Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In un’epoca di urbanizzazione e di intense trasformazioni industriali, spetta alla letteratura, e in particolare ai poeti, riflettere sulle metamorfosi del paesaggio. Dall’intuizione del correlativo oggettivo, presente in Eliot e Montale, alla natura deforme e inquietante dei paesaggi postmoderni descritti da Zanzotto, il Novecento si confronta con la disarmonia del soggetto a contatto con un ambiente che dà poche certezze, all’interno del quale, però, egli continua spesso a trovare una rispondenza interiore, un interlocutore.
Andrea Zanzotto
Là sul ponte
Là sul ponte di san Fedele
dove la sera abbonda
di freddo fieno
e dove la pioggia raccoglie
tutte le sue vele madide
c’è da ieri una fanciulla bionda
che ha un nome come una corona
e che ha perduto per sempre
una mano per salutare una rosa.
[...]
Là un animale azzurro
deperisce nella sua tana
e l’estate legata alla neve
non conosce altro frutto che se stessa.
A. Zanzotto, Poesie (1938-1972), a cura di A. Agosto, Milano, Mondadori, 1973
L’eredità romantica, la quale postula un sentimento effusivo della natura, intriso di partecipazione emotiva allo spettacolo delle sue forme e dunque basato sullo sguardo (Raffaele Milani), si confronta all’inizio del nuovo secolo con una lettura disincantata dello scenario ambientale, con una crisi che nasce dall’incapacità di vedere, e che corrisponde alla trasformazione del mondo di fronte al soggetto, soprattutto in epoca di intensa industrializzazione. La natura offre ancora, in casi isolati, uno spettacolo da contemplare, un’immagine di vita operosa e armonica, come, nel romanzo classico russo, avveniva nella sezione dedicata al lavoro nei campi in Guerra e pace di Tolstoj, riprendendo un motivo campestre già celebrato nella classicità: è il caso di un romanzo tutto volto a idealizzare la comunione dell’uomo con la natura, I frutti della terra (Markens Gröde, 1912) del danese Knut Hamsun. Nel romanzo, però, non mancano le difficoltà per il protagonista, dedito a dissodare un terreno incolto, a vincere le resistenze del paesaggio entro il quale cerca di realizzarsi: una volta domata la natura, si aprono scene di poesia delle stagioni, alternate alla formazione dell’umile contadino. Ma la natura con i suoi flussi eterni, i suoi quadri bucolici sereni e imperturbabili viene scossa dall’avvento di una rivoluzione tecnica: gli aerei iniziano a solcare i cieli delle città come delle campagne, e uno scrittore-aviatore, Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo principe, dedica la maggior parte dei suoi scritti alla narrativa di volo: tra i suoi romanzi, i fortunati Volo di notte (1930) e Pilota di guerra (Pilote de guerre, 1940) rispecchiano il nuovo modo di vedere il mondo in verticale, arricchendo le asciutte narrazioni militari di notazioni paesaggistiche inedite, vigorose.
Celebre rimane inoltre la traversata aerea del Kenya descritta in La mia Africa (Out of Africa, 1937), romanzo autobiografico della scrittrice danese Karen Blixen (la quale si serve di uno pseudonimo maschile, Isak Dinesen, e pubblica le proprie opere anche in lingua inglese). L’attenzione per l’esotico, il gusto coloniale che contraddistingue gran parte dell’Europa di primo Novecento trova in lei una raffinata interprete, attenta ai diritti dei nativi e dotata di uno sguardo acuto nei confronti di un paesaggio inconfondibile e lontano nello spazio, tenuto in vita, dopo il suo ritorno definitivo in Danimarca nel 1931, dalla memoria e dalla felicità descrittiva che si evince dai ritratti di Ombre sull’erba (Shadows on the Grass, 1960). Accanto allora al concetto di natura, anche quello di paesaggio come percezione della natura in quadri, in singoli frammenti di visione, incorre in modificazioni, estensioni, ridefinizioni. Nel 1902 è stato il poeta tedesco Rainer Maria Rilke a intervenire in merito al problema, con un’introduzione a un saggio sulla colonia di pittori insediatasi a Worpswede, nei pressi di Brema, Del paesaggio (Von der Landschaft ), che riflette intorno a una storia possibile del paesaggio in pittura. Da un mondo greco e classico dove l’uomo, e non il paesaggio, era al centro della rappresentazione artistica, Rilke conduce al processo fondamentale che prende vita nel Medioevo, per consegnarsi a Leonardo: “il paesaggio era diventato pretesto per un sentimento umano, immagine di gioia, semplicità e devozione umane: era diventato arte”. L’intuizione che conclude il saggio porta il lettore all’interno del complesso quadro novecentesco: nell’evoluzione della pittura “verso una graduale trasformazione in paesaggio del mondo stesso”, nell’irruzione dell’uomo tra le figure dei dipinti di paesaggio si scorge l’inizio di un suo isolamento: “posto come una cosa tra le cose, è immensamente solo”. E solitudine, crollo delle certezze razionali, perdita di un equilibrio nella percezione del mondo esterno sono i contrassegni del soggetto modernista: nei primi decenni del Novecento, in particolare nell’area di lingua inglese, si avverte pienamente lo iato tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, nelle forme di un paesaggio urbano stridente, invivibile. La dissociazione dell’io, già raffigurata a cavallo dei due secoli dal poeta irlandese William Butler Yeats, trova una rappresentazione insistita, tesa a riprodurre stilisticamente l’isteria, il collasso nervoso, nel poemetto La terra desolata (The Waste Land, 1922) di un americano a Londra, Thomas Stearns Eliot.
