BADALONI, Nicola
Nacque a Livorno, il 21 dicembre 1924, da Roberto e Alma Baquis. La famiglia, ebraica dal lato materno, soffrì di forte isolamento dopo le leggi razziali del 1938, in particolare ne fu colpito il nonno medico oculista, Elia, che Badaloni considerò suo primo maestro. Fin da quegli anni si può datare il suo antifascismo che divenne pubblico e politico nei primi anni Quaranta.
Nicola (“Marco” per gli amici e i compagni di lotta) compì gli studi presso il liceo classico di Livorno dove conobbe Marcella Razzauti che sposò nel 1945 e da cui ebbe, nel 1950, la figlia Claudia. Entrambe ebbero un ruolo centrale nella sua vita e, nell’ultimo periodo, quando aveva ormai gravi problemi alla vista, rappresentarono un aiuto indispensabile per la continuazione del suo lavoro di ricerca e pubblicazione.
Badaloni si iscrisse nel 1941 alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Pisa, dove incontrò la lezione di Guido Calogero e della sua Scuola dell’uomo («un libro bellissimo»: sorta di introduzione all’impegno etico-politico e alla libertà), il cui insegnamento fu tuttavia di breve durata in quanto interrotto dall’arresto e dalla condanna al confino del professore. Successore sulla cattedra di storia della filosofia fu Cesare Luporini, con il quale il rapporto di militanza e il confronto politico e teorico rimasero un punto fermo in tutto il suo percorso. Altro importante riferimento, per il giovane fu Arturo Massolo per l’uso (sia pure con accenti e soluzioni diverse da Luporini) di temi esistenzialistici entro un’istanza di libertà e storicità. Ricordando questi due primi maestri, negli scritti loro dedicati, Badaloni invitava a rileggere a fondo i due testi che si trovano anche all’origine del suo filosofare: Situazione e libertà nell’esistenza umana (1942) di Luporini e Storicità della metafisica (1944) di Massolo. Nel primo «il politico e il prepolitico (cioè i condizionamenti e i presupposti della libertà) si saldano in una feconda sintesi. […] il fine che Luporini si propone è quello di rinnovare la nostra cultura nel contatto con le altre, non di creare il vuoto» (N. Badaloni, Esistenzialismo, libertà e marxismo in Cesare Luporini, in Critica marxista, n.s., II [1993], n. 6, p. 58 [pp. 57-64]); il secondo è una «intensa presa di coscienza del senso della nostra epoca […] questo scarno libretto scritto negli anni duri della guerra, e uscito alla luce in mezzo al fragore delle bombe, quando si andava preparando l'esplosione ancor più dolorosa della guerra civile» (N. Badaloni, Ricordo di Arturo Massolo, in Giorn. critico della filosofia italiana, XLVI [1967], vol. 21 [gennaio-marzo], p. 130 [pp.129-133]). Massolo, che insegnò al liceo di Livorno dal 1941-42 fino al 1943, nelle conversazioni con il giovane, affrontava con chiarezza antifascista, insieme con i temi centrali della Storicità della metafisica che andava scrivendo, temi politici e sociali di drammatica attualità. C’era in Massolo il senso della storia come contingenza e «la consapevolezza dell’incombere di un’inautenticità storicamente precisata» (Badaloni, Ricordo…, cit., p. 133). Per il giovane, era il primo incontro col tema centrale – cui rimarrà fedele in tutto il suo percorso – dell’emergenza della finitezza della discorsività umana e di una storicità liberata dai vincoli della metodologia crociana e, ancor più, dal peso dello «spirito assolutamente creatore» di Giovanni Gentile. Negli appunti di quegli anni, per definire polemicamente il pensiero come “atto puro”, Badaloni adoperò l’espressione “struzzo metafisico” «una espressione che ha fatto epoca, che ingoia in nome di una soggettività pura che esso rappresenta ogni essenziale esigenza della coscienza» (cfr. «Il problema speculativo del niente», ms. inedito: Livorno, Biblioteca Labronica, Fondo Nicola Badaloni). L’espressione apparteneva a Luigi Russo, i cui corsi di letteratura italiana furono seguiti nell’anno 1942-43 dal giovane Badaloni che trovava elementi filosofici nella sua critica letteraria contemporanea (cfr. L. Russo, La critica letteraria contemporanea, II, Bari 19543, p. 178 [1ª ed., ibid. 1942]). Degli anni universitari rimane una grande mole di appunti, alcuni temi organizzati in una serie di saggi filosofici – tuttora inediti – scritti, in particolare, nella parentesi di clandestinità a Calci (presso Pisa), tra l’ottobre del 1943 e l’aprile del 1944, in cui Badaloni analizzava criticamente le filosofie dominanti alla ricerca della “concretezza” passando attraverso il problema filosofico del nulla.
