CALDARELLI, Nazareno (noto con lo pseud. Cardarelli Vincenzo)
Nacque a Corneto Tarquinia (Viterbo) il 1ºmaggio 1887 da padre ignoto all'anagrafe (ma Antonio Romagnoli) e da Giovanna Caldarelli, di umilissime condizioni.
Di lei il C. fa appena cenno nella sua opera; resta comunque nella sua poesia una dolorosa nostalgia dell'affetto materno (si vedano in particolare le liriche Ballata e Sopra una tomba).Ancor fanciullo, conobbe invece il padre con cui visse diversi anni. Questi, marchigiano, di umili condizioni, gestiva a Tarquinia il caffè della stazione ferroviaria. Era soprannominato "il bisteccaro" (in dialetto cornetano, uomo di modesta condizione economica) sicché il figlio, per una malformazione della mano sinistra, era schernito come "il bronchetto del bisteccaro". Il C. tenne sempre nascoste le origini di illegittimo e le condizioni dei suoi. Nella sua opera può cogliersi un moto di sincera simpatia verso la matrigna con cui visse tre anni amato come un figlio. Ma l'essere oggetto di scherno da parte dei concittadini gli causò un vero e proprio trauma di cui è prova quella sua continua difficoltà di rapporti, dominati ora dall'odio, ora dall'amore. La trasfigurazione mitica degli aspetti naturali e la rievocazione fantastica dell'antica storia etrusca della terra natale (sentita come diretta eredità) coincidono in lui col mito dell'infanzia, un'età favolosa che gli nasconde una dolorosa realtà ritenuta umiliante e lesiva.
Il padre avrebbe voluto fare del figlio un commerciante: gli impedì perciò studi regolari, e cercò di tenerlo lontano da ogni attività intellettuale. Appena diciassettenne il C. è già lontano da Tarquinia e dal padre tirannico, e fa proprie le idee socialiste. Nel 1906, dopo la morte del padre, si trasferisce a Roma: fa il galoppino presso un avvocato socialista, quindi si impiega nella segreteria della federazione dei metallurgici, poi è contabile in una cooperativa repubblicana di scalpellini. Per un lungo periodo è disoccupato, finché entra come correttore di bozze e poi redattore e critico teatrale dell'Avanti!. Prende a frequentare gli ambienti letterari, segnatamente il caffè Aragno, la cui "terza saletta" vedeva convergere il fior fiore degli scrittori e artisti che vivevano o capitavano saltuariamente nella capitale. Quando l'Avanti! si trasferì nel 1911 a Milano, il C. decise di rimanere a Roma. Invece dopo poco andò ad abitare a Firenze, che poteva allora considerarsi la capitale culturale. Collaborò al Marzocco dei fratelli Orvieto, cui dava prestigio la collaborazione del Pascoli e del D'Annunzio, ma preferì di lì a poco LaVoce nella quale pubblicò un primo articolo su Péguy (n. 36 del 1911). Contemporaneamente comparvero sulla rivista romana Lirica sei sue poesie, entrate più tardi a far parte dei Prologhi (Milano 1916).
I primi versi sono influenzati da vicino dalle letture di quei tempi: il Leopardi, il Pascoli, i simbolisti, i crepuscolari. Vi si coglie quasi il senso di quell'instabilità e inquietudine che caratterizzò quel periodo della sua vita. Si tratta in sostanza di una crisi morale che troverà ben presto la naturale risoluzione nell'attività letteraria. Per questo il primo C. è qualificato generalmente un moralista ("è un poeta che nasce tutto fuori dell'arte", scriverà E. Cecchi, in La Tribuna, 10 apr. 1914);da qui l'attrazione sentita per La Voce prezzoliniana e in particolare la simpatia per taluni collaboratori della rivista quali G. Boine, P. Jahier e S. Slataper.
Nel 1914 ebbe una borsa di studio per la Germania: contava di perfezionare la sua preparazione di autodidatta orientandola verso la filosofia e la sociologia per consacrarsi all'insegnamento universitario. Lo scoppio della prima guerra mondiale lo sorprese in viaggio, a Lugano, dove dimorò per cinque mesi occupato a rivedere e ordinare le pagine dei Prologhi.
