GUICCIARDINI, Niccolò
Nacque a Firenze il 6 genn. 1501 da Luigi di Piero, fratello dello storico e teorico politico Francesco, e da Elisabetta di Niccolò Sacchetti. Pochissimo sappiamo della sua giovinezza, se non che fu educato alle humanae litterae e al diritto.
Il G. fu un celebre avvocato, trattatista politico e storico di rilievo, autore di numerosi testi dedicati alla riflessione sulle prospettive politiche e istituzionali della città. Già al 1518-19 risale forse un Discorso… del modo di procedere della famiglia de' Medici in Firenze et del fine che poteva havere lo stato di quella famiglia (ed. von Albertini, pp. 365-375).
L'opera, non destinata alla divulgazione, prende le mosse dal 1502 ed esprime il disagio della classe ottimatizia fiorentina di fronte all'azione di Lorenzo, poi duca di Urbino, che nel maggio 1515 si era fatto nominare capitano della Repubblica, imprimendo una decisa svolta istituzionale al governo cittadino. Il G. manifesta la propria delusione e la critica netta per un'iniziativa politica lesiva dell'autorità cittadina, vista come indizio di un indirizzo autoritario che avrebbe potuto rompere l'equilibrio tra forze di governo e aristocrazia tradizionale. Di fronte a questa prospettiva, il giovane G. riflette addirittura sull'eventualità di possibili congiure. Nel Discorso emerge il disagio di un'élite depositaria per tradizione del potere, stretta tra la spinta assolutista del governo di Lorenzo e le tensioni più marcatamente popolari che minacciavano di allargare pericolosamente la base di un governo fino allora oligarchico.
Nel 1527 si dovette al partito aristocratico l'elezione a gonfaloniere della Repubblica di Niccolò Capponi, con cui il G. fu legato da amicizia, almeno fino a quando il Capponi non fu destituito. Al gonfaloniere è diretto il Discursus de Florentinae Rei publicae ordinibus (ed. von Albertini, pp. 391-407), composto tra il giugno e il luglio 1527 e rimasto manoscritto. Il Discursus fu preceduto da un trattato, anch'esso non dato alle stampe dall'autore, di minore articolazione e composto in data imprecisata, ma che del Discursus costituì probabilmente la base: Quemadmodum civitas optime gubernari possit et de monarchia, aristochratia et democratia discursus (ed. von Albertini, pp. 408-412).
In esso viene respinta una visione fatalista della storia istituzionale dei governi, per cui allo splendore segue l'inevitabile decadenza, che accomunerebbe il destino di Firenze a quello di Atene, Roma e Cartagine. Per il G. non il fato, né la particolare indole dei Fiorentini, ma una cattiva applicazione delle leggi ha determinato le ultime vicende della storia della città, dove i cittadini hanno privilegiato i propri interessi economici a scapito della partecipazione politica e della difesa militare dello Stato, rendendo possibile l'affermazione della famiglia de' Medici. L'obiettivo consiste dunque nel riformare lo Stato in modo da poter assorbire i mutamenti all'interno di una cornice istituzionale salda che non consenta il rischio del governo del singolo e quello della tirannide che al primo può tenere dietro.
Nel successivo Discursus l'analisi si precisa focalizzando le caratteristiche degli organi della Repubblica; in particolare il Consiglio grande, che dovrebbe raggiungere i 1200 esponenti e a cui spetterebbe essenzialmente la nomina dei magistrati e la funzione di corte d'appello, e un Senato ristretto di 120 rappresentanti, dove possono venire ammortizzate quelle nomine improvvide favorite dal popolo. In questa riflessione molte sono le analogie con il pensiero di D. Giannotti, che il G. conosceva e con il quale fu in contatto epistolare.
Nonostante queste elaborazioni teoriche, a differenza del padre che fu gonfaloniere di Giustizia nel difficile aprile 1527, non sembra che il G. abbia ricoperto cariche politiche o amministrative durante l'ultima Repubblica, quando invece continuò a esercitare la sua professione di avvocato. All'inizio dell'estate 1529 il G. lasciò Firenze, trasferendosi a Pisa e poi a Lucca. Al luglio di quest'anno risale la composizione del discorso su In che modo la città di Firenze si potesse dall'imperatore e dal papa uniti insieme difendere (ed. von Albertini, pp. 413-417).