Con Luporini si laureò nel 1945 discutendo una tesi su «Retorica e storicità in Vico»: tuttavia la prima bozza di tesi poi abbandonata, di carattere teoretico, cui aveva lavorato, aveva al centro la retorica in rapporto alla politica. Retorica significava copertura della violenza e lontananza dalla storicità: si imponeva alle coscienze critiche una ricerca teorica capace di dar ragione alla concretezza e «domare le spinte irrazionali». Nella tesi di laurea si trova una forte valorizzazione di Giordano Bruno e della «sua incalzante passione di immanenza», contro i giudizi e i pregiudizi correnti: autore che, affettivamente, Badaloni considerò, con Marx, il suo autore. La tesi fu giudicata da Luporini di grande maturità, finezza, e di «amplissime letture spregiudicate e anche rare (Barth, e studiosi in parte dimenticati)» e densa dal punto di vista speculativo. Vico appariva colui che aveva risolto i problemi che Bruno aveva lasciato aperti dinanzi a sé.
Badaloni aveva affrontato alcuni tra questi problemi, in modo ancora più vigoroso e giovanilmente combattivo, anche in una cartella di materiali – parte dattiloscritti, parte manoscritti su quaderni, fogli e foglietti – e nel testo dattiloscritto, solo in parte pubblicato postumo, Itinerarium mentis in historiam et metaphysicam - Una poetica filosofica. Questo primo, ampio lavoro di carattere teoretico, aveva al centro i temi della retorica e del risentimento nel rapporto con la politica. Con un riferimento forte a Carlo Michelstaedter, discuteva criticamente le tesi di Gabriel Marcel, Max Scheler, Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger (quest’ultimo presente in quegli anni a Pisa nelle lezioni polemiche di Calogero e in quelle simpatetiche di Armando Carlini, oltre che nell’esperienza tedesca dello stesso Luporini).
Il richiamo del giovane Badaloni alla concretezza è pressante e assume carattere valoriale e di lotta contro «un culturalismo che sta morendo»: «la civiltà vive ugualmente non più come sterile fondazione di un arcadismo che non è, ma come strenua accettazione di un mondo che vive di pane e non di vuote parole, che vuole risolvere problemi reali (economici, sociali, politici)» (v. Itinerarium mentis in historiam et metaphysicam - Una poetica filosofica, in Critica marxista, 2015, n. 5, p. 53 [pp. 49-59]). Badaloni esprimeva il proprio pensiero inattuale criticando l’identificazione valore uguale vita come “idealisticamente concepita”: «noi predichiamo la morte della morale, come sistema della sicurezza di sé nel rapporto alla legge, noi predichiamo l’essere dell’uomo nella paradossalità della sua situazione, noi siamo dei nichilisti; tutto ciò è vero. Ma per noi non si è disseccata la fonte della vita, noi non ci siamo ancora inariditi» (ibid., p. 51). La ricerca, nella distruzione di una mentalità e di un’epoca storica, era quella dell’«uomo nuovo», capace di costruire una «nuova storicità, che è nuova realtà e non sogno […]. Noi non vogliamo più l’amore, frutto di risentimento, fosse pur esso l’amore di un Cristo, noi vogliamo ora l’amore nella socialità, l’amore che si concreta in riforme economiche e sociali […]. Vogliamo la vita resa possibile nella comunanza del lavoro» (ibid., p. 53). Non mancava una divertente, amara pagina (non ripresa nella parziale pubblicazione postuma) in cui Badaloni tratteggiava il ruolo giocato dal ridicolo nella caduta del fascismo e l’acquiescente, comoda accettazione da parte di intellettuali che si limitavano “al motto o all’alzata di spalle”. Questi venivano paragonati al negligente, accidioso Belacqua del Purgatorio dantesco. I testi giovanili sono essenziali per conoscere quel crogiuolo incandescente di passioni civili e culturali caratterizzarono non solo l'inizio ma l’intero percorso di Badaloni.
Assistente volontario alla cattedra di storia della filosofia nel 1947-48, Badaloni insegnò storia e filosofia come supplente al liceo scientifico di Livorno dal 1945 al 1949, anno in cui vinse il concorso per l’insegnamento nella scuola media. Continuò, tuttavia, a insegnare filosofia presso il liceo scientifico di Livorno fino al 1954, quando, vinto un nuovo concorso, insegnò nei licei classici di La Spezia e Livorno. L'interesse per la didattica è mostrato, tra l'altro, anche dalla pubblicazione per Laterza, di una Storia della pedagogia in tre volumi per le scuole superiori (I-III, Bari 1966-68, in collab. con Dina Bertoni Jovine).
Nel 1946 riprese a occuparsi di Vico su cui pubblicò, nella neonata rivista Società, un articolo dal titolo Umanesimo e neoplatonismo nelle orazioni vichiane” (in Società, I [1946], n. 5, pp. 214 s.) che Croce, pur nella critica di parte verso la rivista marxista, valorizzò come «indagine accurata», espressione di «mera cultura e di scienza» (cfr. Quaderni della critica, 1946, n. 5, p. 115). In Società Badaloni pubblicò, negli anni successivi, altri articoli su Vico e varie recensioni. Parallelamente prese corpo l’impegno politico: assessore al Comune di Livorno dal 1951, divenne poi l’amato sindaco “filosofo”, successore dello storico Furio Diaz, dal 1954 al 1966 quando – vincitore di concorso – fu chiamato a insegnare storia della filosofia, dapprima nella facoltà di lingue, quindi, nel 1967, in quella di lettere dell’Università di Pisa. Nel 1947-48 era stato assistente volontario di storia della filosofia, nel 1956 aveva ottenuto la libera docenza e negli anni accademici successivi aveva tenuto due corsi liberi della stessa materia. Dal 1958-59 insegnò come incaricato di pedagogia presso la facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Pisa fino al concorso, vinto, di storia della filosofia.