Il panorama della formazione iniziale del C., delle sue letture e preferenze, non consente di ricostruire una poetica indicativa delle sue future possibilità e sviluppi. Sappiamo che predilesse Baudelaire, Verlaine, Rimbaud; che sentì l'attrazione dei decadenti, i quali non lasciarono però tracce decisive; che fu "un accanito lettore e ammiratore" di Gabriele D'Annunzio. Se la letteratura francese dell'Ottocento sta al centro degli interessi e delle suggestioni che è possibile rintracciare nella sua opera, ciò non esclude però influssi nostrani (quale quello dannunziano) e l'accoglimento della grande lezione leopardiana considerata secondo una particolare prospettiva.
Le prose e i versi dei Prologhi, con i loro motivi morali e lirici, il loro violento ed aspro contenuto soggettivo, riflettono l'egocentrismo del C. con una prevalenza, appunto, di elementi contenutistici, attestati come validi in una sua dichiarazione (Lirica, dic. 1912): "Ilsignificato si raggiunge solo di là dalla constatazione formale, con un giudizio sintetico di puro contenuto.La forma, se è vera forma, cioè manifestazione di personalità, non è considerabile che come puro contenuto". Elementi di poetica, questi, che saranno più innanzi capovolti. Come ha notato B. Romani (1968, p. 23), fin dalle prime prose e liriche dei Viaggi nel tempo, la sua seconda opera, si nota un mutamento radicale delle precedenti posizioni: il C. annuncia "quel movimento a spirale che informerà l'opera sua valida", sicché i Viaggi vanno considerati un lavoro di transizione. In effetti nei due anni che vanno dall'ultima data di composizione dei Prologhi (luglio 1914), scritti per la maggior parte in Toscana, alla collaborazione alla Voce di De Robertis (giugno-agosto 1916), C. viaggiò in Lombardia, in Liguria, in Emilia. Dovette trattarsi di un periodo decisivo di incontri, di esperienze, a giudicare appunto dal mutamento di cui si è detto, operato fin negli esiti stilistici, là dove era dato di rinvenire echi dannunziani.
Il periodo della prima guerra mondiale fu trascorso dal C. in gravi ristrettezze, per la maggior parte a Roma, dopo la sosta forzata a Lugano e i viaggi nell'Italia del nord. Non fu chiamato alle armi perché a suo tempo riformato a causa della malformazione congenita alla mano sinistra. In Passo di ronda (Solitario in Arcadia), a proposito di una sua pagina, precisa: "Fu scritta nel '16, infuriando la Guerra Europea, da un giovane poeta inetto alle armi e necessariamente portato a rifarsi sulla letteratura di tutto ciò che non gli è concesso operare in altri campi". Quel periodo lo aiuta a superare la crisi della gioventù. Si staccò dai "vociani" coi quali condivideva il risentito ma confuso moralismo, e questo distacco si definì meglio con la fondazione, nell'aprile 1919, della rivista La Ronda.Ilnuovo classicismo di cui si fece appassionato banditore è parallelo, come "scoperta", con un ritorno temporaneo a Tarquinia dopo tanto ed inquieto vagare.
L'incontro col Leopardi è senza dubbio l'avvenimento più importante del suo curriculum letterario; egli stesso ne ha scritto come "…un avvenimento della massima importanza, che chiuse il ciclo, diciamo così, fruttuoso ed eroico delle nostre esperienze … Non soltanto era una voce antica e famigliarissima a cui sarebbe stato impossibile disubbidire, ma un santo della tradizione che si staccava dalla sua polverosa nicchia per rivelarcisi un autore modernissimo. Tanto moderno che da allora in poi tutta la morale e la filologia di Nietzsche non sono, a parer nostro, che poche briciole cadute dalla mensa di Leopardi. Da quando abbiamo capito questo siamo rientrati nell'ordine" (Leopere e i giorni, in Solitario in Arcadia). Questa "rivelazione" della modernità del Leopardi nel momento, a un dipresso, del distacco dai "vociani" per quel richiamo all'ordine che cominciava a diffondersi fra tanti più o meno efficaci o spericolati sperimentalismi, e il desiderio di aperture europee, presiedette alla nascita della Ronda subito dopo la guerra, nascita che trovò nel C. il più deciso e appassionato fautore fra gli altri fondatori amici: R. Bacchelli, A. Baldini, B. Barilli, E. Cecchi, L. Montano e A. E. Saffi.
