CORSINI, Neri
Nacque a Firenze il 19 maggio 1685, secondogenito di Filippo marchese di Lajatico, Orciatico, ecc. - fratello di Lorenzo, futuro papa Clemente XII - e di Lucrezia dei marchesi Rinuccini. Appartenente ad antica e ricchissima famiglia patrizia di origine mercantile e bancaria, a sette anni fu ammesso tra i cavalieri di S. Stefano e prestissimo a corte quale paggio di Cosimo III; giovanissimo, fu ascritto alle principali accademie, fra le quali, nel 1704, la Crusca. Grazie al nutrito carteggio da lui intrattenuto col fratello primogenito Bartolomeo, solo erede del titolo e dei beni, vincolati con fidecommisso (Cors. 2484-2487 ter) e ad altri documenti conservati nella Biblioteca dell'Accademia dei Lincei è possibile ricostruire il primo periodo della vita del C., finora sconosciuto: nella primavera del 1709 intraprese, con l'aiuto finanziario del fratello, un lungo viaggio per l'Europa, di piacere e d'istruzione, ma anche volto a prendere contatti con le corti e con la diplomazia europea, alla ricerca di un incarico ufficiale. Dopo una lunga sosta a Parigi, da dove continuò a seguire attentamente i vasti interessi finanziari della famiglia, in Toscana e fuori di essa, e da dove forniva notizie sulla guerra in corso per la successione spagnola, passò nel 1710 nei Paesi Bassi, e nella primavera del 1711 a Londra; quindi, nell'estate, soggiornò in diverse capitali tedesche, e, infine, dal giugno 1712 all'aprile 1713, a Vienna. Per tutto questo tempo si mantenne regolarmente in contatto epistolare anche con lo zio Lorenzo, cardinale in Curia, tanto per consigliarlo sugli interessi economici e politici della famiglia, quanto per ragguagliarlo minuziosamente sulle vicende della guerra e sulle trattative di pace: nelle sue lettere, difendendo spesso con calore l'indipendenza della Toscana e degli altri Stati italiani dalle pretese delle potenze, paventava i pericoli "d'una pace alla quale la nostra Italia rimarrà in una infelice schiavitù" (Cors. 2476: allo zio Lorenzo, da Parigi, il 22 sett. 1710). Rientrato in Italia nell'estate del 1713, si fermò presso lo zio, a Roma, cercando sempre, tramite l'intercessione del fratello, di ottenere dal granduca Cosimo III un incarico diplomatico a Parigi o a Londra. Finalmente, il 15 maggio 1716, veniva nominato inviato straordinario a Parigi con lo incarico di presentare le congratulazioni al nuovo re Luigi XV a nome del granduca, a cui inviava da Parigi regolari rapporti, così come, segretamente però, mandava a Roma, al cardinale, relazioni sulle questioni politiche e religiose francesi più importanti. Nello stesso anno redasse una Scrittura sulla libertà di Firenze (Cors. 1199. cc. 44r-49r) che segna l'inizio dei suoi studi relativi alla storia e alla diplomatica fiorentina e della raccolta di materiale documentario sulla questione toscana, che utilizzerà poco più tardi. Infatti nel marzo del 1718 (e non nel 1719, come afferma Passerini, pp. 176-177) iniziò, prima a Londra, poi all'Aja e infine di nuovo a Parigi, negoziati per conto del granduca con le corti europee per sventare le pretese imperiali e spagnole sull'eredità toscana e per rivendicare il pieno diritto granducale a disporre liberamente della successione.
In questa prima fase della sua attività, fin qui poco nota eppure decisiva per la formazione del futuro esponente politico dello Stato ecclesiastico e dei suoi legami con le grandi potenze, il C. cercò soprattutto l'appoggio della corte inglese, a cui prospettava i pericoli che sarebbero derivati da una dominazione austriaca o spagnola in Toscana per l'equilibrio dell'Italia e dell'Europa, soprattutto in relazione al controllo del porto di Livorno, in cui considerevoli erano gli interessi inglesi (cfr. Memoria presentata a S. M. Britannica dal marchese Neri Corsini inviato straordinario di Toscana, in Cors. 1354: Lettere e negoziati del marchese N. C., cc. 127 ss.).Sosteneva perciò l'interesse inglese alla neutralità della Toscana, ripercorreva la storia del passaggio di Firenze dalla repubblica al principato per respingere le pretese imperiali di altà sovranità, e infine, chiedeva la successione in linea femminile dell'elettrice palatina Anna Maria, figlia di Cosimo.