La città, descritta come incredibile (“Città irreale”), diviene nel testo un teatro per voci dissonanti, luogo “non soltanto di desolazione, ma di anarchia e di dubbio”, come scrive nel 1931 il critico Edmund Wilson. La parola poetica registra elementi della quotidianità persi alla deriva in un flusso continuo di citazioni, di elementi mitici e di materiali della liturgia; il paesaggio urbano appare devastato, inospitale, sito di una “depersonificazione” postbellica, una soppressione di identità che coinvolge tanto il dato umano quanto quello naturale (Dario Calimani). La complessa simbologia retrostante all’elaborazione del Waste Land testimonia l’allontanamento da una condizione primigenia di comunione con la natura; il paesaggio appare qualcosa di sfuggito alle mani dell’uomo, un immenso scenario di distruzione tra passato e presente, “torri che crollano”, sul quale Eliot introduce, nelle parole del Tuono, la formula conclusiva (“Shantih shantih shantih”, ossia la ripetizione di “Pace che sorpassa l’intelligenza”, in sanscrito), un’invocazione tratta da una Upanisad come possibile rituale di purificazione e rigenerazione. La concretezza dei riferimenti alle cose in opera nel testo eliotiano trova un’elaborazione teorica nella figura del correlativo oggettivo, ossia la corresponsione tra un intimo sentimento del poeta, un suo stato d’animo, e un oggetto, un elemento del paesaggio sul quale il soggetto si sofferma nella descrizione. Intimamente legato al concetto è Eugenio Montale, il quale già con le prime tre raccolte poetiche, Ossi di seppia (1922), Le occasioni (1939), La bufera e altro (1956), assurge a una statura di classico nella letteratura italiana, dopo aver creato un linguaggio poetico antiretorico e originale. Si ricordi come il Novecento italiano in poesia venga inaugurato da due raccolte dissimili ma entrambe orientate verso un’immersione senza remore nello spettacolo e nelle simbologie della natura, Alcyone di Gabriele d’Annunzio e i Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli, usciti nello stesso anno, il 1903. Entrambi gli autori, sia pure in misura diversa, dissimulata, eserciteranno il loro influsso sulla poetica montaliana. Con tutta probabilità Montale subisce la fascinazione del paesaggio marino della Linguadoca descritto nel 1920 da Paul Valéry nella celebre lirica Il cimitero marino (Le cimitière marin, poi nella raccolta Charmes, del 1922), dove un “tetto tranquillo” tra le sepolture del piccolo cimitero di Sète incornicia la visione del mare sottostante, dell’assoluto che da esso sprigiona. In effetti, negli Ossi, il paesaggio della natia Liguria domina incontrastato, offrendo immagini scabre e affilate, correlativi oggettivi isolati nella natura circostante; il limone, pianta umile e profumata sotto il cui colore giallo Montale situa il proprio modo di fare poesia (I limoni); il girasole da trapiantare, quasi un amuleto, “nel mio terreno bruciato di salino” (Portami il girasole); il vento che soffia ed entra con la prepotenza della vita nel giardino (il “pomario”) della lirica introduttiva, In limine; l’agave tormentata dai suoi “racchiusi bocci”: “ora son io / l’agave che s’abbarbica al crepaccio / dello scoglio / e sfugge al mare da le braccia d’alghe” (L’agave su lo scoglio). Sono tutte immagini emblematiche di una condizione soggettiva, nella quale a sua volta si riflette il senso acuto dell’infelicità umana, come ancora la strofa conclusiva di Meriggiare esprime: “E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Il paesaggio regna incontrastato: se anche figure umane lo attraversano (gli spensierati vent’anni di Esterina in Falsetto: “La dubbia dimane non t’impaura”; l’invocazione all’esile giovinezza di Arsenio, “giunco tu che le radici / con sé trascina”; o, nelle