Attraverso considerazioni estremamente realistiche, il G. sostiene che la necessità prima consista nell'evitare la messa a sacco della città da parte dei nemici, "con il quale ne anderebbe la libertà, l'honore, la roba, la riputatione et il dominio et ogni resto". Per non intaccare questi capisaldi dell'identità e indipendenza della Repubblica è necessario ponderare con attenzione la scelta fra tre diverse strategie: difendersi con forze proprie, servirsi di aiuti esterni, oppure accogliere le richieste di chi muove guerra, soddisfacendole con un accordo che rimuova il nemico dall'uso della forza. Il G. chiarisce che nel caso si scelga la difesa per varie ragioni né le forze alleate né quelle interne danno possibilità di successo, cosicché la resistenza risulterebbe vana, mentre la scelta della resistenza armata è preferibile solo nel caso si possa ottenere un esito favorevole; ma si deve invece senz'altro evitare qualora anche la più strenua difesa abbia come esito inevitabile quello di accordarsi comunque con il nemico, "perché questo è uno modo di procedere al tutto contra ragione, et segue tutti effecti contrarii a quelli che ragionevolmente si acquistano col difendersi".
Esula dal tenore di questi scritti tutti segnati dalla riflessione politica un Discorso d'amicizia che il G. compose in data imprecisata, conservato manoscritto (Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VIII.1422, cc. 161-170r); nello stesso codice trova posto un suo Discorso sopra le guerre di Lombardia. Inghirami gli attribusce inoltre imprecisate opere di argomento giuridico, nonché un Proemio di storia fiorentina, ed alcune annotazioni della Storia di Francesco Guicciardini, e un Discorso se Lorenzo de' Medici fece cosa lodevole o biasimevole ad ammazzare il duca Alessandro, a detta dell'autore conservati nella Biblioteca Magliabechiana.
Dopo il ritorno dei Medici nel 1530, il G., come il padre Luigi, si avvicinò al governo di Alessandro, duca dal 1532. I rapporti tra padre e figlio furono stretti e assunsero anche la forma di una concreta collaborazione intellettuale, come, a esempio, nella stesura che il G. fece della relazione sulla Romagna scritta dal padre mentre era commissario a Castrocaro nel 1548-49 (Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, s. 2, filza 86).
Luigi infatti si inserì appieno nel nuovo sistema mediceo, ricoprendo varie cariche amministrative. Il G. invece, pur dimostrandosi chiaramente favorevole al governo principesco, soggiornò a Firenze, dedicandosi più all'amministrazione delle terre di famiglia che a esporre nuovi eventuali sviluppi del suo pensiero. La corrispondenza che tenne con il padre durante gli anni Trenta, rivela la presa di posizione netta di Luigi contro la politica dei fuorusciti, mentre il G., da parte sua, sembra interessarsi soprattutto ai suoi poderi di Poppiano, amministrati con la partecipazione attiva della sorella Isabella. Qui egli si occupò soprattutto della produzione vinicola, oltre che di quella granaria e frutticola. In questi anni le lettere del G. si focalizzano soprattutto sugli affetti familiari.
Con il secondo duca mediceo la posizione del G. si consolidò. Cosimo I gli offrì una cattedra allo Studio pisano, dove il G. insegnò diritto civile dal 1543 al 1553-54. Nel 1554 venne inoltre ammesso nel Senato dei quarantotto. Così come aveva fatto con Giulio III, nel febbraio 1556 il duca lo inviò a Roma per complimentarsi con Paolo IV dell'elezione al soglio pontificio. In entrambi i casi il G. assolse il suo compito con due orazioni latine, di cui ci resta quella indirizzata a Paolo IV conservata manoscritta (Firenze, Biblioteca nazionale, Mss., II.II.482, Oratio habita apud Paulum IV pontificem max. undecimo calendas Februarias 1555 ab incarnatione). Nell'ottobre 1556 troviamo il G. commissario di Pisa, dopo che evidentemente aveva lasciato la cattedra di diritto.