Dopo che il trattato di Londra della Quadruplice alleanza (agosto 1718) ebbe assegnato, proprio su proposta inglese, l'eredità toscana a don Carlos di Borbone, il C., nell'agosto 1720, fu nominato dal granduca suo plenipotenziario al congresso che doveva tenersi a Cambrai per avviare l'esecuzione del trattato. Durante i lunghissimi preliminari che rimandarono di anni l'apertura del congresso, il C. consegnò, nei primi mesi del 1721, ai rappresentanti diplomatici presenti a Cambrai una Scrittura sopra la libertà di Firenze o Informazione sopra la pienissima Libertà, et independenza da chi, che sia del Dominio Fiorentino, per dilucidare tutti ifalsi supposti disseminati in pregiudizio alla medesima (l'originale in Cors. 1199, cc. 214r- 235v) da lui redatta ma concordata col segretario di Stato Montemagni.
In essa il C. sosteneva la tesi dell'assoluta indipendenza dello "Stato Vecchio" fiorentino (benché, secondo Robiony, p. 226, non ne fosse egli stesso completamente persuaso), negando le pretese feudali dell'Impero. Lo scritto accese una battaglia storico-giuridica: infatti da parte imperiale furono subito contrapposti alla Scrittura un Examen du mémoire sur la liberté de l'Etat de Florence, s. l. né d., e, soprattutto, una Exercitatio iuris publici de iure Imperii in Magnum Ducatum Etruriae habita in Academia Lipsiensi die IX Decem. 1721, di Johann Jacob Mascov, a cui il granduca fece replicare da G. Averani (non da N. Antinori, come afferma Passerini, p. 177) con il De libertate civitatis Florentiae eiusque Dominii, Pisis1721, in realtà fatta stampare clandestinamente a Parigi dallo stesso C. nel 1722 ("perché la nostra ancora paia un'opera di Università e perché apparisca, ancorché nessuno lo possa credere, stampata avanti che si fosse veduta quella di Lipsia e Robiony, p. 227), e da lui divulgata presso le corti europee. Seguirono altre risposte da parte austriaca, ma la guerra di opuscoli non portò alcun giovamento alla Toscana, e al C. non restò che presentare a nome del granduca, il 25 ott. 1723, una formale protesta, del tutto vana, che fece registrare negli atti del congresso: Protestatio Nomine Regiae Celsitudinis Magni Ducis Hetruriae diei XXV oct. 1723 adversus Tractatus initos aut ineundos super praetensa concessione eventualis investiturae Status Florentini (a stampa e manoscritta in Cors. 2013, cc. 569r-571r).
Il 31 ott. 1723 moriva Cosimo III e, accordatesi finalmente Spagna e Austria sulla soluzione toscana a favore di don Carlos, al nuovo granduca Gian Gastone non restò che l'inutile arma di una seconda protesta (gennaio 1724), che il C. giudicava inopportuna, essendo ormai convinto dell'inutilità e anzi della dannosità di una opposizione toscana ad oltranza. In questo periodo redasse pure una Relazione della minoretà del Re Cristianissimo Luigi XV (1723), e una Relazione istorica della Quadruplice Alleanza e del Congresso di Cambrai (1724), inedite (i due manoscritti in Cors. 1353 e, in minuta, ibid. 2521).
Da tempo ormai impaziente di far ritorno in patria, il C. nella primavera del 1725 lasciava Cambrai e faceva ritomo a Firenze, ove ricopriva la carica, conferitagli già da Cosimo, di capitano della guardia dei trabanti. Ma irritato per l'ingratitudine ed il mancato pagamento dei suoi servizi, da parte di Gian Gastone, e insoddisfatto nei confronti di un governo che stimava inetto e dal quale non intravvedeva la possibilità di avanzamenti, tra la fine del 1727 e l'inizio del 1728, si trasferì a Roma con funzioni di segretario presso lo zio. L'elezione al pontificato di questo, avvenuta il 12 luglio 1730, e alla quale sembra che il C. avesse già lavorato, senza successo, a Cambrai per il conclave del 1724, fu anche opera sua. Egli vi contribuì infatti premendo sulla Austria, ostile ai cardinali toscani, tanto facendo intervenire la corte granducale e servendosi di tutte le amicizie contratte durante la sua attività diplomatica, quanto con una vera e propria opera di corruzione (Zanelli, p. 55, e Petruccelli della Gattina, IV, p. 84).