già prossime Occasioni, la giovane ebrea Dora Markus, ritratta nel suo probabile esilio), in esso rifulgono bagliori stagionali, gli elementi naturali si intrecciano in profondità alla vita umana, in momenti di crescita o di dubbio, di attesa del futuro. È quanto caratterizza il punto forse più alto e arduo raggiunto dalla poesia montaliana, la lirica che intitola la terza opera, La bufera. Qui Clizia, la donna-angelo ispiratrice di salvezza, è circondata dal turbine metaforico della guerra, da una scena di distruzione e di negazione del paesaggio da leggersi come la persecuzione nei confronti della giovane e della sua gente, gli ebrei: “Il lampo che candisce / alberi e muri e li sorprende in quella / eternità d’istante – marmo manna / e distruzione – ch’entro te scolpita / porti per tua condanna”.
Gli stessi anni che concludono il secondo conflitto mondiale contraddistinguono il paesaggio della Resistenza ligure, fatto di boschi, trappole, osterie, vicoli stretti (i “carrugi”) della città, al centro del primo romanzo di Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), visto con gli occhi del piccolo Pin, smarrito in un mondo di grandi. Le trasformazioni che il periodo del boom economico apportano alla stessa regione e alla sua conformazione naturale sono raffigurate con inquietante realismo nel romanzo breve La speculazione edilizia (1957, poi in volume autonomo nel 1963), nel quale la coscienza dell’intellettuale Quinto Anfossi viene lentamente offuscandosi, verso la follia, a mano a mano che alle pendici della villa di famiglia prende vita il deforme progetto edilizio dell’affarista Caisotti, con il quale Quinto è entrato in società, e dal quale si sente misteriosamente affascinato. Dopo il racconto dal chiaro valore saggistico della Strada di San Giovanni (1962), in cui Calvino ritrae il padre sullo sfondo di un paesaggio destinato a cambiare, il rapporto con la descrizione dell’ambiente naturale viene affrontato nuovamente nel racconto Dall’opaco (1971). Si tratta, nella definizione di Domenico Scarpa, di un “testo a terrazze”, una descrizione sperimentale che per brevi note, intervallate da spazi bianchi, getta luce sugli oggetti, un mondo-teatro apertosi a un occhio indagatore, che scrive “d’int’ubagu, dal fondo dell’opaco”.
Se si eccettua la splendida incursione nei paesaggi urbani virtuali delle Città invisibili (1973), il successivo e ultimo quadro della natura è affidato all’occhio del signor Palomar. In un’opera di difficile collocazione, un libro di racconti-saggi (Palomar, 1983), l’omino-proiezione autobiografica di Calvino si confronta con la globalità del reale, con la volontà di fondere insieme narrazione e riflessione filosofica. Il mondo di Palomar, fino al momento in cui il protagonista descrive la propria morte, risponde così a una volontà quasi enciclopedica di essere abbracciato, descritto, scritto.
E Calvino, nella sua produzione saggistica, aveva colto il valore profondo della descrizione della natura in un romanzo come Il dottor Zivago (1957) di Boris Pasternak. Le vicende di Jurij, il protagonista, il suo amore contrastato per Lara, la sua ricerca di una felicità possibile, tutto si arena in una geografia mobile, in una serie di spostamenti che precludono al personaggio il raggiungimento dei propri obiettivi. Per Calvino, nel romanzo, il senso sacrale della storia nutrito da Pasternak, e il ruolo svolto in essa dai semplici individui, hanno per contraltare l’imprescindibilità del dato naturale: “La natura non è più il romantico repertorio dei simboli del mondo interiore del poeta, il vocabolario della soggettività, è qualcosa che è prima e dopo e dappertutto, che l’uomo non può modificare ma solo cercare di capire, con la scienza e la poesia, e d’esserne all’altezza”.