Badaloni fu il sindaco della ricostruzione di una città devastata dalla guerra, dai bombardamenti e in piena emergenza. I problemi andavano dallo sviluppo economico della città portuale, con attenzione all’ambiente e alla salvaguardia delle coste, alla scarsità dell’acqua potabile, alla ricostruzione delle abitazioni con particolare attenzione alle case popolari e a scuole e asili per l’infanzia. Nutrì sempre grande affetto e fiducia nella popolazione di Livorno, nei ceti proletari, nella “lunga e gloriosa tradizione storica” fortemente democratica, tema che torna continuamente nei suoi discorsi ufficiali. L’impegno politico e di amministratore di Badaloni denotava come il suo antifascismo non fosse solo una scelta culturale: «La mia scuola di antifascismo fu a Livorno, attraverso legami con personaggi che avevano rapporti col partito comunista e con l’antifascismo clandestino […] partecipavo a riunioni dei miei amici iscritti al partito comunista e mi sentivo partecipe di un’aura cospiratoria» (v. la bella intervista Filosofia, marxismo, impegno politico raccolta da Vittoria Franco in più sedute nel maggio 1998, poi pubbl. in Iride, XII [1999], n. 26, p. 16, [pp.13-62]). A Livorno si sviluppò la sua attività politica e culturale degli anni Cinquanta. La Livorno che gli apparteneva era la città nata come «porto franco»: città di immigrazione e di tolleranza (la costituzione del 1593 concedeva libertà di residenza anche agli ebrei), città di movimento e incontri, crocevia culturale e soprattutto città proletaria, di ceti popolari legati alle attività del porto.
Nel prezioso lascito alla biblioteca Labronica, voluto dalla moglie Marcella e dalla figlia Claudia, vi è molto materiale che riguarda la sua attività di sindaco (discorsi pubblici per ricorrenze quali il centenario dell’Unità d’Italia, schemi di interventi, appunti per riunioni e convegni di economia, e via enumerando) che testimonia come il compito di amministratore, tenuto con grande competenza, avesse sempre presente e tenesse sempre fermo il retroterra storico-culturale della sua Livorno e di come Badaloni avesse a cuore e cercasse sempre la soluzione ai problemi dei più deboli. Tra gli altri si conserva il manoscritto e dattiloscritto (inedito) del discorso tenuto da sindaco in occasione della visita del presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, cui venne conferita la cittadinanza onoraria. Fu un’occasione per ribadire la forza di una tradizione democratica – «dalla difesa popolana di Livorno nel maggio del 1849» al respingimento del «minaccioso colpo di stato del 1898» – che vide l’unità di forze sociali e politiche nella lotta per la libertà. «Furono questi uomini che seppero dare il loro contributo nella lotta contro il fascismo, quando la tirannide divenne per il nostro paese una incombente realtà».
Alla storia di Livorno e dei movimenti sociali e politici in Toscana nell’Ottocento, Badaloni dedicò puntuali e pionieristiche indagini, condotte in buona parte negli archivi toscani su materiali inediti, fin dagli anni Cinquanta (il primo articolo, Struttura sociale e lotta politica a Livorno negli anni 1847-49, apparve in Società, VI [1950], n. 3). Studiarne i movimenti molecolari economici e sociali, i rapporti dei ceti popolari, delle loro condizioni e delle loro rivolte con l’impegno di intellettuali democratici come Domenico Guerrazzi o di saint-simoniani come Carlo Bini (protagonista d'una vera e propria riscoperta e nuova definizione: «ha antenne che colgono la modernità») era un modo, da un lato, di ritrovare la genesi storica di fenomeni e situazioni che andava a incontrare anche come amministratore, e, dall’altro, di evidenziarne il significato specifico all’interno della storia italiana ed europea. Le figure che emergono nella loro complessità e movimento sono ritratti, vivi nelle loro passioni, di Livornesi definiti dal Guerrazzi «calde, spensierate e generose nature». Tali studi furono poi raccolti e sviluppati in Democratici e socialisti livornesi nell'Ottocento (Roma 1966), in cui Badaloni presentava una Toscana ben diversa da quella tratteggiata e idealizzata da Gentile nel suo Gino Capponi e la cultura italiana del secolo decimonono. I saggi sono dedicati alle agitazioni e lotte politiche a Livorno negli anni 1847-49, ai guerrazziani e saint-simoniani e al pauperismo, al pensiero politico di Guerrazzi dal 1853 al 1873 e infine ad anarchici e socialisti livornesi e pisani (1873-94). Lo scopo era quello di portare alla luce la storia di classi e gruppi subalterni, prendendo in considerazione i loro comportamenti, le acquisizioni culturali e organizzative, collocandoli nell’ambito della storia italiana e dei rapporti internazionali. Questi temi furono ripresi e continuati in Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926 (Roma 1977, in collab. con Franca Pieroni Bortolotti).
