MARSELLI, Niccola
– Nacque a Napoli il 5 nov. 1832 da Luigi, capitano di uno dei reggimenti della guardia reale, originario di Cassino, e da Marianna Macaluso. Dal 1842 al 1850 trascorse «otto lunghi e brutti anni» (L’istruzione militare e l’economia. Lettere di Niccola Marselli, Torino 1864, p. 26) nella R. Accademia militare, o collegio della Nunziatella, dove insegnava F. De Sanctis, che gli trasmise «l’amore per la libertà e l’aborrimento verso la presente servitù» (N. Marselli, Gl’Italiani del Mezzogiorno, Roma 1884, p. 31: opera in cui, prendendo le mosse da ricordi autobiografici della giovinezza e della formazione, rifletteva sull’inserimento del Mezzogiorno nel contesto nazionale). Nel 1848, quando il collegio fu occupato militarmente e lo stesso De Sanctis fu percosso (e poi allontanato dal collegio), il giovane M. chiese di essere mandato a combattere in Lombardia attirandosi la severa censura dei superiori. In urto con il padre per le sue idee, lettore clandestino di V. Gioberti e simpatizzante per il neoguelfismo, studiò il tedesco e s’infiammò per la filosofia hegeliana. Terminati gli studi nel 1850, fu nominato alunno alfiere del corpo del genio, quindi primo tenente nel 1852 e capitano nel 1860. Partecipò nel 1854 alla formazione di un circolo culturale e cospirativo, si associò alla hegeliana Philosophische Gesellschaft di Berlino e inviò articoli e corrispondenze all’organo di questa, Der Gedanke.
Intrecciando, come molti della sua generazione, opposizione politica clandestina e battaglia filosofica, pubblicò allora i suoi primi scritti di estetica e di critica storica (Intorno alla storia dell’architettura, Napoli 1855; Saggi di critica storica, ibid. 1858; La ragione della musica moderna, ibid. 1859).
L’11 ag. 1859 sposò Guglielmina Walter, con la quale ebbe una figlia, Anita, e forse un figlio. Giunto al 1860, il M., che era primo aiutante del genio, si trovava a soffrire la sua condizione di doppia fedeltà: per un verso era l’ufficiale borbonico, per l’altro il patriota italiano cui C. Benso conte di Cavour (e, per lui, il ministro dell’Interno L.C. Farini) chiedeva di rimanere nelle file dell’esercito al fine di suscitare un movimento insurrezionale autonomo dai garibaldini. Liberata Napoli, il M. pubblicò nell’Opinione nazionale alcuni articoli per sostenere i plebisciti e l’annessione; aderì al nuovo governo, prestando giuramento a Reggio Calabria il 5 febbr. 1861, e fu nominato da G. Garibaldi capitano di prima classe dell’arma del genio.
Apprezzato da L. Menabrea, fu impiegato presso il comando generale del genio nella campagna del 1866. Nel 1867, essendo stata fondata a Torino la Scuola superiore di guerra, fu chiamato a insegnarvi storia generale e storia militare (cfr. Intorno al corso di storia generale inaugurato alla Scuola superiore di guerra il 9 genn. 1868, Torino-Firenze 1868). Nel settembre del 1868 fu promosso maggiore.