In Italia, un senso di un mondo marginale, di un primevo mondo contadino conservatosi in una sorta di grazia originaria pervade poi le prime prove liriche di Pier Paolo Pasolini. Le sue Poesie a Casarsa (1942), scritte durante il periodo di rifugio in Friuli, associano sensazioni di paesaggio al dialetto locale nelle quali sono composte seguendo “una ricerca arcaica”, nelle parole dell’autore: un linguaggio ricostruito artificialmente, sovrapponendo i filtri della propria cultura e della tradizione poetica europea alla ricca lingua dell’oralità. L’indagine dello sconvolgimento naturale, legato a Pasolini a un senso di perdita, in particolare delle radici contadine materne, prosegue negli anni Cinquanta e Sessanta verso l’interessamento ai mondi non occidentali e verso il conseguimento della padronanza espressiva nel mezzo cinematografico; appare ancora significativo che Pasolini, nel libro singolare desunto dal proprio film Teorema (entrambi del fatidico 1968), contrapponga all’usuramento della borghesia, razionale e cinica, due intense immagini naturali: il deserto, associato alla figura del padre di famiglia, Paolo, e la rigenerazione nella campagna alla quale la serva Emilia fa ritorno, divenendo una santa popolare che si nutre di ortiche, venerata dagli umili.
Con la poesia del francese René Char, tutta intesa ad aprire a un assoluto, a un senso di slancio di fronte all’ignoto, come scrive Jean Starobinski, il dato naturale si affaccia con intensità alla superficie della pagina: nella sezione di poesie e prose poetiche Ritorno Sopramonte (Retour Amont, 1966, poi nel volume Nudo perduto – Nu perdu, 1971), il poeta recupera il paesaggio della Vaucluse caro a Petrarca, le acque della Sorgue sulle cui rive troneggiava Laura, per effettuare, come scrive Vittorio Sereni, una “via crucis. Laica, naturalmente”, in un’immersione nei luoghi che porta in superficie una disarmonia interiore, intrecci di amore e morte, un generale senso di inquietudine. È il paesaggio che promana da Tracciato sul baratro (Tracé sur le gouffre): “Era, benché prostrato, / un’acqua verde laggiù, e poi anche una strada. / Attraversava la morte nel suo disordine. / Fiore ondulato d’un insonne segreto”; da Venasque: “Il tetto di pietra è il patibolo / di una chiesa ghiacciata ritta in piedi”; da Aiguevive: “Rovescio delle sorgenti: paese sopramonte, paese senza beni, ospite brullo, volgo a te la mia sorte”.
A tradurre in italiano le liriche di Char è un altro poeta, Vittorio Sereni, che a sua volta ha manifestato nella sua opera l’ambivalenza degli elementi naturali e la difficoltà di incontrare una consolazione nel paesaggio. Nella raccolta Gli strumenti umani (1965), aperta dal poemetto Una visita in fabbrica (dove, accanto al sibilo delle sirene, nei campi e nelle aiuole può persino fiorire la rosa, longevo topos poetico, metafora della medesima, imperitura poesia), si susseguono “apparizioni e incontri”, immagini di Milano come delle città d’Europa, suicidi e altri morti che ritornano. Sono tutte epifanie nel paesaggio, momenti di rivelazione (come nella letteratura modernista di inizio secolo) dove si percepisce una luce, un senso particolare delle cose. Così, in un “tratto di spiaggia mai prima visitato / quelle toppe solari…”, si dipana la lirica conclusiva, La spiaggia; qui, i morti ritornano come presenze mai sottratte all’incanto della natura, “toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce. / Non / dubitare, – m’investe della sua forza il mare – / parleranno”. Nella raccolta successiva, Stella variabile (1981), si rincorrono nel paesaggio nuovi segni di comunicazione con i morti, su strade note come l’Autostrada della Cisa (“Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità / tendo una mano. Mi ritorna vuota. / Allungo un braccio. Stringo una spanna d’aria”) o tra “nomi di spettri della calura / per campagne allucinate e afone” come Nell’estate padana, o ancora sulla piazza del lago nella natia Luino, in Ogni volta che quasi: al sentire richiamare da un conoscente il nome della madre “come allora adesso subitanea / sbocciata da una parete d’argilla / a ritroso lungo la trafila / dei morti ci stravolge una mano”.