L'impronta data alla rivista, che non ebbe lunga vita (finì, "di morte naturale", nel dicembre 1923), è senz'altro quella del C., così in sede programmatica (il Prologo in tre parti con cui La Ronda venne presentata è di mano del C.) come in fatto di gusto.
A lui vanno ricondotte pure le prese di posizione polemiche, e talune iniziative di evidente significato come la Discussione su Pascoli cui parteciparono i critici e gli scrittori più in vista e che venne pubblicata nei nn. 7 e 8 del novembre e dicembre 1919 e n. 1 del gennaio 1920. Nei nn. 3, 4 e 5 del marzo, aprile e maggio 1921 il C. pubblicò Il testamento letterario di Leopardi, una scelta dello Zibaldone, e curò poi sempre, nel ruolo consapevole di animatore di vita intellettuale, di diffonderne la conoscenza. Favorì così una rinascita degli studi sul Leopardi soprattutto come modello di stile e di eloquenza, quello cioè dello Zibaldone e delle Operette morali, trascurandone peraltro il contenuto più propriamente di pensiero. I suoi scritti leopardiani non sono pertanto essenzialmente critici: ebbero come obiettivo l'illustrazione degli aspetti più moderni del poeta e furono al tempo stesso per il C. uno strumento mediatore per porre le basi della propria estetica nel quadro di un'Italia spiritualmente autorevole: "ho idea che nell'opera critica e storica di Leopardi sia definita per sempre la grande Italia spirituale e che tanto si vagheggia e nella quale io credo al punto che, senza di essa, non riesco ad immaginare nessun'altra forma d'impero. E quando dico Italia spirituale intendo un'Italia armata contro i pericoli della cultura e gl'imbrogli della filosofia; un'Italia artistica nel senso largo di un'arte che è civiltà, stile, costume in tutto, come fu nei nostri secoli più belli" (LoZibaldone, in Solitario in Arcadia).
Fedele al programma della Ronda, ne sviluppò in proprio taluni punti, opponendosi ad ogni sorta d'avventura che uscisse dal solco della tradizione e illudendosi dell'autosufficienza di un'arte che riponeva nella resa stilistica. le sue ragioni più valide. "Per ritrovare, in questo tempo, un simulacro di castità formale ricorreremo a tutti gli inganni della logica, dell'ironia, del risentimento, a ogni sorta di astuzie" scriveva. È molto facile intendere, per questa via, il peso che l'azione e l'esempio del C. ebbero nell'affermarsi di quella "prosa d'arte" che dominò a lungo la nostra attività letteraria fra le due guerre.
Si pone a questo punto il problema dei rapporti fra il C. e la politica di quel tempo, e più generalmente quello dei rapporti fra La Ronda e il fascismo. Il disimpegno nei confronti degli eventi che proprio negli anni della Ronda portarono all'affermarsi del fascismo, se poté riuscire utile a questo, non escluse pertanto la condanna del peggiore dannunzianesimo e l'opposizione alle componenti più spericolate del programma futurista. Lo studio dei rapporti fra La Ronda e il fascismo si presta comunque a soluzioni opposte ed ambigue che vanno da quelle propriamente personali, cioè delle parti in causa (cfr. L. Montano, Il perdigiorno, Bologna 1928: "i rondisti erano fascisti senza saperlo"), a quelle fondate su stabili premesse di natura storica (cfr. L. Caretti, Significato della "Ronda", in Dante, Manzoni…, Milano-Napoli 1964, pp. 139-146). Il Romani (1968, pp. 51 ss.), che conobbe a fondo il C., ce lo dipinge un ingenuo in fatto di politica: tutte le volte che trattò di argomenti storici e politici si comportò unicamente da letterato (cfr., del C., lo scritto Italia popolare, in Parliamo dell'Italia, Firenze 1931), la qual cosa lo condusse anche ad identificare, per un certo tempo, la sua Italia popolare con quella retorica che il regime sosteneva. Scrisse anche alcune poesie su temi di attualità politica, lontane dalla schiettezza della sua vena, più tardi ripudiate ed anzi considerato delle macchie indelebili (la più nota allora fu Camicia nera pubblicata nel settimanale romano Quadrivio del 20 ag. 1933).