Alla Scuola ebbe come superiore C.F. Nicolis di Robilant, al quale si legò di amicizia. Calato nell’ambiente intellettuale settentrionale che sentiva incline al pragmatismo, impegnato negli studi militari e più vicino alla politica, il M. sentì di volgersi finalmente ai «fatti» abbandonando l’astrattezza dell’idealismo hegeliano per «ritemprar[si] al contatto delle scienze naturali e della storia» (La scienza della storia, I, Le fasi del pensiero storico, Torino 1873, p. 398), così armonizzando «la tendenza eccessivamente idealistica e metafisica» (ibid., pp. 237 s.) del suo hegelismo con l’apertura alla scuola positiva e al vasto campo delle scienze sperimentali. Lesse ora A. Comte, Ch. Darwin e soprattutto H. Spencer che gli fornì il modello di una interpretazione della storia e dell’intera esperienza umana in chiave evoluzionista. In contatto con P. Villari, acquistò un posto di rilievo tra i positivisti, pur mantenendo un impianto storicista. Più tardi, a tal riguardo, B. Croce osservò: «la camicia di Nesso della metafisica si stringeva addosso a uno storico che pure aveva cercato di strapparla da sé con violenza» (cfr. Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari 1930, II, p. 81). Fino alla morte il M. si dedicò al disegno di una ricomposizione storica universale in cui la società si sviluppava per leggi naturali, tutto si evolveva senza brusche rotture e la scienza della storia tendeva a risolversi in «fisica sociale» seguendo uno schema di leggi e di previsioni. Numerosi scritti e anticipazioni confluirono in La scienza della storia – vista attraverso lo svolgersi del pensiero storiografico –, che uscì una prima volta a Torino fra il 1873 e il 1880 per essere poi ampliata in successive edizioni e ristampe (l’ultima, a cura di F. Rizzo Celona, è stata pubblicata a Napoli nel 1987). L’opera comprende: Le fasi del pensiero storico, Torino 1873; La natura e l’incivilimento, Torino-Roma 1879; Le origini dell’umanità, ibid. 1879; Le grandi razze dell’umanità, ibid. 1880; Le leggi storiche dell’incivilimento, Roma 1896.
Apertosi ai fatti del suo tempo, nel dicembre 1870 scrisse Gli avvenimenti del 1870 (Firenze-Roma 1870), una immediata riflessione sulla guerra franco-prussiana che suscitò larga eco: tradotta e apprezzata da Th. Mommsen in Germania, in Italia lo mise in contatto con M. Minghetti e con I. Artom. Promosso al grado di maggiore, il M. dapprima soggiornò a Vienna e, a guerra finita, pubblicò un secondo testo, poi unito al primo in Gli avvenimenti del 1870-71: studio politico e militare (I-II, Torino 1871).
Nell’opera trovavano espressione i sentimenti antifrancesi e filogermanici che circolavano in una larga parte dell’opinione liberale-moderata, inseriti in un ampio quadro storico e di civiltà: «il centro di gravità dell’incivilimento europeo – affermava il M. – doveva spostarsi e da Parigi viaggiare a Berlino» (ibid., I, p. 21). Occorreva abbandonare «l’ideale francese di un progresso vorticoso, di una democrazia plebea» per «lavorare di conserva colla Germania al trionfo della Democrazia armonica e del Progresso regolare» che contemperasse la libertà dell’individuo e l’autorità della legge (ibid., II, p. 208). Pur segnalando i pericoli insiti in una eccessiva difesa degli interessi nazionali e del permanere di elementi «feudali», il M. avrebbe poi affermato che la missione tedesca non era quella di violare le nazionalità europee, bensì di proteggerle dalla pressione slava, rigettando la Russia indietro, verso l’Asia.
Il M. era ormai uno scrittore politico affermato e non tardò a entrare alla Camera. Lasciò pertanto la Scuola torinese e si trasferì a Roma. Eletto la prima volta il 18 nov. 1874 dal collegio abruzzese di Pescina, fu riconfermato in più legislature sempre con larga maggioranza di voti, in più di una occasione decadendo a causa delle varie promozioni che segnavano il procedere della sua carriera militare, ma venendo sempre rieletto. Il 5 nov. 1876 si contrappose a G. Nicotera che ottenne 90 voti contro i 565 andati al Marselli.
L’elezione del 16 maggio 1880 venne, invece, annullata per incompatibilità, essendo egli capo di stato maggiore del VII corpo d’armata nel cui perimetro era compreso il collegio di Pescina. Confermato il 9 genn. 1881, il 10 febbraio la sua elezione fu annullata perché era completo il numero dei deputati impiegati.
Grande ammiratore di Q. Sella, di S. Spaventa e degli uomini della Destra, il M. si collocò tuttavia al centro e il 28 marzo 1876 votò contro il governo Minghetti contribuendo a provocarne la caduta. Al suo opuscolo La rivoluzione parlamentare del marzo 1876. Considerazioni (Torino 1876) è in genere attribuita la paternità dell’espressione che da allora connotò l’episodio.
