Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È uno degli autori più aborriti e insieme più innalzati della cultura occidentale. Per tre secoli, in Italia, ha subito le conseguenze dell’ostracismo voluto da una Chiesa controriformista che nel 1559, mettendo all’Indice le sue opere, vuole bandire la coscienza più lucida del nostro Rinascimento, nonché l’artefice del Principe, il trattato di fondazione della scienza politica moderna, disciplina umana autonoma, cioè svincolata da ogni sorta di principi esterni a lei stessa, compresi quelli etici.
Nasce a Firenze il 3 maggio 1469, in una famiglia di modeste condizioni economiche; svolge regolari studi umanistici in una Firenze che nel 1492 vede la morte di Lorenzo il Magnifico, seguita nel 1494 dalla cacciata dei Medici e dall’affermazione del Savonarola, al quale il Machiavelli si oppone insieme a parte degli aristocratici. Queste travagliate vicende suscitano in lui un interesse politico che dal maggio 1498, subito dopo la morte del Savonarola, si concretizza nell’assunzione del ruolo di segretario della seconda Cancelleria, poi anche di segretario dei Dieci di Balìa, magistratura che sovrintende alla guerra e alla sicurezza; nell’amministrazione politica fiorentina inizia così ad avere una funzione di prim’ordine che durerà 14 anni. In veste di segretario scrive migliaia di lettere ufficiali (in buona parte ancora inedite), con le quali il governo centrale comunica le proprie decisioni ai funzionari dislocati sul territorio. Al servizio della Repubblica fiorentina svolge missioni diplomatiche presso i protagonisti della scena politica internazionale, che gli consentono una conoscenza diretta delle dinamiche e degli ambienti sui quali deve riferire alla signoria: si tratta di quell’“esperienza delle cose moderne” rivendicata fin dall’inizio nel Principe. In questo periodo i suoi scritti segnano il passo degli incarichi e delle ambascerie, facendosi precipue analisi di un teorico della politica consapevole delle conseguenze fattive delle proprie valutazioni. La prima delle prose politiche che ci sono giunte è il Discorso sopra Pisa del 1499, sul modo di riconquistare la città ribellatasi al dominio di Firenze. Dopo incarichi di rilievo in territorio nazionale è ambasciatore alla corte del re di Francia, con una prima missione nel 1500, alla quale ne seguiranno altre tre in futuro (1504, 1510 e 1511).
Intanto, in un’Italia politicamente devastata dopo la discesa di Carlo VIII, la stabilità dell’area centrale della penisola è ulteriormente minata dall’ascesa di Cesare Borgia, diventato duca del Valentinois (da qui l’appellativo di Valentino) mediante le nozze con una cugina del re di Francia, nonché figlio di papa Alessandro VI, con l’appoggio del quale si lancia nella fulminea conquista della Romagna e dei territori circostanti, con la mira di strappare parte dei suoi domini alla stessa Firenze; quando Arezzo e la Valdichiana si ribellano, sobillate dagli uomini del Valentino, si rende necessaria una legazione in loco, alla quale prende parte anche Machiavelli: tale esperienza lo porta a comporre, l’anno successivo, il discorso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati. Tra il 1502 e il 1503 due sono le ambasciate svolte da Machiavelli presso il Valentino, che subito lo colpisce per la sua autorità e magnificenza; durante la seconda di queste legazioni assiste alla prova magistrale della crudele risolutezza borgiana, la strage di Senigallia, durante la quale il Valentino elimina i suoi luogotenenti, che si erano ribellati a lui: su tali fatti, raccontati a caldo in un frammento di lettera, il Machiavelli mediterà analiticamente, scrivendo la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsini, meglio nota come Tradimento del duca Valentino, forse del 1514. Nel 1503 durante la prima legazione alla corte papale (ne seguirà una seconda nel 1506), Machiavelli assiste all’interruzione di quell’ascesa che sembrava inarrestabile, con la nomina al soglio pontificio di Giulio II, Giuliano della Rovere, fervido nemico dei Borgia.
Mentre continuano a essere numerose le prose consultive da lui composte, diventa stretto collaboratore del gonfaloniere a vita Pier Soderini, eletto nel 1502, senza astenersi tuttavia dal condannarne la scarsa determinazione. Alla fine del 1504 conclude la redazione del primo Decennale, un poemetto in terza rima che narra gli avvenimenti fiorentini dal 1494 al 1504 (seguirà poi un secondo Decennale, che si arresta però coi fatti del 1509); si tratta di un’operazione politica, con cui Machiavelli vuole sostenere e promuovere uno dei capisaldi del suo pensiero: la necessità, per Firenze, di costituire una milizia interna, composta non da mercenari, né mediante alleanze con eserciti stranieri, ma formata dai propri cittadini; solo dopo un ennesimo fallimento delle milizie mercenarie ottiene di poter coordinare l’arruolamento e l’addestramento di truppe interne. Nel 1507, nominato cancelliere dei Nove ufficiali della milizia fiorentina, continua a occuparsi dell’arruolamento nel contado; più tardi, quando la situazione politica di Firenze si fa particolarmente complessa e subentrano nuove necessità militari, suo compito sarà anche l’arruolamento della cavalleria, mentre i suoi incarichi si fanno sempre più complessi e delicati.
