Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Precoce espressione romantica, la confraternita nazarena nasce all’inizio dell’Ottocento dal rifiuto del classicismo accademico e dall’esigenza di un rinnovamento delle arti figurative su basi religiose e nazionaliste, come propongono i fratelli Schlegel e Wackenroder, teorici del primo romanticismo tedesco.
Sul finire del 1810 alla pittoresca colonia degli artisti stranieri residenti a Roma si uniscono alcuni giovani provenienti da Vienna. Risiedono tutti insieme nel convento di Sant’Isidoro, sul Pincio, e vanno in giro per la città vestiti con ampi mantelli e giubbe di velluto nero, con polsini e colletti di merletto bianco, si fanno crescere folte barbe dorate e lunghe chiome ripartite a metà da una netta scriminatura. I loro modi eccentrici non passano inosservati nel pur variopinto panorama romano; il popolino comincia così a chiamarli, per dileggio, nazareni e con questo nome passano alla storia. Riunitisi qualche anno prima in una confraternita, la Sankt Lukas Brüderschaft, delusi dalla soffocante disciplina neoclassica dell’Accademia di Vienna, questi artisti si ispirano ai primitivi italiani e tedeschi, ammirati nella galleria viennese del Belvedere e nella collezione Boisserée. I due leader, Friedrich Overbeck e Franz Pforr, li spingono a rinunciare agli studi accademici e a trasferirsi a Roma, perché considerano la città vaticana – in una prospettiva un po’ ingenua e un po’ esaltata – la vera scuola della grande arte e il tempio della spiritualità cattolica.
Originario di Lubecca, una città della Lega anseatica affacciata sul Mare del Nord, Overbeck è inquieto e sensibile. Prima della partenza per Roma dipinge un Autoritratto con la Bibbia (1809), in cui si presenta nel suo ruolo di artista. Davanti a sé ha il cavalletto con la tela, sul tavolo – in primo piano – gli strumenti del mestiere: il gessetto e il carboncino per abbozzare il disegno preparatorio sulla tela; e in mano l’artista tiene la Bibbia, dichiarazione di fede religiosa ed estetica. Come vuole l’ideologia romantica di Wackenroder, Tieck, Novalis e, soprattutto, di Friedrich e August Wilhelm Schlegel, la nuova mitologia deve infatti essere ricercata nei testi sacri. Overbeck scrive un giorno: “il pennello è per me quello che è l’arpa per David: uno strumento per innalzare inni al Signore”. Nell’autoritratto l’artista ventenne chiede ispirazione ai testi sacri per innalzare il suo inno al cielo, vale a dire per dipingere.
Morto giovanissimo, Franz Pforr insegue il suo breve sogno di restaurazione dello spirito dell’altdeutsche Malerei, l’“antica pittura tedesca”, che meglio si addice all’intonazione nostalgica della sua arte. Dal 1808 al 1810 lavora a un’opera ambiziosa, L’entrata dell’imperatore Rodolfo d’Asburgo a Basilea nel 1273, che messa a confronto con la pittura europea del tempo è sinceramente sconcertante. In una lettera l’artista spiega di aver voluto rappresentare un “atto di generosità di Rodolfo d’Asburgo”; ma su un tenue pretesto storico preso a prestito da una vecchia cronaca svizzera, Pforr costruisce una leggenda, anzi una favola, con i toni teneri e svagati di un festoso almanacco. Il risultato è un medievalismo stralunato, un eccentrico tentativo di pittura troubadour; una maniera volutamente ingenua di approccio all’evento storico, alla ricerca di un tono popolare di facile e immediata comprensione. Con scelta consapevole, Pforr si riallaccia all’arte tedesca del primo Cinquecento, a Dürer innanzitutto, ma anche a Cranach, a Baldung Grien e a Luca di Leida.
Sin dagli esordi l’ispirazione dei nazareni tende a inseguire la polarità, già presente nelle Effusioni sentimentali di un monaco amante delle arti (1797) di Wackenroder, fra un’arte di ispirazione italianeggiante, classico-raffaellesca e orientata in senso cattolico, e un’arte di impronta nordica, düreriana e protestante che cerca di contrapporre al classicismo meridionale un realismo tedesco. È una scelta che si può giocare contemporaneamente su due fronti, contro il declinante neoclassicismo e a favore di un’arte nazionale tedesca, e tocca a Overbeck il compito di tentare una sintesi. La sua opera più famosa, Italia e Germania (1811), è basata su una visione del paesaggio “moralizzata”, portatrice di un senso traslato. Alle spalle della bruna Italia si apre la campagna laziale con una pieve romanica, alle spalle della bionda Germania svetta un turrito bastione gotico tedesco: un paesaggio di bellezza ideale, ottenuto attraverso la sintesi tra natura italiana e fantasia tedesca.