Badaloni partecipò, da protagonista, alla svolta nella storiografia e nella metodologia filosofica italiana intorno agli anni Cinquanta. Risale al 1955 la sua ricostruzione del pensiero di Giordano Bruno che si basa su una valutazione storica di ciò che il Nolano ha rappresentato nel mondo scientifico e nell'ambiente sociale della sua epoca, un Bruno “filosofo” contro le semplicistiche, riduttive e fino ad allora codificate visioni. A Bruno Badaloni ha dedicato numerosi saggi e, in un secondo volume (Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica, Bari 1988), una rilettura, complementare alla prima, di alcuni temi centrali. Le fonti, minuziosamente ricercate, accompagnano negli anni una ricerca che vuole comprendere il senso del moderno. Badaloni analizza le molteplici componenti di cui è intessuta l'opera di Giordano Bruno, dai giovanili scritti lulliani fino alle opere latine della maturità in cui sintetizza atomismo e averroismo. E questo a partire da quel Rinascimento «inquieto» che tanto lo appassionava e che ha definito, una volta, «confuso crogiuolo del nostro moderno modo di pensare» (N. Badaloni, Tommaso Campanella, Milano 1965, p. 347): epoca di energia e rinnovamento culturale e sociale. La centralità del Rinascimento si lega all’interesse per la genesi e la formazione – seguite nei movimenti molecolari e negli indizi più nascosti – più che per la forma finale di un pensiero o di una scienza, spesso restituite cristallizzate e quasi senza storia. Importante anche l’edizione e la valorizzazione della Cabala del cavallo pegaseo (Palermo 1992) di Bruno, visto come parte integrante del suo progetto di riforma e in rapporto di stretta continuità con lo Spaccio. In questo testo il tema dell’asinità diventa centrale per una analisi critica del secolo (pubblicato nel 1994 anche in traduzione francese nell’ambito dell’edizione delle Oeuvres complètes). Ma corre l'obbligo di ricordare anche il significativo, lungo articolo pubblicato in rivista all'Avana, nell’anno II della rivoluzione (in Instituto nacional de Reforma agraria [Cuba], giugno 1961) su Bruno quale acceso combattente contro il fanatismo, attraverso il cammino della ragione, per una nuova concezione laica e razionalista del mondo. Anche all’altra grande figura del Rinascimento, Tommaso Campanella, Badaloni dedicò le sue fruttuose ricerche attraverso la lettura diretta di manoscritti in biblioteche italiane e straniere, liberando il suo pensiero da interessi ideologici e vedendo a fondo il ruolo del suo ecumenismo e della umana, libera, capacità di dominare magicamente la natura (Tommaso Campanella, Milano 1965). L’universalità proposta ne La città del Sole, vuol mettere in luce ciò che sta alla base non di singoli popoli, ma delle condizioni di esistenza dell’uomo in generale. La vita drammatica di Campanella testimonia lo scontro tra la nuova filosofia, le sue istanze sociali, e l’autoritarismo dominante.
A Vico, che era stato oggetto del lavoro di tesi, Badaloni tornò più volte offrendo una prospettiva del tutto nuova alla formazione e allo sviluppo del suo pensiero filosofico. Il grosso volume Introduzione a G.B. Vico (ibid. 1961) per una buona metà è dedicato al mondo culturale e alle discussioni che danno ragione delle posizioni di Vico, tòlto da quella astratta solitudine, che ne faceva, nella letteratura critica neoidealistica, un isolato pensatore preromantico. Quindi un’attenta e scrupolosa analisi del variegato mondo culturale napoletano, un’indagine che va dai Lincei agli investiganti del cui metodo sperimentale la filosofia di Vico viene interpretata come «un aggiornamento sul piano della filosofia civile». Su Vico ritornò in più saggi e nella collana Laterza di introduzione ai Filosofi (Vico, Roma-Bari 1984). Quello di Badaloni era, nel tempo, un lavoro continuo che tornava ad arricchire il contesto e le prospettive su Bruno, Campanella e Vico. Notevole, altresì, lo studio Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire (Milano 1968) che ci ha restituito un Conti letteralmente “inedito”: una vera e propria riscoperta attraverso un assiduo lavoro in archivi e biblioteche su carte, abbozzi, lettere, materiali confusi, in buona parte inediti, che hanno permesso di ricollocare l’abate – già visto come “camaleonte, newtoniano a Londra, leibniziano a Parigi”– come una «figura chiave sottilmente sfumata, necessaria per una ridefinizione della cultura filosofica e scientifica in Italia» (P. Casini, L'abate Antonio Conti tra Newton e Voltaire, in Paese sera-Libri, 6 febbraio 1970). Nel 1972 Badaloni pubblicò una raccolta di Scritti filosofici di Conti (in massima parte inediti, conservati presso la Biblioteca comunale di Udine) e di lettere conservate per lo più presso la Biblioteca comunale di Livorno. Del resto questo fu un grande merito dei lavori di Badaloni: ciò che spesso veniva dato come isolato, genio anzitempo e precursore o trascurato minore, veniva poi ridefinito nella sua collocazione e importanza storica. La sua lettura di Vico nella direzione di un dialogo tra le culture e le religioni, fu confermata a Badaloni dalla sorprendente figura di Lorenzo Boturini