Tra le missioni diplomatiche di particolare rilievo, che affiancano le numerose ambasciate minori e quelle nelle principali corti italiane (la Mantova di Isabella d’Este, per esempio), va ricordata la legazione alla corte imperiale di Massimiliano I (1507-1508), dalla cui analisi scaturisce il Ritratto di cose della Magna. Parallelamente l’“esperienza” francese lo spinge a redarre il Ritratto di cose di Francia, concluso ma non rifinito nel 1512.
Nel 1512 i Medici riprendono il potere e Machiavelli, uno dei massimi esponenti repubblicani, è condannato a un anno di confino nel dominio fiorentino; sospettato di cospirazione antimedicea nella congiura ordita da Pier Paolo Boscoli, viene incarcerato e, liberato grazie all’amnistia, si ritira nel suo podere dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina, nei pressi di San Casciano. Testimonianza della sua attività in questo periodo è l’epistolario con Francesco Vettori, ambasciatore di Firenze alla corte papale di Leone X: da queste lettere emerge la frustrazione per l’impossibilità di prendere parte alla vita politica attiva, che egli tenta di sanare mediante il dialogo coi classici e la composizione letteraria. Proprio da una lettera al Vettori, quella celeberrima del 10 dicembre 1513, apprendiamo che, traendo il cervello dalla muffa dell’ozio forzato, ha composto il suo capolavoro, un trattato De principatibus, come viene da lui stesso designato, passato poi all’universo pubblico col titolo attribuitogli nel 1532 dall’edizione postuma di Antonio Blado: Il Principe. I critici sono propensi ad affermare che l’opera sia stata completata entro la primavera del 1514.
L’opera, con la sua descrizione di un principe ideale, capace di creare e conservare lo Stato, è dedicata a Lorenzo di Piero de’Medici, signore di Firenze (non a Giuliano, come Machiavelli aveva pensato all’inizio), con l’obiettivo di guadagnarne la fiducia ed essere così riammesso nell’amministrazione statale.
In 26 capitoli (preceduti dalla lettera di dedica), Machiavelli parte da basi argomentative mai considerate da nessuno prima di lui: ovvero dall’esame della situazione presente e dei vari modelli di principato possibili, spiegando come si acquistano, come si perdono, come si conservano; dalla grande quantità di esempi tratti dalla storia chiarisce la centralità che hanno per lui tanto la storia antica quanto la conoscenza diretta dei fatti del presente, acquisita alla guida della Repubblica fiorentina; tra i vari principati concentra la propria analisi su un potere nuovo, per chiarirne le peculiarità e offrire così ai Medici delle regole applicabili, e a tal fine individua in Cesare Borgia un modello “imitabile”. Prima di concentrarsi sulle caratteristiche vincenti della sua persona e del suo agire, chiarisce la necessità per lo Stato di una solida organizzazione militare, fondata non su milizie mercenarie e su forze altrui, che indeboliscono la struttura statale, ma su “armi proprie”, ribadendo uno dei cardini del proprio pensiero e del proprio agire politico, dopo la formazione degli eserciti nazionali in Francia, Spagna e Svizzera. La disamina delle qualità del principe parte non dall’“immaginazione” delle cose, ma dalla “verità effettuale”, cui l’azione politica deve tenersi ancorata; e la realtà dei fatti è il conflitto, la lotta senza riserve degli Stati per la propria autoconservazione, che, nell’instabilità dell’universo politico, include necessariamente, sul modello romano, lo scontro e la conquista, così come la mancanza di pietà.
Ecco allora che la “virtù” del principe (e con “virtù” si intende l’insieme delle doti personali utili per ottenere e mantenere il potere, da cui dipende l’esistere dello Stato) è tanto umana quanto ferina, poiché egli deve “non partirsi dal bene, potendo, ma saper entrare nel male, necessitato”, e il Valentino incarna perfettamente un sovrano in grado di assicurarsi delli inimici, guadagnarsi delli amici; vincere o per forza o per fraude. C’è tuttavia una componente incontrollabile, che sfugge alla “virtù” e che Machiavelli chiama “fortuna”, che non può essere contrastata, se non aprendosi un piccolo varco nella sua imprevedibilità: a tal fine l’uomo di Stato “savio” deve anticipare i colpi della sorte, innalzando “i ripari e gli argini” necessari a schermarne una funesta esondazione. La ruina di Cesare Borgia è dovuta alla concomitanza della morte di suo padre Alessandro VI e di una pesante malattia che lo tiene fuori dai giochi, quindi a una “estraordinaria ed estrema malignità di fortuna”; la responsabilità personale ha tuttavia la sua parte di colpa, poiché egli non è stato in grado di cogliere l’“occasione” che la fortuna può offrire: non è stato in grado di calcolare razionalmente l’estrema minaccia rappresentata dall’elezione al soglio pontificio di Giuliano della Rovere, e non vi si è opposto.