Illustrando il crescendo di insoddisfazione per la politica del ministero, e in particolare per la pressione fiscale e lo statalismo ferroviario, il M. ne criticava la rigidità e l’astrattezza, e invocava una politica non «metafisica» ma «positiva» (ibid., p. 54). Citando Spencer, auspicava la formazione di una solida maggioranza progressista, pragmatica, la quale volesse «trovare la idea cardinale del suo metodo di governo nella legge di evoluzione della scienza positiva» (ibid., p. 55). Ostile all’esempio francese, che a suo dire aveva portato all’alternarsi di assolutismo e demagogia (inutilmente demagogico era per il M. anche l’allargamento del suffragio), faceva piuttosto riferimento al sistema inglese, il cui bipartitismo non riteneva però adatto all’Italia, e comunque considerava entrambi detronizzati dallo spirito prussiano che aleggiava sull’Europa. Un «gran partito liberale e progressista» avrebbe potuto nascere da uno stabile «amalgama» delle forze migliori tra i moderati di sinistra e di destra che escludesse solo la destra retriva e clericale e «gli eterni latranti» della sinistra radicale (ibid., p. 128). Verso il ruolo della Chiesa cattolica aveva parole assai dure: «La pace col presente cattolicesimo […] sarebbe la rovina dell’Italia» (ibid., p. 104); i cattolici chiedono libertà per «avvelenare le piante sociali nella loro radice, cioè nell’istruzione e nell’educazione della gioventù» (ibid., p. 112). L’orientamento filogermanico aveva anche questa valenza, perché il M. vedeva una irriducibile incompatibilità tra la religione e l’edificazione di una patria nazionale moderna, guidata dalla scienza e dal progresso. A chi proponeva la conciliazione diceva: «nessuna alleanza fra potenze inconciliabili» (ibid., p. 104). Per evitare una «recrudescenza cattolica», occorreva «ritrovare la forza o per sottoporre il papato, obbligandolo a trasformarsi, o per liberarcene, obbligandolo ad emigrare» (ibid., p. 125).
Viste deluse le speranze di costituire un forte centro parlamentare, continuò a sostenere le «idee centrali»; così in Raccogliamoci! (Roma 1878), La situazione parlamentare (ibid. 1880), La politica dello Stato italiano (Napoli 1882), in cui ribadiva la necessità di rafforzare il governo centrale, «che è rimasto una delle poche forze unificatrici della società odierna» (ibid., p. 54), mentre in Gl’Italiani del Mezzogiorno avrebbe indicato nella tradizione meridionale le radici dell’atteggiamento statalistico. Ne La politica dello Stato italiano, con accenti antiparlamentari, proponeva invece un rafforzamento dei poteri sovrani: «la facoltà di scegliere la persona cui conferire l’incarico di comporre un’amministrazione, e quella di congedarla quando lo reputi opportuno, è uno dei più alti diritti della Corona, ed è l’atto più importante del suo potere esecutivo» (ibid., p. 203); del pari andavano rafforzate la nomina regia e la struttura vitalizia del Senato. Apparteneva a tale orientamento «bismarckiano» anche l’attenzione alla questione sociale, che lo portava a dichiararsi «socialista di Stato».
Gli insegnamenti che il M. aveva tratto dalla guerra franco-prussiana riguardavano anche i suoi aspetti militari, che costituivano la specifica competenza professionale del M., la cui carriera proseguiva frattanto con la nomina a tenente colonnello nel 1875 e a colonnello nel 1878. Oltre che nella Nuova Antologia, che ospitò la maggior parte dei suoi scritti – l’elenco dei numerosi articoli apparsi nella Nuova Antologia si trova in Indici per autori e per materie della Nuova Antologia dal 1866 al 1930, a cura di L. Barbieri, Roma 1934, pp. 178 s. – il M. pubblicò anche nella Rivista militare italiana e L’Italia militare. Fra gli interventi editi in opuscolo o raccolti in volume vi furono: L’arma del genio negli eserciti, Torino 1863; L’istruzione militare e l’economia, cit.; Il problema militare della indipendenza nazionale, ibid. 1869; Il generale Jomini, Firenze 1869.
A partire dal 1878 i colonnelli del corpo di stato maggiore non potevano essere promossi maggiori generali se non avessero comandato un reggimento, e il M. passò gli anni 1882-84 al comando del 4° reggimento fanteria. Ne trasse ispirazione per La vita del reggimento (ibid. 1889), un intreccio di riflessioni e ricordi sullo spirito di corpo, la disciplina, l’istruzione dei soldati, la socialità e la cultura militare. Ma l’opera più robusta e duratura fu La guerra e la sua storia (I-III, Milano 1875-77), che fu tradotta in spagnolo (La guerra y su istoria, Toledo 1885-92) e più volte ristampata.