Benaduci che pubblicava nel 1745 L’idea di una storia generale dell’America Settentrionale. Si trattava, come scrive nell’Introduzione a Un vichiano in Messico (Lucca 1990), studio a lui dedicato, di un progetto di liberazione spirituale, sociale e politica degli indigeni, per cui Vico offriva il principale punto teorico di appoggio. Badaloni valorizzava questa figura per i risultati della sua attività di etnologo e archeologo che lo indussero a studiare i costumi e le lingue degli indigeni andando oltre le più famose opere del padre gesuita Lafitau, senza conservarne i pregiudizi verso la loro antica religione. Ma la novità e l’interesse di Badaloni stava soprattutto per l’adesione di Boturini alle idee di Vico, seguendo il quale, oltre a escludere ogni intervento demoniaco, si dimostrava immune da ogni forma di razzismo. Della maledizione camitica non c'è traccia nei suoi scritti in conformità col grande apprezzamento dell'ingegno e della cultura di quelle popolazioni. Boturini giudicava le civiltà precolombiane superiori a quelle egizie e talvolta anche alla cultura dei greci. Come Vico, egli vedeva in queste civiltà l'intreccio fra l'agire umano creativo e la dimensione metafisica per cui le culture sorgono sotto la spinta di forze ideali, si esprimono in azioni umane che si differenziano per le condizioni specifiche storiche e naturali entro cui gli uomini operano. Queste popolazioni avrebbero potuto essere, oggi, a un grado di civiltà pari a quelle europee se non fossero state scoperte dagli europei. Come si vede anche da questo studio del 1990, Badaloni fu spinto a ritornare su Vico per cogliere gli aspetti di una tradizione di tolleranza ostile e incompatibile con certe forti presenze nel mondo attuale che arrivano a propugnare un conflitto di culture e religioni.
Nel 1973 Badaloni pubblicò un ampio e originale scritto: La cultura, nella Storia d’Italia (Einaudi), III (Dal primo Settecento all’Unità), in cui analizzava le vicende storiche e filosofiche della “ragione signorile”, la sua crisi e l’avanzare di una filosofia dell’esperienza fino alla proposta di nuovi modelli di razionalità accanto a “progetti di manipolazione sociale” nell’età dell’illuminismo. L’ultima parte di questa storia della cultura è dedicata alla “natura artificiale e intelligenza sociale nell’età del romanticismo”. Questi movimenti ideologici sono incarnati da figure storiche, più o meno conosciute, presentate con grande finezza e originalità. Molti dei saggi di filosofia moderna, sparsi nel corso degli anni su riviste specialistiche (dal 1958 al 2000), furono raccolti col titolo Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano (Pisa 2004 [ma 2005]). La scelta degli scritti, fatta dallo stesso Badaloni, era un omaggio dei suoi allievi (per l’ottantesimo compleanno), al suo importante lavoro, capace di mettere in luce autori considerati minori e pensatori inattuali e di rinnovare radicalmente, attraverso una collocazione nel contesto storico, grandi figure viste dalla storiografia idealistica precedente come immerse in una «solitudine metastorica» e figure meno note, riscoperte e adeguatamente valorizzate. Accanto a saggi su aspetti particolari di Bruno e Campanella, troviamo scritti su Gerolamo Fracastoro, Niccolò Franco, Giovanbattista e Giovan Vincenzo Della Porta, Giovanni Pico, Antonio Vallisneri junior, Alessandro Marchetti. Il volume, con presentazioni di Remo Bodei e di Lina Bolzoni, contiene una accurata bibliografia dei suoi scritti curata da Gregorio De Paola.
A Pisa Badaloni si è formato e soprattutto ha formato intere generazioni: nelle più diverse vie intraprese, in dirigenti politici, amministratori, studiosi, insegnanti, è unanime il riconoscimento di un incontro importante, decisivo nella loro vita. Luogo di riferimento essenziale e suo rifugio, il tavolo di lavoro, sempre carico di libri, della sala dei professori della Biblioteca universitaria da cui usciva, accompagnato da qualche allievo, alle 11 per prendere un caffè e scambiare qualche impressione sulle novità del momento. Badaloni fu, in anni difficili (dal 1968 al 1979), un preside autorevole della facoltà di lettere, che non ebbe mai compiacenza superficiale verso i movimenti: non indulgeva ma, prima di altri, ne comprese il senso di rinnovamento e di liberazione dell’individuo senza facili esorcismi o lenocinii. E ne promosse lo studio e l’approfondimento critico anche in importanti convegni dell’Istituto Gramsci quali Il marxismo italiano degli anni Sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni (Roma 1971) e La crisi della società italiana e le nuove generazioni (ibid. 1977). Dell’Istituto Gramsci fu presidente dal 1971 al 1993 e promosse e diresse numerose, importanti iniziative culturali e politiche. Insieme con il direttore Franco Ferri, diede avvio a una feconda stagione di studi collettivi (basti ricordare l'edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, cui Badaloni dedicò molti lavori). Nel 1993 non si ricandidò alla presidenza della Fondazione Gramsci, rimanendo nel comitato scientifico della stessa. Nel 1991 aveva aderito al Partito democratico della sinistra (PDS).