Attraverso un andamento che è stato definito “dilemmatico” (cioè spesso basato sull’alternativa tra due ipotesi o tra due frasi disgiuntive), la predilezione per l’asciutta paratassi e l’iterazione di congiunzioni che sottolineano i rapporti di causalità e consequenzialità, la forza argomentativa del Principe si fa assoluta e incalzante, sino alla finale esortazione a liberare l’Italia, riscattandola dal dominio straniero.
Niccolò Machiavelli
Il potere della fortuna nelle cose umane e il modo di resistere a esso
Il principe, Cap. XXV
Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum.
È non mi è incognito come molti hanno avuto et hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e, per questo, potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora d’ogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Non di manco, perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno così fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete l’Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro el moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo; ché, s’ella fussi reparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni grande che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti quanto allo avere detto allo opporsi alla fortuna in universali.
Ma, restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare, e domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura o qualità alcuna: il che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo, ancora, che sia felice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi; e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi. Perché si vede li uomini, nelle cose che li ’nducano al fine, quale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente: l’uno con respetto, l’altro con impeto; l’uno per violenza, l’altro con arte; l’uno per pazienzia, l’altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. Vedesi ancora dua respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua egualmente felicitare con dua diversi studii, sendo l’uno respettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non dalla qualità de’ tempi, che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscano el medesimo effetto; e dua egualmente operando, l’uno si conduce al suo fine, e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene: perché, se uno che si governa con respetti e pazienzia, e’ tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando; ma, se e’ tempi e le cose si mutano, rovina, perché non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente, che si sappi accomodare a questo; sì perché non si può deviare da quello a che la natura l’inclina, sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella. E però lo uomo respettivo, quando elli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare; donde rovina: ché, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna.
Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa che fe’ di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli. Viniziani non se ne contentavono; el re di Spagna, quel medesimo; con Francia aveva ragionamenti di tale impresa; e non di manco, con la sua ferocia et impeto, si mosse personalmente a quella espedizione. La quale mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e Viniziani, quelli per paura, e quell’altro per il desiderio aveva di recuperare tutto el regno di Napoli; e dall’altro canto si tirò dietro el re di Francia; perché, vedutolo quel re mosso, e desiderando farselo amico per abbassare Viniziani, iudicò non poterli negare le sua gente sanza iniuriarlo manifestamente. Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenzia, arebbe condotto; perché, se elli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai li riusciva; perché el re di Francia arebbe avuto mille scuse, e li altri messo mille paure. Io voglio lasciare stare l’altre sua azioni, che tutte sono state simili, e tutte li sono successe bene; e la brevità della vita non li ha lasciato sentire el contrario; perché, se fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina; né mai arebbe deviato da quelli modi, a’ quali la natura lo inclinava.
Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.
N. Machiavelli, Il principe, a cura di L. Firpo, introduzione e note di F. Chabod, Torino, Einaudi, 1981
Mentre a Firenze i rapporti tra Machiavelli e i Medici sembrano riscaldarsi un po’, nel febbraio 1515 dalla corte papale romana, reale fulcro del potere mediceo, giunge il divieto a qualsiasi sua riammissione nell’amministrazione statale fiorentina, che fa aumentare in lui delusione e amarezza; si avvicina così, tra il 1515 e il 1516, al gruppo di giovani letterati coadiuvati da Cosimo Rucellai che si riuniscono presso gli Orti Oricellari, i celebri giardini di palazzo Rucellai, per discutere di storia, politica o letteratura, alimentando idee repubblicane, senza però rifiutare l’apporto di aristocratici filomedicei; stimolato da questo contesto compone, tra Firenze e San Casciano, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, dedicandoli al Rucellai e a Zanobi Buondelmonti, illustri esponenti del sodalizio dai quali Machiavelli dice di essere stato “forzato” a scrivere l’opera. I Discorsi sono un libero commento ai primi dieci libri della storia romana Ab urbe condita, o meglio una riflessione che scaturisce da una meditazione sull’opera storica non solo liviana ma anche di altri storici classici come Polibio e Plutarco, greci ma vissuti a Roma, e sono evidentemente il punto d’approdo di una lettura intima e profonda cominciata fin negli anni giovanili. Sono costituiti da tre libri articolati in capitoli: il primo libro tratta di politica interna, evidenziando l’importanza dialettica delle tensioni interne per il progredire dello Stato; il secondo si concentra sulla politica estera, affrontando quindi il tema della guerra e tenendo come massimo punto di forza la necessità di un ordinamento militare che rifiuti i mercenari al soldo dello Stato; il terzo, “misto”, si concentra soprattutto sulle trasformazioni delle repubbliche.