Essa compone in un vasto affresco una classificazione sistematica delle scienze militari, delle categorie di guerra, esercito, guerra e politica, di teoria della strategia, geografia militare, logistica, tattica, quindi dei «tipi strategici» delle grandi battaglie storiche.
Il M. fu da allora riconosciuto come uno dei più significativi scrittori italiani di cose militari. Il modello prussiano gli suggeriva la necessità di potenziare la capacità offensiva dell’esercito, di aumentarne la forza, organica e strategica, di potenziare la prima linea e le milizie mobili, di istituire un gabinetto di guerra alle dirette dipendenze del re per evitare attriti tra ministero e stato maggiore, di potenziare i reparti alpini, e via enumerando. Ma il M. non intendeva solo difendere gli interessi dei militari o premere per maggiori stanziamenti, come accadeva ai numerosi militari presenti in Parlamento che poi si scontravano con problemi di bilancio. Aveva una visione più ampia e più politica del ruolo che le forze armate avrebbero dovuto svolgere nel rafforzamento del Paese.
Contrario alla professionalizzazione della leva e all’uso dell’esercito nell’ordine interno, sosteneva semmai la diminuzione della ferma e l’innalzamento della qualità. Una «educazione militare nazionale» doveva stabilire un legame più stretto tra esercito e Paese, sia nel senso di coltivare la formazione culturale degli ufficiali (cui era stata deputata la Scuola torinese, dove peraltro non era stata risparmiata al M. l’accusa di essere troppo «filosofo»), sia nel sostenere la componente militare nell’educazione dei cittadini in senso laico, tecnico e moderno, anche per sottrarla al monopolio della Chiesa. Parlando alla Camera sul bilancio del ministero della Guerra, il 12 giugno 1891, sostenne per esempio la necessità di istituire convitti militari (diversi dai collegi, dove si formava l’ufficialità), sottolineando che i convitti governativi nazionali erano in tutto 40 con 3484 alunni, e quelli vescovili 307, con 15.891 alunni.
Il M. era in larga sintonia con il generale C. Ricotti che, tornato al ministero della Guerra nel 1884, lo chiamò ad affiancarlo come segretario generale: incarico che mantenne fino al 1887, occupandosi particolarmente di scuole militari. In quella veste, il M. accompagnò anche i primi passi dell’avventura coloniale italiana. Il colonialismo non apparteneva alla cultura liberale del tempo, e solo le delusioni maturate con il congresso di Berlino del 1878, il trattato del Bardo del 1881 e l’occupazione inglese dell’Egitto nel 1882 avevano imposto la richiesta di una politica estera più attiva.
In tal senso si espresse a più riprese anche il M. con discorsi e interpellanze parlamentari. Invitando nel 1880 B. Cairoli a un’azione «positiva, pratica», dichiarò che non si doveva cedere alle «estreme, opposte, astratte» sollecitazioni per la neutralità a qualunque costo o per l’avventurismo. L’interpellanza, la risposta di Cairoli e la replica del M. sono raccolte in Sulla politica estera dell’Italia (Roma 1880). Come esempio di avventurismo, il M. indicava l’irredentismo, che gli sembrava un’errata politica nazionalista. Sosteneva che occorrevano comitati per le esplorazioni anziché società per l’Irredenta. Era necessario tutelare la pace e l’equilibrio europeo, vigilando, armandosi e, senza mirare ad annessioni territoriali, sostenere una politica di espansione commerciale. Il M. pensava in particolare all’Africa, terra dell’avvenire, con la quale l’Italia avrebbe dovuto riattivare antichi contatti. Si comprende la sua amarezza di fronte alle sconfitte di Dogali e poi di Adua, nelle quali vide una prova dell’impreparazione militare, organizzativa e culturale contro la quale aveva sempre lottato. Peraltro la sua sistemazione antropologica degli scontri di civiltà e del sistema de Le grandi razze dell’umanità, alla quale attendeva da anni e nella quale attribuiva agli Arii il primato di tutte le razze umane per tendenza speculativa, sentimento del bello, potenza della fantasia e genio metafisico della razza, descriveva l’inferiorità delle razze africane – di «tipo scimmiesco», chiuse alla civiltà, prossime al mondo animale e destinate a rapida, totale scomparsa – con gli accenti di estremo razzismo che avrebbero accompagnato l’incontro militare degli Italiani con l’Africa.