Ebbe allora fine la sua carriera diplomatica e militare ed iniziò quella ecclesiastica. Infatti, spinto dagli amici e, pare, dal cardinal Davia, il C. si decise ad abbracciare la condizione ecclesiastica: tonsurato già il 23 luglio 1730, fu contemporaneamente ammesso in prelatura quale segretario dei Memoriali e referendario delle due Segnature; il 14 agosto fu creato dallo zio cardinale in pectore e pubblicato l'11 dicembre successivo: ordinato diacono il 27 dicembre ebbe i titoli di S. Adriano (8 genn. 1731) e successivamente di S. Eustachio (6 maggio 1737). Iniziò così la sua rapidissima ascesa di cardinal nepote: sovraintendente al porto d'Anzio (23 ott. 1730), protettore dell'Ordine dei serviti (23 maggio 1732) e poi anche dei domenicani, prefetto della Segnatura di giustizia (2 marzo 1733), protettore del regno d'Irlanda (17 maggio 1737) e poi di quello del Portogallo (1739), membro di tutte le congregazioni più importanti e, soprattutto, segretario del S. Uffizio. Con la cecità e la malattia del papa e dopo la morte del segretario di Stato A. Banchieri (1733), che il C. fece sostituire col debole G. Firrao, la sua influenza e il suo ruolo in tutte le branche di governo divennero preponderanti. Ma nonostante la sua passata esperienza politica a livello europeo e le potenti amicizie contratte apparve assai meno capace di quanto ci si poteva attendere o, almeno, troppo schiacciato dalla ricerca di un difficile equilibrio fra gli interessi papali e dello Stato e quelli della famiglia, spesso prevalenti. Timoroso di ogni passo troppo deciso che potesse indebolirlo di fronte alle potenze e nella Curia alla morte del papa, sempre temuta prossima, il suo governo e la sua politica familiare vennero a cozzare, all'interno, con la grave crisi economica, finanziaria e demografica che lo Stato attraversò nel decennio 1730-40, e, all'esterno, coi conflitti fra la S. Sede e il regalismo delle corti.
Di qui il duro giudizio e la sottovalutazione espressi sul C. e sulle sue capacità di uomo di Stato da alcuni contemporanei - il De Brosses lo definiva di "scarso spirito, meno cervello, nessuna capacità" - e anche da qualche storico, che hanno giudicato come frutto di timidezza e di inettitudine atteggiamenti dettati dall'ambizione e dall'interesse della famiglia e che, in ogni caso, indussero però in quel periodo il Papato a moderazione nei conflitti con le potenze e nelle questioni religiose nate in Francia dall'opposizione alla bolla Unigenitus (documenti sul governo dello Stato nel pontificato di Clemente XII in Cors. 1172, 1171. 1384).
Gli ultimi anni del pontificato furono anche i più difficili per il prestigio del C. e di tutta la casata: nel 1736, mentre lo Stato era rovinosamente coinvolto nella guerra di successione polacca, scoppiati i tumulti antispagnoli provocati, a Roma e dintorni, dagli arruolamenti forzati, il C. dovette fronteggiare da una parte i sospetti di connivenza con la Spagna e il conseguente malcontento popolare, e, dall'altra parte, la rottura con Madrid e con Napoli, contraria agli interessi della famiglia a causa della carriera politica intrapresa dal fratello Bartolomeo proprio al servizio di don Carlos, che nel 1737 lo sceglierà quale viceré di Sicilia. Nel 1739, infine, la fallita occupazione di San Marino da parte dello Stato della Chiesa, anche se fu addossata dal C. all'Alberoni, recò un altro colpo, oltre che a tutto il Papato, al prestigio personale del cardinale, già minato dalle voci che lo dipingevano esclusivamente dedito all'innalzamento dei propri parenti e soprattutto dalla incapacità di sanare la rovinosa situazione finanziaria e monetaria dello Stato, resa ancora più grave dalla guerra.
