Nascere e crescere
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Come tutti i momenti di passaggio importanti della vita, anche quelli della nascita e della crescita sono accompagnati a Roma da riti specifici che li sanciscono e ne favoriscono il buon esito. Nel dies natalis una serie di preghiere chiama una schiera di dèi a proteggere partoriente e bambino già durante il travaglio e le fasi iniziali della vita, dal primo vagito alla prima poppata, mentre altri riti e offerte agli dèi coniugali ne tutelano i primi giorni fino al dies lustralis, il giorno in cui, con un rito di purificazione (lustratio), il neonato è ufficialmente accolto nella famiglia e riceve il nome. Dopo un arco di tempo variabile dai 14 ai 17 anni i bambini escono dall’infanzia per entrare nell’età adulta, passaggio che segna anche la differenziazione sessuale e di ruoli sociali fra maschi e femmine.
Quando nasce un bambino è un giorno di festa. A sancirlo non bastano le felicitazioni e gli auguri di amici e parenti: per un momento così importante è necessaria la presenza degli dèi, numerosi, chiamati a partecipare all’evento con riti e preghiere, probabilmente anche con offerte e sacrifici, a proteggere e favorire il buon esito del travaglio e un felice avvio della nuova vita. Purtroppo nessuna delle fonti a nostra disposizione ci descrive compiutamente cosa accade in quel giorno, né quali cambiamenti intervengano da un’epoca all’altra e nelle diverse classi sociali. Di conseguenza possiamo ricostruirne solo un quadro frammentario.
La puerpera è assistita dall’ostetrica e confortata dal supporto di altre donne a lei vicine, solitamente la madre, la zia, non di rado anche la suocera. E dopo Fluvonia, la dea che ha bloccato il flusso mestruale per tutta la gestazione, e Alemona, che si è occupata di far crescere e alimentare (alere) il feto, è ora il tempo di invocare le numerose divinità del parto: Numeries, perché la nascita avvenga velocemente (numero); i tre dèi Nixi, per aiutare la partoriente a spingere (niti); Candelifera, alla quale all’inizio del travaglio si accende una candela, che protegge madre e bambino dagli spiriti maligni e aiuta il piccolo a venire alla luce; e naturalmente la dea maggiore, Giunone Lucina, la dea per eccellenza del dare e venire alla luce, lux appunto. Nel suo tempio, per volere del re Servio Tullio, i genitori depongono una moneta per ogni nuovo nato.
Dionigi di Alicarnasso
Antiquitates Romanae, Libro IV, 15, 5 Come scrive Lucio Pisone nel primo libro dei suoi Annali, volendo poi conoscere il numero di coloro che abitavano nella città, e di quelli che nascevano e di quelli che morivano e di quelli che (raggiungendo la maggiore età) venivano registrati fra i viri, stabilì che per ciascuno i congiunti versassero una certa somma: al tesoro di Ilizia, che i Romani chiamano Giunone Lucina, per ogni nato; a quello di Afrodite nel bosco, che chiamano Libitina, per chi moriva; al tesoro di Juventas per coloro che entravano a far parte dei viri.
Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae, trad. it. di M. Monteleone
Al parto sono presenti anche due gruppi di divinità profetiche: le due Carmente Postvorta, da post e vertere “volgere indietro”, e Antevorta o Porrima, da porro “in avanti”, vaticinatrici rispettivamente di ciò che deve ancora avvenire e di ciò che è già avvenuto. Esse sono inoltre protettrici rispettivamente del parto “rivoltato”, cioè podalico, e di quello cefalico. Nona e Decima, dee dei mesi “giusti” per partorire, rappresentano invece insieme a Parca, il cui nome deriva da partus, i Tria Fata: esse sono divinità della nascita e della profezia perché enunciano (fari) il destino (fatum) del neonato. Il bambino, protetto da tale schiera di divinità, appena nato, è immediatamente poggiato per terra dalla levatrice, che ne controlla le funzioni vitali.