Opera importante del periodo della Ronda sono i Viaggi nel tempo (Firenze 1920), una raccolta di prose e poesie che segna, a parte il valore intrinseco, l'inizio di una nuova fase. Nella seconda parte dei Viaggi, in specie quella che appunto si intitola Rettorica, e che è costituita da una serie di brevi scritti concernenti la teoria letteraria senza pretesa certo di sistematicità ma indubbiamente ordinati da un filo conduttore frutto di innegabile convincimento, il C. fornisce indicazioni essenziali per misurare il suo lavoro di prosatore e di poeta: "Non è la ricchezza dei mezzi verbali che fa lo scrittore. È ilmodo, è l'accento, è il tono" (Le opere e i giorni, in Solitario inArcadia); "noi siamo di quelli che amano la poesia come musica, o come pensiero liricamente figurato in parole".
Il Romani (1968, p. 26) riconosce in questo teorizzare una ripresa di acquisizioni dal simbolismo francese, incentrate sul rapporto fondamentale di poesia e musica. Il C., lettore appassionato di questi poeti, come del Baudelaire, Verlaine e Rimbaud, e consapevole dell'importanza da essi attribuita all'elemento musicale, faceva proprie le loro idee con arricchimenti personali; così come si allineava all'esperienza mallarmeana nella ricerca dell'effetto nello stile, il quale, scrive egli stesso, è "un problema, direi, di elevazione lirica dell'elemento, senz'altro pretesto che l'elemento stesso; la buona ricerca antica della forma sulla cosa, rimessa in onore, se non sbaglio, da Debussy in musica, dagl'impressionisti e postimpressionisti in pittura, per un paradosso di classicità ritrovata in un'esasperante immersione nella materia" (Breve discorso ai pascoliani, in Solitario in Arcadia).
La prosa lirica dei Viaggi, composti negli anni 1916-17, risalta già in quella perfezione formale che ne farà uno dei modelli tipici della letteratura italiana del Novecento. La tematica è quella di "una scoperta del mondo compiuta da vergini sensi in un clima di sapienza antica, di consumata cultura… si affacciava intanto una simpatia coi personaggi più umili, una commedia di piccole vicende umane. Primi ricordi distesi, ricordi paesani presso le tombe etrusche, si mescolavano ai primi e subito splendidi ritratti di città. L'evocazione mitica, dentro figure candide di bellezza, esaltava in cima a tutto lo stile" (G. Ferrata, 1942). Un critico di formazione crociana, Pietro Pancrazi (pp. 183 ss.), diffidente per principio verso un tal genere di letteratura del frammento, vi scorge uno dei "caratteri più certi" del C., consistente "in una specie di criticismo lirico, per cui egli è sempre liricamente presente a se stesso nella critica e sempre un po' critico ammonitore, gnomico, nella lirica". L'arte preziosa del C. viene sottolineata attentamente: "Pensiero e espressione non combaciano e non si stringono mai nettamente, C. stende volontariamente tra l'uno e l'altra una patina di critica e di tempo, quasi per una velatura di nobiltà. Perciò aggettivi e avverbi sono usati da lui con un riferimento logico leggermente e accortamente spostato; in modo che ne nasca, per il lettore, un'impressione allusiva e come d'intesa, non si sa bene con chi e con che cosa".