Decisivo - e non subordinato come sostenne il de Brosses - fu il ruolo sostenuto dal C. nel lungo e tormentato conclave del 1740: a capo del numeroso gruppo di cardinali "clementini" e forte dei legami che aveva con le potenze borboniche, brigò, appoggiandosi alla fazione dei cardinali francesi, e in particolare al Tencin, ma anche a quella imperiale, per giungere, contro il partito del camerlengo Annibale Albani, alla promozione di una creatura di Clemente XII. Secondo quanto scrisse lo stesso C. (Storia del Conclave tenuto nel 1740..., in Cors. 1618, cc. 200r-204r), egli, per ottenere l'appoggio dei cardinali francesi, rivendicò a suo merito il comportamento compiacente tenuto dalla Curia nei confronti della Francia durante il decorso pontificato; e infatti lo stesso cardinal Fleury mandò istruzione al Tencin di appoggiare, unitamente alle Corone spagnola e austriaca, la fazione del Corsini. Ma poi, fallite le candidature dei "clementini", decisivo fu il voto del suo "partito" per l'elezione del Lambertini.
Durante il pontificato di Benedetto XIV - che gli conferì, sia pure riluttante, l'importante arcipretura di S. Giovanni in Laterano - egli conservò una funzione politica rilevante, nonostante una serie di contrasti con il papa, il quale giudicava assai duramente tanto la gestione finanziaria dello Stato tenuta dal C. nel pontificato precedente, quanto le sue responsabilità per la lunghezza del conclave del 1740 e la successiva pretesa del cardinale di far pesare il debito di riconoscenza per la sua elezione, con la richiesta di benefici per i propri protetti. Altro motivo di attrito con Benedetto XIV fu la protezione accordata dal C. ai maneggi del frate cappuccino Norberto, aderente alla causa dei giansenisti olandesi, nonostante che il papa personalmente lo avesse ammonito a dissociarsene ("peccato della famiglia che sempre ha protetto e protegge i birbanti", scriveva Benedetto XIV al Tencin nel novembre del 1748: Le lettere di Benedetto XIV, II, p. 103). Fra i cardinali più "politici" della Curia, il C. ricoprì sostanzialmente in questo periodo il ruolo di capo del partito di opposizione a Benedetto XIV e ai suoi concordati con i sovrani, ritenuti dei veri e propri cedimenti da chi, come il C., era fondamentalmente legato ai vecchi schemi di una politica ecclesiastica "curiale" e intransigente con le rivendicazioni regalistiche dei sovrani (M. Rosa, Riformatori..., p. 116).
Nello stesso arco di tempo, dal 1730 al 1758, fu rilevante anche il ruolo culturale e religioso del Corsini. Fin dal 1730 era in stretto contatto epistolare col cardinal Fleury (Cors. 1174 e 1175) con cui discuteva sui problemi relativi al giansenismo in Francia, e seguì sempre attentamente le questioni politico-religiose francesi, sulle quali era informato personalmente dai nunzi a Parigi (Cors. 1176, 1177, 2003, 1619).
Era in corrispondenza anche con i cardinali A. de Rohan, P. Guérin de Tencin e H. de Bissy. Nel periodo 1730-40, quando cioè aveva responsabilità dirette di governo, il suo atteggiamento era stato assai critico nei confronti del giansenismo ("gli errori - di Giansenio, e di Quesnel"), delle sue manifestazioni "convulsionarie" ("un falzo santo, e finti Miracoli"), e soprattutto dell'ingerenza del Parlamento parigino ("un corpo così furibondo") negli affari religiosi, e aveva rivelato una visione della questione esclusivamente politica, e tutta rivolta alla difesa ad oltranza dell'autorità e del potere del papa.