Badaloni insegnò dal 1969 al 1982 anche presso la Scuola Normale superiore di Pisa. Dal 1987 al 1993 fu direttore del dipartimento di filosofia dell’Università di Pisa. Fin dall’inizio, accanto agli studi di storiografia filosofica, praticò un’intensa riflessione sul significato della ricerca storica e della filosofia, a confronto con più posizioni tra cui, oltre a quelle del neoidealismo, quelle di Guido Calogero, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Giulio Preti, John Dewey. Tale ricerca confluì poi nel volume Marxismo come storicismo (Milano 1962). In Badaloni c’era il rifiuto delle diverse riduzioni soggettivistiche della ricerca storica e la critica di ogni partenogenesi delle idee, l’ostilità verso ogni semplificazione e dogmatismo, la lontananza da schemi prefissati e criteri valutativi preformati. Dal punto di vista metodologico le proposte dello storicismo di impronta gramsciana vengono intese come critica della tentazione di stabilire rapporti tra universalizzazione e realtà storiche che non siano persuasivamente documentabili: «[…] la storia della filosofia è veramente storia fatta su documenti, su nessi reali accertabili e non idealizzazione fatta sulle analogie» scrive nel saggio Filosofia, storia, e storia della filosofia nel marxismo (in Rivista critica di storia della filosofia, XIX [1964], n. 1, p. 85 [pp. 62-86]). Ed è significativo che, in punti cruciali, il riferimento diretto sia a Eugenio Garin e anche il saggio sopracitato termina, richiamando «la necessità di mantenersi saldamente ancorati alla filologia», con una significativa citazione da La filosofia come sapere storico (Bari 1959, pp. 89 s.) di Garin: «quella filologia che non significa affatto stabilimento di testi, o raccolta di dati: significa fedeltà, e rispetto costante di ogni individuazione concreta, di ogni situazione reale entro il complesso dell’atto storiografico» (ibid., p. 86).
Negli ultimi anni a Badaloni sembrò riduttivo il termine “storicismo”, che aveva usato, in quanto per lui si trattava di una radicale storicità consapevole di sé, intesa come strumento per conoscere e mutare i condizionamenti materiali e creare spazi di libertà. Il suo “storicismo” presupponeva «una stratificazione di livelli della realtà, che è testimoniata dal nostro stesso corpo e dal suo organo principale, che è il cervello. Infatti, è non solo pretenzioso, ma anche pericolosamente riduttivo, puntare solo sulla componente che appare alla superficie e lasciare nell'ombra gli elementi fondanti» (articolo per Sebastiano Timpanaro: Amici che consentono e dissentono, in Il Ponte, LVII [2001], n. 10-11, pp. 235-238). La copia personale di Marxismo come storicismo, del 1962, presentava numerose correzioni significative a penna, denunciando così la volontà di Badaloni di rinnovare l’edizione con la precisazione di alcuni concetti, tra cui il termine “storicismo” di cui ribadiva l’uso, liberato dagli «equivoci cui si è prestato».
Accanto agli studi di storia della filosofia, Badaloni praticò un’intensa attività politica e culturale all’interno del PCI di cui fu membro del comitato centrale. Numerosi furono i suoi interventi sui momenti politici e culturali, nelle riviste e quotidiani del partito (soprattutto l’Unità, e Rinascita). Nel 1983 Badaloni avvertì l’esigenza di raccogliere i suoi interventi più importanti di carattere più direttamente politico in cui era presente, in modo crescente, la volontà di una fedeltà critica al marxismo contro letture liquidatorie o lontane dal senso storico (Forme della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche 1962-1981, Pisa 1983). Tornando più volte su Vico, Bruno, Campanella, come centri di significato e discussione di un mondo culturale e sociale minuziosamente e attentamente ricostruito, Badaloni ha disegnato una linea di sviluppo del pensiero moderno fino a Hegel, Feuerbach e agli autori del marxismo: Karl Marx, Friedrich Engels, Antonio Labriola, Antonio Gramsci. A questi autori, oltre a numerosi saggi, ha dedicato monografie storiche e ricerche teoriche tra cui: Per il comunismo. Questioni di teoria (Torino 1972), Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica (ibid. 1975), Dialettica del capitale (Roma 1980: «l’opera che mi ha appassionato di più è il libro su Marx in cui mettevo in discussione le forme di sottomissione reale e formale al capitale», affermò nell’intervista a Vittoria Franco), Gramsci: la filosofia della prassi come previsione (in Storia del marxismo, III, Il marxismo nell'età della Terza Internazionale, 2, Dalla crisi del '29 al XX Congresso, Torino 1981, pp. 254-340), Il problema dell’immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci (Venezia 1988). Alcuni di questi testi sono stati tradotti in più lingue. In particolare Badaloni ha mostrato, in più lavori, la piena collocazione di Gramsci nel contesto occidentale. Ha sottolineato lo spirito di “scissione” attraverso l’influenza di Georges Sorel nel periodo giovanile e, successivamente, la “ricomposizione”, politica e razionale. La trasformazione, che Gramsci ha in mente, si appoggia per Badaloni principalmente sull’antideterminismo che anima la polemica con Nikolaj Ivanovič Bucharin, simbolo di un approccio alla storia grossolanamente materialistico e antiumanistico, e la grande reinterpretazione della storia ottocentesca e novecentesca attraverso il tema dell’egemonia e le categorie di rivoluzione passiva e attiva.