Senza interruzioni era stata nel frattempo la sua presenza alla Camera, sempre per la componente abruzzese. Introdotto lo scrutinio di lista, il 29 ott. 1882 il M. si era presentato sia nel collegio di Cassino, che non lo aveva eletto, sia nel collegio di Sulmona, capoluogo del collegio di Aquila II, dove era risultato terzo tra gli eletti. Di nuovo eletto a Sulmona il 30 nov. 1884, questa volta ottenendo 8159 voti contro i 31 andati a P. Sbarbaro, e confermato ancora con buon successo di voti nelle legislature XVI e XVII (23 maggio 1886 e 23 nov. 1890), fu nominato senatore del Regno per la 3ª categoria con r.d. del 10 ott. 1892. Il M. era intanto avanzato di grado e nelle funzioni: maggiore generale nel 1884, nel 1890 comandò la divisione militare di Catanzaro e fu promosso tenente generale; nel 1892 era comandante in seconda del corpo di stato maggiore, e nel gennaio del 1895 comandante del VI corpo d’armata a Bologna.
Fu inoltre insignito di numerose onorificenze, fino a essere cavaliere di Gran Croce della Corona d’Italia (1895) e grand’ufficiale dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro (1897).
Colpito da disturbi mentali, contrariato dai progetti di matrimonio della figlia, che a lungo lo aveva accompagnato negli studi, il M. si suicidò in concomitanza delle nozze, il 26 apr. 1899 a Roma.
Le spoglie, tumulate al Verano, nel 1902 furono traslate nel cimitero di Napoli, dove nel recinto degli uomini illustri per pubblica sottoscrizione gli fu eretto un monumento, opera di E. Mossuti.
Fonti e Bibl.: Non sono state individuate carte personali; tuttavia Lettere inedite dall’archivio del generale M. (allora conservate dalla figlia) sono state pubblicate a Roma nel 1947, a cura di N. Giacchi (vi si può leggere lo stato di servizio del M.). Tra le commemorazioni: C.O. Pagani, Per N. M. nel primo anniversario della sua morte, in Nuova Antologia, 1° ott. 1900, pp. 452-467; Id., Il primo apostolo della Triplice Alleanza, in Riv. politica e letteraria, 15 dic. 1900, pp. 68-95; 15 marzo 1901, pp. 49-81; Id., Per N. M. nel settimo anniversario della sua morte, in Riv. militare italiana, LI (1906), pp. 2166-2188 (con lettere inedite del M. e a lui destinate). Informazioni bio-bibliografiche sono in: G. Gentile, N. M. e i problemi storici, in Origini della filosofia contemporanea in Italia, II, I positivisti, Messina 1921, pp. 85-121; E. Boccaccia, Profilo biografico, premesso alla riedizione speciale (ridotta) di N. Marselli, La guerra e la sua storia, Torino 1930, pp. 7-24; F. Rizzo Celona, N. M. tra hegelismo e positivismo, prefaz. alla riedizione de La scienza della storia, I, Le fasi del pensiero storico, Napoli 1987, pp. VII-LXI; G. Oldrini, N. M. filosofo (1980), in Id., Napoli e i suoi filosofi. Protagonisti, prospettive, problemi del pensiero dell’Ottocento, Milano 1990, pp. 212-244. Si vedano inoltre: F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1876 al 1896, Roma 1951, ad ind.; P. Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano-Napoli 1955, pp. 275-299; G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino 1956, ad ind.; S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Padova 1979, pp. 190-200; N. Labanca, Il generale Cesare Ricotti e la politica militare italiana dal 1884 al 1887, Roma 1986, ad ind.; G. Cacciatore, La lancia di Odino. Teorie e metodi della scienza storica tra Ottocento e Novecento, Milano 1994, ad ind.; M. Nani, L’immaginario razziale di un ufficiale della nuova Italia: N. M., in Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1940, a cura di A. Burgio, Bologna 1999, pp. 63-73.