È a metà degli anni '40, cioè nel pontificato successivo, parallalemente all'analoga evoluzione avvenuta nel suo protetto e amico, G. G. Bottari, e all'organizzarsi del fronte antigesuitico sotto il "tollerante" pontificato lambertiniano, che si delinea il filogiansenismo, anche dottrinale, del C., e il suo antigesuitismo. Il cardinale verrà acquistando, allora, la nota fama di protettore dei rigoristi e dei filogiansenisti italiani, che spesso a lui dedicarono le loro opere: ad esempio, D. Concina, T. M. Mamachi, G. Lami, P. F. Foggini, M. Natali. Il "circolo del Archetto", sorto nel 1749 intorno al Bottari e al Foggini, troverà la sua sede compiacente a palazzo Corsini. Proprio il C., inoltre, cercherà, vanamente, di ottenere da Benedetto XIV una riconciliazione coi giansenisti olandesi, fondata soltanto sull'"abiura, dei dogmi di Giansenio" e non come voleva il papa, sull'accettazione "pure et simpliciter"della Unigenitus (Le lettere..., II, pp. 91, 102 s., 159).
Contemporaneamente il mecenatismo del C. si manifestò nella protezione accordata a letterati, storici ed eruditi di tendenza rigoristica, tanto a Roma - ove, nel 1730, accolse nel suo palazzo e favorì nella carriera G. G. Bottari e ove chiamò nel 1732, G. A. Orsi, quale suo teologo e, nel 1742, P. F. Foggini - quanto anche in Toscana, dove la riscoperta del mondo umanistico che nasceva sulle nostalgie per l'età medicea, trovava un punto di riferimento proprio nel cardinale; questi nel 1739 aveva ottenuto dal riluttante Francesco Stefano di Lorena, nuovo granduca, la persecuzione della massoneria a Firenze e l'arresto e il processo di Tommaso Crudeli; negli anni successivi capeggiò l'opposizione alla Reggenza e alle sue riforme condotta dal più antico patriziato e fomentò la tensione fra Roma e la Toscana sollecitando condanne papali dei provvedimenti giurisdizionalistici adottati dalla Reggenza (Cors. 2521, n. 5; vi sono conservati suoi appunti critici, probabilmente di questo periodo, sulle leggi dei fidecommissi e delle manimorte). Nel 1736 acquistò il palazzo del Riario in via della Lungara che, restaurato da F. Fuga, accolse sia la ricchissima biblioteca (più di quarantamila volumi) donatagli nel 1733 dallo zio, che egli contribuì ad accrescere e che aprì al pubblico nel 1754, sia la propria celebre raccolta di stampe, iniziata fin dagli anni della sua attività di diplomatico. Fece anche restaurare le chiese di S. Isidoro e di S. Eustachio.
Per nulla digiuno di studi - come hanno invece sostenuto N. Del Re, Enciclopedia cattolica, IV, s. v., e Dammig, p. 231 - dai suoi copiosi appunti appare l'attenta lettura della produzione storica e storico-ecclesiastica migliore: dalla Storia del Guicciardini all'Istoria civile del Giannone, alle storie di Francia del de Mazéray e del Davila, alla Storia d'Inghilterra del Savary, agli Annali muratoriani,all'Esprit des lois del Montesquieu, al Siècle de Louis XIV del Voltaire, alla Storia delle guerre avvenute in Italia dell'Ottieri, alle storie ecclesiastiche del Racine, del Fleury e del Tillemont (Cors. 2519 e 2520). Tuttavia, a parte gli interessi reali per la storia fiorentina legati alla sua prima attività diplomatica e alle sue origini, queste letture sfociano spesso in giudizi riduttivi che mostrano la sua totale chiusura e incomprensione per la nuova cultura. Se la critica alla sezione settecentesca (vol. XII) degli Annali del Muratori, ripresa da G. Cenni nelle sue stroncatorie recensioni sul Giornale de' letterati (1750), si limita a sottolineare le inesattezze storiche presenti nell'opera, gli appunti e il duro giudizio sull'Esprit des lois, redatti in connessione con la discussione in corso presso la Congregazione dall'Indice, sono superficiali e frettolosi sul piano dottrinale, e mostrano una preoccupazione, essenzialmente "politica", di limitare le conseguenze perniciose di una diffusione dell'opera (Rosa, Riformatori, pp. 114-115). Più aperto invece, stranamente, il giudizio sul Siècle de Louis XIV, letto e commentato nell'edizione di Dresda del 1752, probabilmente ancora in connessione con la discussione in Congregazione delle opere di Voltaire: lo definisce infatti "uno de' più bei monumenti della penna di Volterre", sebbene si mostri sospettoso relativamente alla parte sulla religione e puntiglioso nel ristabilire l'esattezza dei fatti narrativi. Del C., infine, ci sono pervenute alcune composizioni poetiche e un sonetto romanesco su Federico II (Cors. 2523, n. 7).