La storia antica diventa l’emblema di un mondo che si oppone alla corruzione dei tempi moderni e al quale bisogna guardare come “esempio”: per questo l’analisi prende sì spunto dalla storia romana, ma col presupposto di compiere una riflessione politica sul presente, sulla teoria dello Stato e sulla sua conduzione, fornendo attraverso la lezione degli antichi la chiave per risolvere problemi moderni.
Il Rucellai e il Buondelmonti compariranno tra gli interlocutori dei dialoghi De re militari, più noti come Arte della Guerra, ambientati proprio nel 1516: in sette libri l’autore ribadisce il principio fondamentale della “popolazione armata” contro le milizie mercenarie; l’Arte della guerra, composta tra il 1519 e il 1520, è l’unica creazione machiavelliana pubblicata quando l’autore è ancora in vita: le altre saranno edite solo tra il 1530 e il 1531.
Ancora Zanobi Buondelmonti è dedicatario, con Luigi di Piero Alamanni, della Vita di Castruccio Castracani, celebre condottiero lucchese (1281-1328), una prosa storiografica scritta in seguito ad una missione semiufficiale a Lucca, avvenuta nell’estate del 1520, dopo una sua tiepida riabilitazione alla vita politica.
Machiavelli non è solo uno storico e un politico, ma anche un letterato, non a caso si risente di non essere citato dall’Ariosto nel Furioso tra i letterati illustri. In gioventù aveva composto canti carnascialeschi in occasione del carnevale, quindi i due Decennali e alcuni capitoli didascalici in terza rima. Mentre la partecipazione alla vita pubblica gli viene negata, si dedica con più fervore, come per necessità, alla composizione letteraria: ecco allora l’Asino d’oro, un incompiuto poemetto satirico in terzine dai toni amari, la novella misogina di Belfagor arcidiavolo, che nella “favola” viene sulla terra per prender moglie e constatare la superba insolenza delle donne, e una Serenata in ottave di stampo ovidiano. Notevole è la sua produzione teatrale, che passa da un volgarizzamento dell’Andria di Terenzio, dalla composizione della Clizia (sulla base della Casina plautina), messa in scena a Firenze nel 1525, e anche, secondo la testimonianza di un suo nipote, da altri due testi incompiuti: Le maschere (da Aristofane) e la Sporta (dall’Aulularia di Plauto). Certo è che la sua produzione per il teatro raggiunge il culmine con la commedia che rappresenta anche l’apice del teatro del Rinascimento italiano, La mandragola: composta tra la fine del 1519 e l’inizio del 1520, in cinque atti e sostanzialmente in prosa, narra della beffa architettata dal parassita Ligurio affinché messer Nicia metta nel letto della propria moglie Lucrezia il giovane Callimaco, innamorato di lei; con una lingua vivace, che caratterizza, nei suoi diversi registri, i diversi personaggi, viene messo in scena un mondo privo di valori: è anche questo un modo, per Machiavelli, per distogliere l’attenzione dalla sua condizione di esiliato dalla vita pubblica, mettendo diversamente in pratica la sua capacità critica nell’osservare le azioni umane.
Dovrebbe risalire al 1524 un Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, la cui attribuzione al Machiavelli è stata a lungo discussa e in cui, in polemica col Trissino, viene difeso l’uso del fiorentino contemporaneo come lingua letteraria.
Intanto, dopo la morte del duca Lorenzo (1529), i Medici accettano di reintegrare parzialmente Machiavelli; mentre si trova a Carpi, durante uno degli incarichi poco più che formali che gli vengono affidati, approfondisce l’amicizia con Francesco Guicciardini, con cui ha un epistolario dal 1521 al 1526. Nel 1520 riceve l’incarico dal cardinale Giulio de’Medici per scrivere le Istorie fiorentine, in cui narra la storia di Firenze concentrandosi sui suoi conflitti civili, mettendo in evidenza come essa sia uscita sfiancata dalle lotte tra fazioni, al contrario di Roma antica, saggiamente rinvigorita dai contrasti; nel 1525 presenta gli otto libri delle Istorie al committente e dedicatario, ormai papa Clemente VII.
Mentre collabora con un regime ormai prossimo alla fine, nel 1527, col sacco di Roma e la caduta dei Medici, Machiavelli non riceve alcun incarico nella nuova Repubblica: muore il 21giugno 1527 con il peso di questa nuova delusione, dopo una vita trascorsa in funzione dell’“arte dello Stato”.