Il risultato è un’opera pienamente nazarena, la prima se per “nazareno” si intende – come diceva Goethe con intenti di ironica contestazione – la “Neudeutsche religiös-patriotische Kunst”, la nuova arte tedesca religioso-patriottica. La riduzione delle figure all’essenziale, i colori tenui e delicati in una tavolozza che si fa sempre più chiara, la luce diffusa che sembra un riflesso della “luminosità dell’anima” predicata da Friedrich Schlegel, la sobria plasticità dei corpi e la bellezza spesso stucchevole dei volti sono caratteristiche ricorrenti in mezzo secolo di pittura, prima nazarena e poi purista.
La dialettica tra protestantesimo e cattolicesimo lasciata irrisolta da Wackenroder, contrasto che l’amicizia tra Pforr e Overbeck evita di mettere allo scoperto, affiora alla morte di Pforr. In crisi esistenziale e spirituale, Overbeck si converte al cattolicesimo seguito da molti confratelli nazareni, tra cui Joseph Wintergerst, Philipp Veit e Wilhelm Schadow. Questi eventi sembrano orientare tutto il gruppo verso un’arte d’intonazione cattolica, italianeggiante e raffaellesca, che è la linea dell’ortodossia nazarena propugnata da Overbeck. Contro questa tendenza si pone Peter Cornelius che non si converte mai al cattolicesimo. La sua forte personalità lo spinge a occupare il ruolo di capofila di un movimento nazionalistico tedesco che ha in Dürer il grande modello antico: una posizione molto vicina a quella del compianto Pforr. Gli studi compiuti a Düsseldorf e le inclinazioni personali – “la mia anima tende all’universalità”, ama dire – spingono Cornelius verso un’arte monumentale e verso il recupero dell’affresco in funzione didascalica, per diffondere a un vasto pubblico i nuovi ideali religiosi e nazionalistici. Alla fine del 1814 l’artista annuncia in una lettera l’intento programmatico di rilanciare l’arte tedesca tramite la “reintroduzione dell’affresco così com’era in Italia dai tempi del grande Giotto fino al divino Raffaello”.
Cornelius non deve attendere molto: l’anno dopo il console di Prussia, Ludwig von Bartholdy, gli affida l’incarico di affrescare un ambiente della legazione, nella casa Zuccari di Trinità dei Monti, dove in una piccola stanza dal tetto a botte dipinge a olio su parete con Overbeck e con Veit sei storie di Giuseppe ebreo.
L’impresa dei nazareni verso un’arte monumentale e il recupero dell’affresco ottengono un notevole successo che spinge il marchese Carlo Massimo ad affidare ai giovani artisti tedeschi la decorazione del casino della sua villa al Laterano. Un progetto impegnativo, poiché si devono affrescare tre stanze con episodi tratti da Dante, Ariosto e Tasso. Ma invitato a Monaco dal principe Ludwig di Baviera, Peter Cornelius rinuncia al Casino Massimo, portato a termine in dodici anni, dal 1817 al 1829. Il salone più grande, all’ingresso, destinato all’Orlando furioso, è decorato da Julius Schnorr von Carolsfeld, la sala con la Gerusalemme liberata da Overbeck e da Joseph Fürich, quella con la Divina commedia da Philipp Veit e da Joseph Anton Koch. In corso d’opera il dissidio tra le due anime della confraternita diventa insanabile e si arriva alla scissione. Con Overbeck rimangono i nazareni orientati verso un’arte cattolica, italianeggiante e raffaellesca, mentre con Cornelius e Schnorr von Carolsfeld si schierano i protestanti, fautori di un’arte più romantico-tedesca e nazionalista. Overbeck rimane a Roma per “custodire la purità del santuario nazareno”, come scrive il marchese Camillo Laderchi, suo biografo ottocentesco; i nazareni che scelgono di ritornare in Germania puntano invece su un’arte meno religiosa e “italianeggiante”. La fama e la determinazione di Cornelius impongono allora una versione nazionalista, in linea con le prime indicazioni dei teorici del romanticismo tedesco. Ricchi del prestigio conquistato a Roma, i nazareni si insediano come direttori o insegnanti nelle principali accademie tedesche – Cornelius è prima a Düsseldorf e poi a Monaco, Philipp Veit a Francoforte, Olivier a Monaco, Schadow a Berlino e a Düsseldorf, Schnorr e Nacke a Dresda, Fürich a Vienna – e promuovono quella campagna di decorazioni pubbliche monumentali che contribuisce alla diffusione dei loro principi, ritardando però l’avvento dell’avanguardia realista riunitasi in Francia attorno a Gustave Courbet.