È nel momento del contatto con la terra che secondo i Romani il bimbo saluta la vita emettendo il primo vagito, primo e più importante segno di vitalità e omen, presagio del suo futuro. Altri dèi presiedono a questo delicato momento, Vitumnus che dà il via alla vita, Ops, dea della terra e della prosperità, invocata ad accogliere nel suo seno il nuovo nato, Vaticanus ad aprirgli la bocca per il primo vagito e Sentinus, a dotarlo dei sensi, delle prime percezioni. In un secondo momento, verificato lo stato di buona salute del piccolo, l’ostetrica, sotto la protezione della dea Levana, lo solleva. Tollere infantem (“alzare il bambino dal suolo”) è un gesto che si ripete più di una volta nel giorno della nascita, ogni volta con diverso significato. Dapprima, come abbiamo visto, lo compie la levatrice, e al gesto materiale corrisponde anche simbolicamente l’auspicio che il neonato si alzi per bene da terra, raggiungendo con la crescita la posizione eretta, e dunque stabilità e robustezza. Successivamente invece, quando la levatrice lo avrà dichiarato in buona salute, lavato e avvolto nelle fasce, a sollevare l’infans sarà il padre, prendendolo in braccio per la prima volta, ma spesso anche solo dichiarando di volere tollere liberum, cioè di voler tenere presso di sé e “tirare su” il bambino come suo figlio legittimo. Si tratta di un atto senza alcun valore giuridico, ma di grande importanza simbolica e morale, il primo riconoscimento del neonato da parte del padre. La levatrice taglia il cordone ombelicale, lava il bambino e avvolto in fasce lo depone nella culla (cuna), su cui ora veglia la dea Cunina, per tenere lontani il malocchio e l’invidia, a cui i più piccoli, indifesi, sono costantemente esposti.
Anche il primo pasto del bambino è un passaggio tutelato dagli dèi, da Rumina per la precisione, che fa sì che le mammelle (rumae), producano buon latte fino allo svezzamento, quando per la prima volta il bambino mangerà (edere) e berrà (potare), sotto lo sguardo delle dee Educa e Potina. Solo quando nella stanza del parto tutto si è concluso, nei riti della nascita viene coinvolto il resto della casa, ovvero gli uomini, padre per primo. A lui tocca ornare porte e stipiti con corone di alloro, pianta sacra, purificatrice e benefica, simbolo di pace e vittoria. La prima notte di vita del figlio, con l’aiuto di altri due uomini il padre deve stare a guardia della domus e compiere un rito per impedire al dio agreste Silvano di entrarvi a vessare e tormentare madre e bambino: gireranno intorno al perimetro della casa, uno percuoterà la soglia con la scure, uno la batterà col pestello, uno la spazzerà con la scopa. Con questo rito saranno presenti i tre dèi Intercidona, Pilumno e Deverra, dèi delle attività umane che si svolgono negli spazi domestici, preposti alla potatura delle piante e al taglio della legna con la scure (intercisio), la macina col pestello (pilum) per fare la farina, la pulizia del pavimento, ovvero lo spazzare (deverrere). Grazie alle loro attività il selvatico e incultus Silvano non avrà accesso allo spazio “civilizzato” della casa.
Nel giorno della nascita e nei nove a seguire inoltre Pilumno non sarà presente solo fuori dalla casa, ma sarà accolto dentro, invitato a dormirvi e mangiarvi. Subito dopo il parto infatti per lui e per un altro dio, Picumno, nell’atrium, lo spazio più centrale e pubblico della domus, viene allestito un lectisternium, un banchetto imbandito ricco di vivande e offerte. Ciò in ragione del fatto che i due sono dii coniugales e infantium, dèi protettori del matrimonio e dei bambini, tanto che i Romani fanno derivare il nome Pilumno ora dal pestello (pilum) ora dal verbo pellere, “scacciare”, perché terrebbe lontani i mali che minacciano i neonati; Picumno invece altro non sarebbe se non il picchio (picus) l’animale che insieme alla lupa si prese cura di Romolo e Remo appena nati (l’una li allattava, l’altro li imbeccava). Non sempre tuttavia il lectisternium è dedicato a Pilumno e Picumno. Nelle case nobili e lontane dall’ambiente agricolo esso è offerto ad altre due divinità altrettanto rappresentative di matrimonio e procreazione, Giunone Lucina ed Ercole. A Giunone ci si rivolge non solo in quanto dea che aiuta il parto, ma come ipostasi della madre stessa, della madre che allatta, della matrona. Sulla sua mensa le amiche della partoriente che vengono in visita portano offerte e celebrano sacrifici. Dal canto suo invece Ercole viene chiamato in causa come protettore del neonato: forse perché l’eroe è venuto alla luce felicemente dopo un parto molto travagliato, o forse perché si spera che il bambino sia “adottato”, cioè protetto, da Giunone, come nel mito lo è stato Ercole, dietro preghiera dello stesso Giove. Pare inoltre che nel tempio di Giunone vi fosse una mensa offerta a Ercole e che i genitori vi portassero i bambini, perché mangiando anche loro da lì acquistassero la sua stessa forza. Forse il lectisternium offerto nell’atrio della casa il giorno della nascita assolve la stessa funzione, cioè trasmette la fortitudo ercolina al neonato.