Accanto alle immagini di morte, il paesaggio di Stella variabile riflette il dissidio tra l’io del poeta e una “lei” allusa, in Addio Lugano bella, di fronte a una “neve di marzo / plurisensa / di petali e gemme in diluvio tra montagne / incerte laghi transitori”, alla necessità di mutare le proprie coordinate geografiche (“Dovrò cambiare geografie e topografie”) per accettare il rifiuto dell’interlocutrice: l’incapacità di accogliere e consolare, da parte del paesaggio nativo, si fa qui massima. Il dialogo con le origini naturali, con il paesaggio di Pieve di Soligo letto nel suo mutare nel tempo, anima una costante tematica nell’opera poetica di Andrea Zanzotto, a partire dalle prime raccolte poetiche, Dietro il paesaggio (1951) e Vocativo (1957). Qui, il discorso lirico si snoda tra oblio dell’orrore storico della guerra e fuga verso il riparo accogliente del paesaggio, in una vera e propria “sospensione del giudizio di fronte ai segnali della natura” (Dal Bianco-Villalta), e l’evocazione di un malessere interiore nel soggetto, percepito di fronte all’“esuberanza” del dato naturale. In Vocativo, dove si instaura un “tu” dialettico nei confronti dell’esterno, scorrono titoli come Ecco il verde sottile…, Quartine del pioppo, I paesaggi primi, Bucolica, Campèa: trasformazioni e incanti della natura, i paesaggi murali dipinti dal padre sfilano nella loro pace carica di memoria, minacciati talora da una nube all’orizzonte. Nelle IX Ecloghe (1962), il modello virgiliano della conversazione bucolica si alterna a quello del monologo lirico nel rintracciare una sorta di mappa di un paesaggio abitato. Il libro si dirama verso la profondità del discorso amoroso, suggellato con ironia dall’Ecloga V – “Lorna, Gemma delle colline” (da un’epigrafe), un segno che rimanda a domande esistenziali e conoscitive del soggetto, al senso profondo dell’amore, o con profonda coscienza del proprio ruolo educativo nell’Ecloga IX – Scolastica, dove “i seni del Montello”, le ultime propaggini del paesaggio scampato all’aggressione industriale accolgono i dubbi sull’insegnamento e sulla vita in due persone, a e b, in dialogo. Dopo Pasque (1973) e una notevole Pasqua a Pieve di Soligo in “pseudoalessandrini”, bisogna attendere Il Galateo in Bosco (1978) per rileggere il Montello zanzottiano nelle sue fitte memorie della Grande Guerra, alle quali si sovrappone il deterioramento ambientale, lo spalancarsi di un gorgo “geologico”, di cadute verticali che significano l’arresto e la deiezione della storia. Al lettore si apre così uno spazio di residui, “tutta la gloriola / messa a disposizione / dal succhiante e succhiellato verde”, in Gnessulógo, lirica che implica l’approdo a un “nessun luogo” nell’esistenza della natura. Pronto ad accogliere i segni del presente anche sotto forma di neologismi, di prestiti dai linguaggi dell’informazione, Zanzotto prosegue la propria poesia della natura sotto un segno sempre più ambiguo e negativo nelle raccolte successive, in particolare in Idioma (1986) e Meteo (1996). In quest’ultimo libro, la presenza dei salvifici papaveri e dei topinambùr non lenisce il dolore per una “devastazione” ambientale, nelle parole del poeta, irreversibile.
La parola conclusiva sulla percezione della natura e del paesaggio novecenteschi può consegnarsi a un premio Nobel, l’irlandese Seamus Heaney, il quale, in una prosa del 1977, Il senso del luogo (The Sense of Place), rintraccia il “potere del luogo” in due modi di conoscenza, quella rappresentata dalla memoria, dai paesaggi della sua giovinezza, e quella consentita dalle descrizioni di luoghi lungo i secoli della letteratura irlandese – e un nome fondamentale, nel suo percorso nel tempo, è quello di Yeats. Così conclude Heaney: “Non siamo più innocenti, non siamo più semplici parrocchiani del locale. Andiamo a Parigi per Pasqua invece di far rotolare le uova a casa […]. Eppure quelle leggi primarie della nostra natura sono sempre in vigore. Abitiamo, chiamiamo per nome, amiamo, costruiamo case e siamo alla ricerca delle nostre storie. E quando siamo alla ricerca della storia delle nostre sensibilità, sono convinto, come James Camlin Beckett era convinto in riferimento alla storia d’Irlanda in generale, che è in quello che egli chiama l’elemento stabile, nella terra stessa, che dobbiamo cercare la comunità”.