Nato da una costola dell’ortodossia nazarena, il purismo italiano è funzionale all’opera di rifacimento e decorazione delle chiese romane avviata negli anni della Restaurazione. A capo del movimento si pone Tommaso Minardi, un faentino influenzato dalla scoperta di Giotto e dai suoi “sublimi concepimenti” che, scrive nelle memorie, gli fanno capire “quanto giusto, retto e semplice fosse lo stile dei tre e quattrocentisti”. In quello “stile antico” comincia a comporre delle opere giudicate “cosa nuova e lodabilissima” dalla critica del tempo; avviatosi così sulla strada di una mistica astrazione, Minardi rifiuta le seduzioni della nordica precisione analitica e qualsiasi accenno architettonico o spaziale. L’Apparizione della Vergine a san Stanislao Kostka (1825) è collocata in una stanzetta del convento di Sant’Andrea al Quirinale, dove da due secoli si conserva un magnifico esempio di scultura barocca del francese Legros, in cui il santo è rappresentato agonizzante sul letto di morte. Sopra la testa della statua Minardi pone una tela di grande formato che presenta l’ultima visione del santo moribondo, la Madonna che si accinge a riceverlo in cielo e ne anticipa la gloria celeste con un corteo di sante, angeli e cherubini, intenti a cantare, suonare e spargere fiori.
Atto di nascita del purismo italiano, l’Apparizione della Vergine segna la confluenza in un unico fronte di difesa, compatto contro il classicismo accademico, dei nazareni tedeschi e di Tommaso Minardi. Puristi e nazareni sembrano oggi equivalersi all’interno di una vasta e indistinta categoria di “arte religiosa romantica”. Eppure i due gruppi tengono a esser distinti, a presentarsi al pubblico con connotazioni teoriche differenziate, a chiarire le loro diversità e a rinfacciarsele. I nazareni rimproverano a Minardi la sua maniera troppo “moderna” e Minardi, a sua volta, considera i nazareni un po’ anacronistici. Tommaso Minardi infatti non è “arcaico” e purista a tempo pieno e una componente eclettica è sempre presente nella sua opera, non solo negli anni di formazione in cui, inquieto e insoddisfatto, brucia le esperienze di un’intera generazione dilaniata dal conflitto fra tradizioni classiche e rivoluzioni romantiche. Anche questo lo distingue da Overbeck che dal 1826 non abbandona più la pittura religiosa e si consacra sacerdote integerrimo di un’arte devota, il cui unico fine è la celebrazione del divino. Per tutta la vita Minardi esperimenta di tutto: i soggetti profani del goticismo troubadour, i temi storici d’impronta nazionalista tipici del romanticismo risorgimentale, le movimentate scene di battaglia alla maniera di Massimo d’Azeglio.
Tutto, s’intende, tranne le attualità del realismo che nella seconda parte del secolo si impone anche in Italia.
Nessuno degli allievi di Minardi sa cogliere la parte essenziale del messaggio del maestro e per accertarsene basta un giro per le chiese di Roma, decorate nella seconda metà dell’Ottocento.
Per mezzo secolo, i puristi “minardiani” assecondano l’infausta smania di rifacimento delle chiese romane con una loro maniera peculiare, spregiudicata e molto più eclettica di quella del maestro. Una pittura priva della tensione morale dell’arte di Minardi e del suo modello Overbeck, una pittura che confluisce nel gran fiume dell’eclettismo la cui melma opaca ricopre la produzione accademica dell’Ottocento.