Il progresso da Prologhi è più che evidente, e lo attesta la sicurezza dello stile che distingue la prosa del C., come un prodotto nuovo che abbia la sicura garanzia di un classico. Massimamente il prosatore sorprende, come osserva il Pancrazi, "nelle, impressioni sensuali e dirette" che costituiranno il meglio delle pagine di Favole e memorie (Milano 1925), stese dal 1919 al '23, proprio nel tempo in cui veniva pubblicata La Ronda.Ne dà testimonianza anche G. Raimondi, che nel 1919 fu a Roma accanto al C. come segretario di redazione della rivista e che accompagnò poi con un proprio scritto la pubblicazione delle prose di Terra genitrice (Roma 1924, con un disegno di C. E. Oppo).
Il Raimondi (C. a Roma nel '19, in La Nazione, 31 genn. 1973) attesta che in quel 1919, a Romail C. stava appunto scrivendo le Favole della Genesi che portò a termine nel '21. Queste favole bibliche hanno lasciato perplessi parecchi critici mancando, secondo loro, un possibile spazio di inserimento nell'unità del curriculum cardarelliano. In realtà si tratta di una vera e propria introduzione, in chiave necessariamente favolosa e perciò poetica, alla rievocazione della propria vicenda personale nel tratto più lontano nel tempo e quindi più cedevole alla trasposizione fantastica: la favola della propria infanzia. È appunto a partire da quegli anni della Ronda che il C. intraprende, come ha ben veduto il Romani (1968, p. 70), la riconquista del paradiso perduto dell'infanzia.
Le Memorie della mia infanzia (in Favole e memorie), composte negli anni 1922-23, hanno il vantaggio dell'immediatezza della materia nei confronti delle Favole:iltono è cordiale e non subisce flessioni rilevanti. Di conseguenza il C. si avvale di una lingua più concreta e corposa, armoniosamente omogenea.
Lo scenario, non solenne ma animato da una segreta magia e talvolta con qualcosa di sacro nei tratti, è quello delle stagioni e dei paesi: la componente autobiografica ne viene completamente assorbita. La scansione del periodo, l'uso dell'interpunzione, il cursus così sorvegliato e attento al tono, all'accento fanno di questa prosa un modello senza diretti precedenti e ne sottolineano al tempo stesso l'originalità degli acquisti nei riguardi della lezione leopardiana.
Nel 1926 il C. prese a collaborare, con altri rondisti, al periodico fondato allora da L. Longanesi a Bologna, L'Italiano, che fu, con IlSelvaggio di M. Maccari, sostenitore del movimento artistico-letterario di "Strapaese" incoraggiato dal fascismo con simpatia, e continuò fino a che il periodico non cessò le pubblicazioni, nel 1942. Nel 1928 andò in Russia come inviato del quotidiano romano IlTevere:gli articoli furono raccolti in volume, Viaggio d'un poeta in Russia (Milano 1954).
Sono impressioni riguardanti soprattutto la vita e i costumi in due grandi centri e nelle loro adiacenze: a Mosca e a Leningrado. Il Cecchi (1972, p. 753) nota che, a quel tempo, il C. si trovava in una fase importante della sua attività: "La tensione stilistica delle sue prose, che avevano preceduto o che strettamente appartennero al periodo della Ronda, s'era sciolta in un fare più largo, arioso, con qualcosa di nobilmente popolaresco" (è il periodo delle Favole e memorie).A prescindere da quelle che potevano essere le disposizioni del giornale, in ordine alle limitazioni imposte dal regime, il C. si muove con una certa libertà, senza occuparsi, anche se non deliberatamente, dei problemi politici e sociali, i primi che un tal viaggio avrebbe dovuto suggerire sul piano giornalistico, ma cogliendo invece, nella schietta simpatia che lo porta verso gli umili e la loro vita, certi aspetti positivi del profondo mutamento seguito alla Rivoluzione d'ottobre. Ciò che osserva, magari rapidamente, lo riferisce con innegabile sincerità. Il segreto dell'autenticità di questi risultati sta sicuramente nel fatto che il C. ha trovato subito delle naturali affinità fra il se stesso dell'infanzia cornetana e il popolano russo, soprattutto il contadino: in Russia come nella Tarquinia dei suoi sogni, oseremmo dire. Una sorta di rinascimentale immutabilità dell'uomo di fronte alla storia; un quadro pacifico, di intesa e di orgoglio nazionale, spenti i sussulti, una unanime volontà di lavoro.