Sicuramente però Ercole è lì presente insieme a Giunone in qualità anche lui di deus coniugalis: nell’ultima notte da vergine la sposa, come tutte le spose romane, aveva indossato una tunica stretta in vita da una cintura di lana chiusa con un nodo molto difficile da sciogliere, il nodus herculaneus, una sorta di amuletum che avrebbe portato fortuna alla coppia e fertilità: si trattava infatti dello stesso nodo che portava Ercole che aveva avuto ben 70 figli. Lo sposo, durante la prima notte di nozze, deve slegare i quattro giri di quel nodo, con l’aiuto di Giunone Cinxia, da cingulum (“cintura”). E ora che, a parto avvenuto, l’augurio del nodus herculaneus è compiuto, Ercole gode a pieno titolo insieme a Giunone del banchetto. Il lectisternium rimarrà nell’atrium otto giorni se a nascere è stata una femmina, nove se il bimbo è un maschio. Verso il settimo giorno cadrà il cordone ombelicale del bambino, momento delicato e molto pericoloso, mentre all’incirca nello stesso periodo il piccolo sarà capace di aprire gli occhi.
Entrerà allora in una nuova fase della sua vita, lasciandosi alle spalle i rischi maggiori di contaminazione e morte. Solo allora sarà il momento di sancire l’ingresso ufficiale del nuovo nato nella famiglia celebrando il dies lustricus.
Plutarco di Cheronea
Questioni Romane, 102 Danno il nome ai bambini, ai maschi il nono giorno, alle femmine l’ottavo. Perché?
Forse la precedenza alle femmine ha come causa la natura. Infatti la femmina cresce e raggiunge la pubertà e il pieno sviluppo prima del maschio. Quanto ai giorni, assumono quelli dopo il settimo, poiché per i neonati il settimo è pericoloso oltre al resto anche per il cordone ombelicale. Infatti nella maggior parte si stacca il settimo giorno, ma finché non si è staccato il bambino assomiglia più a una pianta che a un animale.
Plutarco di Cheronea, Questioni Romane, trad. it. di N. Marinone, Milano, BUR, 2007
Se il dies natalis è il giorno della nascita biologica, il dies lustricus è quello della nascita sociale, in cui il neonato, ricevendo il nome e dunque l’identità, nasce per così dire definitivamente come individuo. Per questa occasione si parla anche di dies nominalis. È il primo passaggio della vita in cui i Romani fanno una distinzione fra maschi e femmine. Per queste infatti il dies lustricus si celebra l’ottavo giorno, per quelli il nono. Le ragioni di tale differenza non sono chiare, sebbene lo scrittore greco Plutarco offra come spiegazione possibile la maggiore probabilità di sopravvivenza per le femmine, il fatto cioè che esse possano ritenersi fuori pericolo di vita prima dei maschi.
Solo trascorso tale periodo dalla nascita i pueri e le puellae possono essere considerati definitivamente “individui” e di conseguenza ricevere il nome e il loro posto nella famiglia. Innanzitutto, come per tutti i cambiamenti importanti anche per l’ingresso del bambino nella famiglia e nella comunità cittadina, è necessario un rito di purificazione, una lustratio, da cui deriva l’espressione dies lustricus. Alla celebrazione devono partecipare dopo essersi purificati dalla contaminazione del parto tutti coloro che erano presenti anche durante i riti del dies natalis. E naturalmente non possono mancare gli dèi: di certo ci sono Nundina, la dea del nono giorno, e i Tria Fata. Stavolta nella loro funzione più specificamente profetica le tre dee fissano il fatum del bambino prefigurato dal nome stesso che gli viene imposto: una lo enuncia, fari, un’altra lo scrive, la terza lo svolge, come a Roma si svolge qualunque rotolo scritto. Sotto la protezione di queste e altre divinità, di cui non è dato sapere, ha luogo il rito di purificazione. Si celebra un sacrificio, si pone sulle labbra del bambino qualche granello di mistura sacra, la mola salsa, gli si fa il primo bagno e, gesto a un tempo purificatore e propiziatorio, la nonna o la zia materna gli tocca col dito inumidito di saliva la fronte e la bocca, pregando per la sua felicità futura.
Aulo Persio Flacco
Saturae, II, 31-38
Ecco la nonna o la zia, così timorata di dio, sollevare dalla culla il bambino e purificargli la fronte e le umide labbra col dito medio bagnato di lustrale saliva, abile com’è a fermare gli influssi maligni; poi lo scuote tra le mani e nel fervore dei suoi desideri manda la sua insaziabile speranza fin nei campi di Licino, fin nei palazzi di Crasso: “Lo bramino come genero un re e una regina, se lo contendano le fanciulle; dovunque porrà il piede, qui nascerà una rosa!”