Negli ultimi anni Badaloni si occupò intensamente del pensiero di Ludwig Feuerbach e del materialismo. La sua intensa ricerca (allargandosi a Sigmund Freud e a Friedrich Nietzsche, su cui ha tenuto gli ultimi corsi all’Università) ha considerato sempre più il peso di condizionamenti materiali, delle forze dell’inconscio e ha sentito l’esigenza – v. ancora l’intervista a Vittoria Franco – di «esplicitare le contraddizioni su piani diversi perché diversi sono i livelli della struttura temporale della nostra esistenza, fatta di condizionatezza naturale, di tradizioni, di passato, di necessità del presente ed anche di proiezioni» (pp. 42 s.). Una ricerca che – con coraggiosa coerenza – non ha rinunciato fino all’ultimo a difendere la dialettica quale possibilità di rendere visibile l’insieme delle relazioni consce e inconsce e, in tal modo, rendere più forte la consapevolezza.
Negli ultimi anni, con accanto, quotidianamente, il necessario sostegno della moglie Marcella per i gravi problemi di vista, ha lavorato intensamente a uno studio su Herbert di Cherbury licenziato per la stampa nel dicembre 2004 (Laici credenti all’alba del moderno. La linea Herbert-Vico, Firenze 2005). La sorte ha voluto che con quest’ultimo scritto Badaloni si collegasse alle sue prime ricerche e pubblicazioni. Indagando il rapporto inesplorato tra i due filosofi, portava chiarimenti su aspetti centrali del pensiero di Vico quali la “filosofia della mente” e la “barbarie della riflessione” e affrontava temi centrali quali la valorizzazione di una “teologia della provvidenza divina universale o natura” che vuole «credenti dal laico spirito tollerante, che con il dio provvidente cooperino, avendo la libertà umana un posto importante nell’economia del cosmo, che sollecita alla scienza delle cose naturali (cioè dell’unica e comune rivelazione di Dio), a una vita sociale ordinata e ad aspirare a una felicità che oltrepassa i confini di questo mondo» (ibid., p. 3).
Tra i quaderni di Badaloni si trova anche un abbozzo di lettera a Remo Bodei (pubblicata poi, con relativa risposta, in Critica marxista, marzo-giugno 2005, pp. 45-48: Un marxismo non travolto dalle macerie), uno dei suoi ultimi scritti, in cui ripercorre il senso del suo confronto con Gramsci e l'attualità di alcuni suoi temi, passando poi a considerazioni di politica internazionale e concludendo («più vicina al modo labriolano di filosofare che a quello gramsciano» – scrive) con considerazioni sui drammatici pericoli della situazione attuale: «Oggi, a seguire molti filosofi contemporanei, non si può essere laici, se non si è in qualche misura nichilisti. È come se ci si risvegliasse ora alla coscienza, che le religioni positive sono rifugio delle coscienze, che vivono i drammi del tempo per mezzo di simboli, tutt’altro che unidirezionali» (ibid., p. 47). Di fronte a una crisi gravissima e alla massiccia “colonizzazione delle coscienze”, la libertà dalla paura è oggi il compito primario della politica democratica: «La storia è un dramma, di cui i contemporanei pretendono di essere gli attori unici, dando alle proprie paure, nomi e forme sempre nuove», così termina quest’abbozzo di lettera.
E questo aveva ripetuto anche nell’intervista fatta all’Unità il giorno del suo ottantesimo compleanno, con una consapevolezza che anticipava i tempi, dominati da demagogia devastante. Compito principale del politico oggi non è soltanto rispondere ai bisogni della gente ma anche «aiutarla a vincere le paure». Nell’ultimo anno – con quel senso di gioco che spesso accompagnava in lui la serietà dei contenuti – aveva avuto modo di intervenire a proposito dello storico monumento a Ferdinando I (situato all’uscita del porto mediceo in piazza Micheli a Livorno), detto dei Quattro mori, dalle statue dei barbareschi incatenati ai piedi del granduca, in deciso contrasto con lo spirito democratico della città (v. Il Tirreno, 6 febbraio 2004). Avvertiva come il problema dell’immigrazione fosse quello che la democrazia aveva davanti, con i pericoli crescenti d’imprenditori politici del razzismo. Vincere le paure: a questo aveva dedicato – nell’ultimo periodo – anche un testo inedito intitolato «Alcune riflessioni su guerra e terrorismo», in un quadernone – con la grande scrittura legata alle sue condizioni di vista – in cui riproponeva il quesito: «Come si pone oggi il rapporto tra politica e morale? È ancora lecito separare i rapporti di forza che sarebbero i soli oggetti delle analisi politiche, dai valori universali, che sarebbero di pertinenza della morale?», attraverso un lungo excursus storico (Grozio, Spinoza, Rousseau) ma guidato da una reminiscenza personale: «Ricordo che da ragazzo mi soffermavo spesso davanti ad una bella stampa di Dürer che faceva parte dei tesori d’arte raccolti da mio nonno e che rappresentava i tre mali del mondo: la peste, la fame, la guerra. Evidentemente il grande artista protestante non era riuscito a isolare la guerra come fatto umano dagli altri due mali, che potevano avere a che fare con aspetti propriamente naturali» (Livorno, Biblioteca Labronica, Fondo Nicola Badaloni, ms. inedito).