Il sole a picco (Bologna 1929) riprende la tematica dei Viaggi e delle Memorie con le rievocazioni centrali di Tarquinia e della Etruria, riprodotte da Terra genitrice: sono prose di memorie e poesie che toccano vertici di perfezione. Il paese natale è ancora richiamo ad un sogno, oggetto di evocazione che subito travalica nella favola la quale non sempre è lieta ma assume, negli anni, una colorazione non di rado malinconica. Il sentimento della morte non tocca toni drammatici: promana da un destino accettato. Ristampato nel 1930, il libro ebbe quell'anno il premio Bagutta; un ventennio più tardi fu ancora proposto in una seconda edizione aumentata (Milano 1952), con esclusione dei componimenti in versi e l'inclusione di Villa Tarantola.
Del 1929 è la raccolta in un solo volume di Prologhi,Viaggi,Favole (Lanciano), secondo una disposizione differente da quella delle singole raccolte. Altre opere in prosa si succedettero in un breve giro di anni: Parole all'orecchio (Lanciano 1929), Parliamo dell'Italia (Firenze 1931), La fortuna di Leopardi (discorso tenuto a Pesaro il 7 sett. 1934 a chiarimento del suo leopardismo e pubblicato in Scuola e cultura, X [1934], Poi in Il viaggiatore insocievole, Bologna 1953), Giorni in piena (Roma 1934). Infine la prima raccolta delle Poesie (Roma 1936) nella quale confluiscono anche i versi di Prologhi e del Sole a picco, raccolta ampliata in edizioni successive (Milano 1942, con prefazione di G. Ferrata; ibid. 1949; infine rientrata nell'ed. postuma delle Opere complete, ibid. 1962, a cura di G. Raimondi e con bibliografia di G. Bonfanti. Da notare che nell'ediz. del 1949 sono incluse anche le Poesie nuove già pubblicate a parte, Venezia 1947, con una lettera del C. ed una nota di G. Marchiori). Del 1936 è anche L'Italiae l'Europa (estratto, Rocca San Casciano).
Tre anni più tardi uscì Il cielo sulle città (Milano 1939; 2 ed. aumentata, ibid. 1949). Sono impressioni di viaggio in varie città d'Italia con interpolate note di informazione storica. Ancora si parla di Tarquinia; e di Ancona, Ferrara, Milano, Recanati col culto del Leopardi, Roma, Urbino, Venezia. Accanto ai dati paesistici e culturali, la fantasia del C. trova modo anche qui di liberarsi creando quella atmosfera incantata e lucida ad un tempo che ne denota l'inconfondibile originalità. Seguono Rimorsi (Roma 1944), che esce nella fase cruciale della seconda guerra mondiale. All'approssimarsi del conflitto, l'isolamento attivo del C., la sua intima armonia si spezza. L'inquietudine, il tormento, persino il terrore lo riprendono, come attestano le Letterenon spedite (Roma 1946, con un'avvertenza di V. Mucci). Abita in una camera d'affitto in via Veneto: è ormai paralizzato. Si fa portare ogni giorno al vicino, abituale caffè e lì siede per ore e ore, inattivo all'apparenza, ma ancora osservando e meditando. Nell'estate del 1944, dopo l'arrivo degli Alleati a Roma, decide, per evitare i maggiori disagi della guerra, di trasferirsi a Tarquinia ma vi si trattiene ben poco. Avverte subito l'impossibilità di conciliare l'antico amore con la realtà. È la fine delle illusioni, come nell'amato Leopardi. Il Romani (1968, pp. 87 s.) osserva che "in questa ostinata caccia a Tarquinia, che è poi la caccia al passato felice, si cela tutto il dramma umano di Cardarelli", una sezione conclusiva dell'edizione definitiva delle Poesie (1962), quella che si intitola Ritorno al mio paese,dopo due guerre, ne è la suprema testimonianza. Nel 1945 il C. è di nuovo a Roma. Ripubblica il solo racconto che ha scritto, Astrid ovvero temporale d'estate (Roma 1947, con una litografia di C. Carrà, ma uscito in precedenza sul settimanale Tempo di Milano, n. 98 del 1941), di scarsissimo rilievo, come conferma largamente il linguaggio generico che non riesce ad assestarsi su di un ritmo propriamente narrativo. Contemporanea è la pubblicazione di un'altra opera in prosa, Solitario in Arcadia (Milano 1948), dove confluiscono scelte di Parliamo dell'Italia e di Viaggi nel tempo, già rifusi in Parole all'orecchio.