Nel conclave del 1758 ancora una volta il C. ebbe una parte importante: escluso dal numero dei candidati come tutti i toscani, ritenuti sudditi austriaci, e non gradito alla stessa Austria per il suo passato atteggiamento antilorenese e per il suo filoborbonismo, il C. come capo del "collegio vecchio" si alleò con gli "zelanti" del cardinale G. Spinelli e riuscì a far cadere la forte candidatura di A. Archinto e a imporre un cardinale del proprio partito, il Rezzonico (Cors. 2521, n. 8: Diario e documenti sul conclave di Clemente XIII), il quale si sdebitò con lui nominando cardinale il nipote Andrea Corsini. Tuttavia anche i rapporti con Clemente XIII furono molto burrascosi: l'ostilità nei confronti del segretario di Stato, il filogesuita L. Torrigiani, da quest'ultimo ricambiata (B. Tanucci scriveva a G. Bottari il 5 genn. 1760 che se il Torrigiani fosse divenuto papa avrebbe dato la corda al C. per il suo antigesuitismo: Jemolo, p. 103), gli faceva giudicare negativamente anche la politica di intransigente difesa dei privilegi ecclesiastici nei confronti dei sovrani che il C. condivideva sostanzialmente, ma che vedeva attuata senza alcuna abilità e accortezza. Il Torrigiani che dominava secondo il C. un papa debole, era "senza cognizione delle cose estere, e poco adattato a trattare con i Ministri, attesa la sua asprezza ne' fatti, e nelle parole", e aveva portato il papa alla rottura e allo scontro con tutte le corti, soprattutto sulla questione dei gesuiti (Cors. 1552, Osservazioni sui primi eventi del pontificato di Clemente XIII, c. 2r).
Il C. ne criticava il comportamento nel corso della crisi diplomatica col Portogallo, e quale protettore di quella Corona e amico dell'ambasciatore Almada, cercò di sostituirsi al Torrigiani nelle trattative tra le due corti, e protesse l'editore di libri antigesuitici Pagliarini dalla persecuzione che seguì alla rottura dei rapporti diplomatici col Portogallo (1760). Quale segretario del S. Uffizio si schierò contro la proibizione della traduzione italiana del catechismo dell'appellante F. Mésenguy (1761); tuttavia non condivise la lettera pastorale, che definiva "temeraria", del vescovo giansenista Fitz-James rivolta tanto contro le tesi teologiche dei gesuiti quanto in favore dei quattro articoli gallicani; finì anche per accettare la condanna papale (settembre 1762) delle decisioni prese dai Parlamenti francesi sulla soppressione dei gesuiti in Francia perché convinto che i Parlamenti "usurpassero l'autorità della Chiesa e del suo capo" (ibid., c. 146r).
Durante il pontificato di Clemente XIII il filogiansenismo del C. si andò accentuando, ma più che per interne motivazioni dottrinali per motivi di "politica ecclesiastica", in relazione tanto alla crescente influenza dei gesuiti nella Curia romana, quanto alla contrapposizione fra i due partiti che si andava facendo sempre più violenta, anche in connessione con le misure antigesuitiche adottate dalle corti cattoliche. Nel 1759 insistette per un intervento papale di difesa e di riconoscimento ufficiale della dottrina agostiniana, come sollecitava il generale degli agostiniani Vazquez; mantenne rapporti con la Chiesa giansenista olandese e col suo emissario A. J. Clément e si adoperò per impedire la condanna del sinodo di Utrecht del 1763. Benché fosse più un politico che un teologo, il C., sotto l'influsso del Bottari e del Foggini - anche se non sempre fu così ligio ai loro pareri come sostiene Dammig - esercitò tutta la sua influenza di segretario del S. Uffizio in difesa delle tesi del suo entourage, soprattutto mediante la condanna di pubblicazioni filogesuitiche (Dammig, pp. 292-295): nonostante le proprie simpatie però non tentò affatto di impedire la condanna di opere episcopaliste e contrarie alla centralità papale, come il De statu Ecclesiae di Giustino Febronio (Cors. 2557, cc. 61r-81v). La medesima carica nel S. Uffizio, punto chiave romano della battaglia antilluminista sferrata nel corso del papato di Clemente XIII, rese il C. protagonista anche delle condanne emanate nel 1759 contro il De l'esprit di Helvètius e soprattutto contro l'Encyclopédie, anche nell'edizione lucchese, le cui note riteneva insufficienti a correggere gli errori di "autori pessimi" (Cors. 1484, cc. 184r-226r).