Morì il 20 gennaio 2005.
Grandi il cordoglio generale della sua città e dell'intera nazione, di esponenti della sinistra democratica e del mondo della cultura, a partire dal messaggio fraterno del capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi verso il «filosofo di fama mondiale» e «fedele servitore delle istituzioni» che lui stesso aveva insignito, nel 2001, dell’onorificenza di cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana.
La filosofia di Giordano Bruno (Firenze 1955); Introduzione a G.B. Vico (Milano 1961); Marxismo come storicismo (ibid. 1962); Tommaso Campanella (ibid. 1965); Democratici e socialisti livornesi nell’Ottocento (Roma 1966); Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire (Milano 1968); Labriola filosofo e politico, in Critica marxista, IX (1971), n. 2 (marzo-aprile), pp. 16-35 (in app. 10 lettere inedite di Antonio Labriola ad Alessandro D’Ancona, pp. 35-39); Per il comunismo. Questioni di teoria (Torino 1972); La cultura, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano e C. Vivanti, vol. 3. Dal primo Settecento all’Unità (Torino 1973, pp. 697-984); Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica (Torino 1975); Marx e la ricerca della libertà comunista, in Storia del marxismo. 1. Il marxismo ai tempi di Marx (Torino 1978, pp. 155-210); Dialettica del capitale (Roma 1980); Gramsci: la filosofia della prassi come previsione, in Storia del marxismo. Vol. III/2 Il marxismo nell’età della Terza Internazionale (Torino 1981); Forme della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche 1962-1981 (Pisa 1983); Introduzione a Vico (Bari 1984); Antonio Labriola, la genesi di un naturalismo critico, in Critica marxista, XXIV (1986), n. 5 (settembre-ottobre), pp. 107-123; Giordano Bruno tra cosmologia ed etica (Bari 1988); Il problema dell’immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci (Venezia 1988); Introduzione a Vico (Bari 1988, 2ª ed. riv e agg.); Un vichiano in Messico. Lorenzo Boturini Benaduci, a cura di N. Badaloni (Lucca 1990); Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo. Con l’aggiunta dell’«Asino cillenico», a cura di N. Badaloni (Palermo 1992); Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano (Pisa 2004); Laici e credenti all’alba del moderno: la linea Herbert-Vico (Firenze 2005).
Il Fondo Nicola Badaloni, conservato a Livorno presso la Biblioteca Labronica, consta di circa 3000 periodici, 5000 opuscoli e 12.000 volumi a stampa divisi fra materiale antico e moderno. Molti libri presentano postille manoscritte e contengono numerose carte di appunti. Il voluminoso archivio di manoscritti, tuttora in fase di catalogazione, contiene bozze, prime stesure, minute dell’intero lavoro culturale e politico di Badaloni.
Una accurata bibliografia degli scritti di B., a cura di Gregorio De Paola, si trova in N. Badaloni, Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano (Pisa 2004), pp. 480-516.
Per una bibliografia essenziale su B. si vedano almeno: G. Campioni, Ricordo di N. B., in Iride, XVIII (2005), n. 44 (aprile), pp. 11-19; A.M. Iacono, Per B., in Comune notizie. Riv. del Comune di Livorno, 2005, n. 52-53, pp. 13-15; R. Bodei, Un marxismo non travolto dalle macerie, cit.; F. Mussi, N. B., un grande intellettuale del popolo, in Il Ponte, LXII (2006), 1, pp. 79-86; P. Cristofolini, N. B., in Riv. di storia della filosofia, LXI (2006), 2, pp. 403-413; P. Meneganti, Retorica o storicità. B. lettore di Michelstaedter, in Critica marxista, n.s., 2015, n. 5, pp. 41-48; M. Marino, Tradurre Heidegger: dagli epistolari di Massolo all’archivio B., in Quaderni della Biblioteca nazionale centrale di Roma, 22, Roma 2018, pp. 59-70; Id., Su alcuni aspetti del dibattito attorno a esistenza e libertà. A proposito di Cesare Luporini e N. B., in Die akademische "Achse Berlin-Rom"?, a cura di A. Albrecht - L. Danneberg - S. De Angelis, Berlin 2017, pp. 155-182.
Crediti immagine: per cortesia Archivio generale dell'Università di Pisa.