Villa Tarantola (Milano 1948), al quale andò il premio Strega, è pure un piccolo libro di ricordi, segnato da un'estrema malinconia, con un suo tono all'antica, pagine che "non hanno quasi più niente della cosa scritta, ed evocano il suono della voce, gli atti della mano, l'intimità e la libertà della conversazione; ed insomma appartengono quasi più alla vita che all'arte" (Cecchi, L'Europeo, 2-8 ag. 1948).
Ormai sul declino, pare mettere sempre più a nudo la sua realtà umana così diversa dagli schemi di una diffusa leggenda che parla di un C. notturno, collerico, pungente, tuonante, maestro di epigrammi corrosivi; comunque sempre lucido dietro l'apparente esaltazione. In Villa Tarantola è infatti un C. confidenziale che si abbandona ai ricordi della prima età, del suo iter di autodidatta, dei suoi primi passi nel mondo dell'arte. Il tessuto episodico della rievocazione e il tono e l'andamento della prosa tendono a comporre un uditorio ideale, amico, al quale lo scrittore si rivolge confidente. Atteggiamenti di questo genere sono già - l'osservazione è del Cecchi - nella prima parte del Sole a picco dove la tematica dell'infanzia si esprime con accenti di nuova intimità: è l'annuncio di un C. se non proprio nuovo, più colloquiale, che si ritrova anche in Lettere non spedite.
Nella poesia parallela, specialmente in quella d'amore, è da vedersi una sorta di estremo assestamento e una maggiore e più scoperta sostanza umana. Il tema paesistico resta piuttosto ai margini. Una poesia, Alla Morte, e le undici che la precedono nella raccolta definitiva, ci danno un'immagine più compiuta del C., lo riportano nel giro difficile di una vita di rapporti e di responsabilità più scoperte. Così i cinque componimenti dell'ultima sezione "Poesie aggiunte" della raccolta definitiva, uscite in edizione rara a Milano nel '49, e collocate in fondo alla nuova edizione del Sole a picco (Milano 1952), ci presentano un C. oppresso dall'età declinante, intimamente disperato. In quegli ultimi anni uscirono: Il viaggiatore insocievole (Bologna 1953, con parti di Parole all'orecchio e di Terra genitrice), e il già ricordato Viaggio di un poeta in Russia.
Morì a Roma, nel policlinico, il 18 giugno 1959. Per suo desiderio venne sepolto a Tarquinia. In quel medesimo anno aveva ricevuto il premio Etna-Taormina.
Postumi sono stati pubblicati: Lettere a Renato Serra (con una notizia di A. Grilli), in Nuova Antologia, agosto 1959, pp. 463 ss.; L'epistolario inedito (a cura di G. Prezzolini: lettere e poesie degli anni 1909-1912), in La Fiera letteraria, 22 marzo 1964; Invettiva e altre poesie disperse, a cura di B. Blasi e V. Scheiwiller, Milano 1964; La poltrona vuota, a cura di G. A. Cibotto e B. Blasi, ibid. 1969; Parole all'orecchio sulla "Ronda", in Nuova Antologia, gennaio 1970, pp. 43 ss.