Nel conclave del 1769, tutto dominato dalla questione della soppressione della Compagnia di Gesù, il ruolo del C., ormai ottantaquattrenne, fu minore: benché segnalato fra i cardinali "buoni" dalla Spagna, la sua età non lo rendeva papabile. Il suo antigesuitismo però non gli impedì di respingere la proposta dei ministri spagnolo e francese di fare impegnare il cardinale da eleggersi, prima della votazione, a sopprimere la Compagnia. Egli non riuscì a vederne l'abolizione perché morì a Roma il 6 dic. 1770 (non nel 1771, come sostengono Jemolo e Codignola). Fu sepolto nella magnifica cappella di famiglia, consacrata a S. Andrea Corsini, fatta costruire dallo zio Lorenzo e da lui stesso nella basilica di S. Giovanni in Laterano.
Fonti e Bibl.: A Roma, nella Bibl. dell'Acc. naz. dei Lincei, sez. Corsiniana, sono conservati e inventariati i fondi dell'archivio Corsini relativi alla vita e all'attività del Corsini. Oltre a quelli già citati nel testo si possono ricordare i codici Cors. 1354-57 e 2010-14 per la fase di diplomatico mediceo, analoga e corrispondente document. è conservata anche nell'Arch. di Stato di Firenze, Archivio Mediceo del Principato: M. Del Piazzo, Gli ambasc. toscani, del Principato (1537-1737), in Not. degli Archivi di Stato, XII (1952), 1, pp. 78, 85; i Cors. 2502-18 per i carteggi; i Cors. 2519-62 bis per gli appunti e le carte private; i Cors. 1479-91 e 255-57 bis per i verbali e le cause trattate dal S. Uffizio dal 1733 al 1770. Per gli altri codici si rimanda agli inventari dei manoscritti corsiniani e, per i carteggi, ad A. Silvagni, Catalogo dei carteggi di G. G. Bottari e P. F. Foggini, a cura di A. Petrucci, Roma 1963, ad Indicem. In particolare, si veda E. de Heeckeren, Correspondance de Benoît XIV, Paris 1912, II, ad Indicem; E. Codignola, Carteggi di giansenisti liguri, I,Firenze 1941, pp. XV, XVII; Le lettere di Benedetto XIV al card. de Tenein, a cura di E. Morelli, I, Roma 1955, pp. 55 s., 131, 153, 267, 293, 348, 424, 433, 440, 446, 447, 455; II, ibid. 1965, pp. 36, 61, 91, 103, 121, 133, 228, 243, 244, 273, 398, 535 s.; M. Caffiero, Lettere da Roma alla Chiesa di Utrecht, Roma 1971, pp. 47, 52, 56-58, 68, 70, 71; C. de Brosses, Viaggio in Italia, Lettere familiari, Bari 1973, ad Indicem. Sul C.si vedano inoltre: M. Guarnacci, Vitae, et res gestae Pontificum Roman. et S. R. E. Cardinalium a Clemente X usque ad Clementem XII, II, Romae 1751, coll. 603-606; L. Cardella, Mem. stor. de' cardinali della S. Romana Chiesa..., VIII,Roma 1794, pp. 244-246; A. Zobi, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, I, Firenze 1850, p. 61, e App., pp. 7-9; A. Theiner, Histoire du Pontificat de Clément XIV, Paris 1852, I, pp. 188 s., 199, 222, 225; L. Passerini, Genealogia e storia della fam. Corsini, Firenze 1858, pp. 176-181; F. Petruccelli della Gattina, Histoire diplom. des conclaves, IV,Paris-Bruxelles 1866, pp. 78 ss., 84, 96, 106, 110-132, 145-163, 174, 189-195; A. Zatielli, Il conclave per l'elez. di Clemente XII, in Arch. della Soc. rom. di storia patria, XII (1890), pp. 55 s., 92 s.; F. Sbigoli, T. Crudeli e i primi framassoni in Firenze, Milano 