Le lettere scritte durante il commissariato sono quasi esclusivamente indirizzate al duca e riguardano per lo più il problema dell'alloggiamento delle truppe imperiali e ducali dopo la fine della guerra di Siena. Nell'ottobre 1556 il G. dispose di alloggiarle presso l'abbazia di S. Savino fuori città; temeva tuttavia che le truppe venissero in urto con i villani e chiese al duca se fosse preferibile stanziarle dentro le mura. Il G. dovette inoltre affrontare il problema dell'approvvigionamento dei contingenti, pressato dalla necessità di rifornire di grano i fornai e non sapendo dove procurarselo. Inoltre, i soldati non erano stati pagati e ciò li rendeva ancora più incontrollabili. Tutti questi disagi ebbero come esito una lite tra soldati pisani e lucchesi da una parte e fiorentini dall'altra, con un morto tra questi ultimi. Il problema più evidente era rappresentato però dai soldati tedeschi, 2800 uomini alloggiati in luoghi pubblici e conventi, privi di un proprio capo. Mario Sforza di Santa Fiora, uno dei comandanti del duca, seppure invitato, non volle assumersene il carico in modo alcuno, così che il G. chiese insistentemente consiglio al duca su come gestire una truppa senza comando, non retribuita, priva dei denari necessari per vivere o in possesso soltanto di moneta straniera che i negozianti di Pisa si rifiutavano di accettare. Le pressanti lettere del G. non sembrano invero avere destato particolare sollecitudine in Cosimo. Alla fine di ottobre la situazione appariva bloccata e si verificarono i primi furti nelle botteghe, ma Cosimo sembrò preoccuparsi piuttosto che il marchese de Sarria, F. Ruiz de Castro, di passaggio a Pisa, venisse alloggiato comodamente e con adeguato decoro nelle stanze dell'arcivescovado, come puntualmente avvenne. Nel gennaio-febbraio 1557 la situazione appariva più calma e il G. era impegnato ad accontentare le richieste di forniture di cereali che Cosimo gli inoltrava da Firenze.
Sono, queste lettere, le ultime testimonianze sul G., del quale non abbiamo altre notizie fino alla morte, avvenuta, probabilmente a Firenze, il 28 dic. 1557.
Da Caterina di Lorenzo Iacopi, sposata nel 1526, ebbe cinque figli: Margherita, Piero, Francesco, Lorenzo e Isabella. Tra loro Piero fu colui che seguì più da vicino l'esperienza paterna di uomo di legge; fu infatti avvocato concistoriale in Roma, uditore di Rota, e lettore di diritto allo Studio di Pisa. Francesco fece carriera come gentiluomo di Cosimo I, commissario delle bande, senatore e infine commissario di Pistoia. Lorenzo, l'altro figlio maschio, ottenne il cavalierato dell'Ordine di Malta.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, filze 455, 457-458, 460, 488 (per le indicazioni delle carte cfr. Carteggio universale di Cosimo I de' Medici.Inventario VIII (1554-1557), a cura di M. Morviducci, Firenze 1998); Carte Sebregondi, 2829, Guicciardini; Carte Strozziane, s. 1, filze 61-62; A. Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, II, Pisis 1792, pp. 170 s.; F. Inghirami, Storia della Toscana, XIII, Fiesole 1844, p. 154; R. Ridolfi, L'Archivio della famiglia Guicciardini, in La Bibliofilia, XXX (1928), pp. 449-479; XXXI (1929), pp. 295-309; XXXII (1930), pp. 285-310, 458-473; R. Starn, Correspondence of Donato Giannotti. Additions to the correspondence of Donato Giannotti: a list and sampling of fifty-four unpublished letters, in Rinascimento, IV (1964), pp. 110-112, 116-122; Storia dell'Università di Pisa (1343-1737), I, 2, Pisa 1993, p. 521; R. von Albertini, Firenze dalla Repubblica al principato. Storia e coscienza politica, Torino 1970, ad indicem.