Per qualche anno il C. aveva tenuto la critica teatrale del quotidiano romano IlTempo e dal 1949 al 1955 aveva diretto La Fiera letteraria.
La critica, nei confronti del C., presenta discordanze a prima vista inconciliabili. Ormai acquisita è la possibilità della sua collocazione storica nel lungo capitolo, scarsamente evolutivo, della "prosa d'arte"; che è capitolo essenzialmente italiano, sicché egli appare situato in disparte, oggi più che mai, da un contesto letterario di portata europea. Ma anche nei confmi della nostra letteratura, il C. si adoperò involontariamente a farsi considerare un caso isolato: favorì questa classificazione la sua stessa condotta di vita, non solo orgogliosamente di élite, ma dopo la fine della Ronda sempre più chiuso in sé e nel suo lavoro solitario, mentre disorientarono certe sue perentorie affermazioni teoriche, spesso male interpretate. Il Romani (1968, p. 4) osserva: "Nell'opera di C. non è possibile isolare uno scritto o un gruppo di scritti confermando loro il valore di un campione rappresentativo, e non è neppure possibile definirlo un poeta o un prosatore, senza rompere l'interna unità che cementa da un capo all'altro la sua produzione letteraria. Questa unità interna è appunto il suo stile". Il fatto è che la sua opera, nelle soluzioni più valide, siano pure le più esteticamente raffinate, nasce da uno spirito inquieto e turbato in sincronia con i tempi, e da quella visione dolente del mondo che si accentuò sempre più col passare degli anni.
Il problema più frequentemente dibattuto è quello della preferenza da accordare al prosatore o al poeta. I primi critici del C. optarono senza incertezze per il prosatore e in questo furono aiutati dal corso contemporaneo della letteratura e del gusto. Il Gargiulo (1940) vede nel prosatore "la facoltà dominante di concentrazione e rigore espressivo"; il De Robertis (1962), con sottili dimostrazioni, afferma che "nacque prosatore, e la sua prima poesia, sempre un poco più alta del giusto, spesso irrisolta, fu preparazione alla prosa", fu "un ineguale tessuto prosastico riccamente punteggiato con, a volte, risoluzioni fulminee". Occorre però ricordare che il De Robertis distingue la prosa d'arte dalla prosa poetica: il C. possiede dunque il gusto della prosa d'arte "con un'aura, un respiro, misurando il passo del suo cursus, che in nessuno dei moderni è così sensibile". Il Ferrata (1942) vede nel C. ora il poeta in prosa, ora il poeta in versi con questa asserzione conclusiva a proposito della raccolta di Poesie da lui curata: "il lettore vero troverà nelle Poesie una confessione più decisa, generalmente, e disperata di quanto ha potuto lasciargli intendere un riassunto della poesia in prosa". Il Romani non vede soluzioni di continuità tra opera in versi e opera in prosa, pur riconoscendo che "ha trovato la sua esatta misúra nelle prose di memoria e nelle elegie evocative" (1968, p. 65). Sempre il Romani discute acutamente su di un altro aspetto dell'opera del C.: quello delle doppie e qualche volta triple redazioni di un medesimo motivo con soluzioni differenti in prosa e in versi, che già il Macrì aveva riconosciuto come una delle leggi interne del C; il Romani propende a scorgervi esercizi di stile che non escludono l'ispirazione: un cammino particolarmente arduo, questo delle variazioni su di un medesimo tema, per puntare più in alto. E in questo consisterebbe anche un aspetto determinante della funzione storica del C. nella nostra letteratura: al punto di rottura fra due epoche egli sarebbe appunto riuscito a "conciliare la tradizione e l'ordine letterario con lo spirito di novità e di ricerca" (p. 116).
Nella differente e dibattuta valutazione tra le prose e le poesie del C., valutazione spesso determinata da ragioni prevalentemente di gusto, si dovrà forse riconoscere che il preziosismo delle prose più alte trova un complemento risolutivo nella forte, drammatica umanità dei versi dell'età del declino.
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