppola, N. V.: un intellettuale burocrate tra Borboni e francesi, in Bollettino storico di Salerno e Principato Citra, I (1983), 1, pp. 117-123; A.M. Rao, La prima restaurazione borbonica, in Storia del Mezzogiorno, IV, Il Regno dagli Angioni ai Borboni, 2, Roma 1986, pp. 469-539; A.M. Rao, L’«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli 1997, ad ind.; Ead., I fratelli Vivenzio, in Nola fuori di Nola. Itinerari italiani ed europei di alcuni nolani illustri, a cura di T.R. Toscano, Nola 2001, pp. 207-236; Ead., «Questo è momento di travaglio, e non di riposo». Gregorio Mattei, Vincenzo Russo e la legge feudale del 1799, in Territori, poteri, rappresentazioni nell’Italia di età moderna. Studi in onore di Angelo Massafra, a cura di B. Salvemini - A. Spagnoletti, Bari 2012, pp. 193-212.