1884, pp. 166-169, 171; App. pp. XVIII-XXII; F. Gandino, Ambasceria di M. Foscarini a Roma (1737-1740), in Miscellanea di storia veneta, serie 2, II(1894), 7, pp. 4, 6, 17, 18, 20, 27, 34, 37, 38, 52-77; E. Robiony, Gli ultimi Medici e la successione al Granducato di Toscana, Firenze 1905, pp. 157 n, 164, 167, 172, 174, 183, 188-190, 196, 213-232, 234-237, 243; N. Rodolico, Stato e Chiesa in Toscana durante la reggenza lorenese, Firenze 1910, pp. 170, 174 ss., 206-207, 241 n. I, 355; A. C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della rivoluzione, Bari 1928, pp. 103-105, 108 n., 113 s., 213 n., 218 n., 219, 237; L. von Pastor, Storia dei Papi, XV e XVI, 1-2, Roma 1933, ad Indices; E. Dammig, Il movimento giansen. a Roma nella seconda metà del sec. XVIII, Città del Vaticano 1945, pp. 228-231 e ad Indicem; E. Codignola, Illuministi, giansenisti e giacobini nell'Italia del Settecento, Firenze 1947, pp. 67, 68, 73, 77, 198, 201; O. Pinto, Storia della Biblioteca Corsiniana e della Biblioteca dell'Accademia dei Lincei, Firenze 1956, pp. 24, 25, 33-35, 40, 42, 59; P. Orzi Smeriglio, I Corsini a Roma e le origini della Biblioteca Corsiniana, in Mem. d. Accad. naz. dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 8, VIII (1958), pp. 291-331; F. Venturi, Alle origini dell'Illuminismo napoletano. Dal carteggio di B. Intieri, in Riv. storica ital., LXXI (1959), pp. 419, 420, 422, 425; E. Appolis, Entre jansénistes et zelanti. Le "tiers parti" catholique au XVIIIe siècle, Paris 1960, ad Indicem; P. Berselli Ambri, L'opera del Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, pp. 21, 39, 53, 214 ss.; V. Corsini, I Corsini, Milano 1960, pp. 39-41; L. Berra, Il diario del conclave di Clemente XIV del card. Filippo Maria Pirelii, in Archivio della Soc. rom. di storia patria, LXXXV-LXXXVI (1962-63), pp. 43, 47, 50 s., 62 s. e passim; L. P. Raybaud, Papauté et pouvoir temporel sous les pontificats de Clément XII et Benoît XIV. 1730-1758, Paris 1963, pp. 16-18, 20, 25, 33-36, 53, 57, 75, 104 s. (rec. di G. Ricuperati, in Riv. stor. ital., LXXVIII [1966], pp. 731-737); [A. Petrucci], Sonetto romanesco del cardinale, in Cronache d'altri tempi, XI (1964), 120, s. p.; M. Monaco, Critiche e annotaz. del cardinale N. C. (1685-1770) alla sezione settecentesca degli "Annali d. Italia" di L. A. Muratori, in Muratoriana, boll. n. 14, Modena 1967-68, pp. 59-99; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, ad Indicem; M. Rosa, Riformat. e ribelli nel '700 religioso italiano, Bari 1969, ad Indicem; G. Troisi, Nuove fonti sui tumulti romani del 1736, in Studi romani, XX (1972), 3, pp. 340-348; M. Rosa, Encyclopédie, "lumières" et tradition au 18e siècle en Italie, in Dix-huitième siècle, 1972, n. 4, pp. 141-142, 145, 147; E. Borsellino, Il card. N. C. mecenate e committente, in Boll. d'arte, LXVI (1981), 10, pp. 49-66; G. Moroni, Diz. di erud. stor. eccles., V, pp. 235-36; XVII, pp. 284-286; Encicl. catt., IV, coll. 659 s.; Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., XIII, col. 918; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, VI,Patavii 1958, pp. 5 e n., 16 s., 50 s.