Aulo Persio Flacco, Saturae, trad.it. di A. La Penna, Milano, BUR, 1979
Col dies lustricus non finiscono tuttavia i pericoli. Tutta la pueritia è un’età esposta a malocchio, invidia e abusi. Forse è proprio nel giorno in cui gli viene dato il nome che si mette al collo del puer l’amuleto che lo proteggerà fino all’ingresso nell’età adulta, la bulla, e che insieme alla toga praetexta sarà il suo distintivo, simbolo della sua nascita libera e dell’inviolabilità della sua età pura e indifesa.
Quando era ancora un fanciullo, il figlio del re Tarquinio Prisco, a dispetto della tenera età, si gettò nella battaglia contro i nemici uccidendone coraggiosamente uno, o forse molti. Il suo gesto diede rinnovato vigore ai Romani, tanto da portarli ad una schiacciante vittoria. Plutarco e Macrobio raccontano che come premio e riconoscimento della virilità e del valore di quell’atto Tarquinio insignì il figlio della toga praetexta, la toga dei magistrati, e della bulla, il medaglione che i generali portavano appeso al collo durante il corteo trionfale.
A questo episodio i Romani fanno risalire l’istituzione dei simboli dell’infanzia e gli insignia ingenuitatis, distintivi, per chi li possiede, di nascita libera: la bulla e la toga praetexta. La bulla è un medaglione che si porta appeso al collo, ben visibile sul petto. È composto da due placche concave unite fra loro che gli fanno assumere la forma appunto di una bolla, una sfera vuota. Al suo interno stanno remedia e praebia (rimedi e amuleti) oggetti dal potere magico contro malocchio e invidia. Fu proprio la moglie di Tarquinio a inventare i praebia e a metterli successivamente nella cintura che adornava la sua statua di bronzo nel tempio del dio Semo Sanco, dalla quale le persone in pericolo vanno a raschiare pezzettini per premunirsi dalla sventura.
Sesto Pompeo Festo
De verborum significatu
Invece Verrio dice che sono chiamati praebia quei rimedi che si ritiene abbia inventato Gaia Cecilia, moglie di Tarquinio Prisco, e si crede che li abbia mescolati nella sua cintura, con cui è cinta la statua di lei nel tempio di Sanco, il dio detto Dius Fidius. Da essa coloro che si trovano in pericolo prendono dei pezzetti. Verrio dice che si chiamano praebia perché tengono lontani, impediscono (prohibeant) i mali.
S. Pompeo Festo, De verborum significatu, trad. it. di M. Monteleone
La bulla non è destinata a tutti i neonati. Non si sa se essa vada in dono anche alle femmine, per le quali è più comune portare la lunula, un pendaglio dalla forza protettrice a forma di piccolo crescente lunare. Per molto tempo inoltre la bulla è riservata ai figli dei patrizi, mentre i plebei devono accontentarsi della versione in cuoio, il lorum, e solo molto tardi il diritto di indossarla viene esteso anche ai figli dei liberti. Ma anche allora essa è e rimane simbolo di nascita libera al pari della toga praetexta, la toga bianca orlata di porpora, l’uniforme, potremmo dire, della pueritia romana. Non si tratta di un indumento qualsiasi. Tra gli adulti, solo i magistrati, i sacerdoti e gli officianti dei sacri riti possono indossarla, simbolo visibile, marchio immediatamente riconoscibile di inviolabilità e sacralità. Il bordo di porpora della toga infatti indica inequivocabilmente che chi la porta non va toccato, è una persona “a statuto speciale”, come lo sono i bambini. La toga praetexta dei bambini romani è in tal senso la guardiana della loro purezza, indice manifesto che la loro innocenza e il loro pudor non vanno contaminati in alcun modo, né con atti, ma nemmeno con parole oscene e che c’è la porpora a custodire la loro castità fino a quando non abbiano varcato la soglia dell’età adulta, il secondo grande momento di passaggio nella vita di un romano, dopo la nascita.
Plutarco di Cheronea
Questioni Romane, 101
Adornano i ragazzi con i ciondoli al collo che chiamano bullae. Perché?
Forse in onore delle mogli rapite, come molte altre cose, votarono anche questo per i figli nati da esse. Oppure per onorare il coraggio di Tarquinio. Infatti si narra che, quando era ancora un ragazzo, nella battaglia contro Latini ed Etruschi uniti si lanciò sui nemici: caduto da cavallo e affrontando arditamente quelli che lo assalivano, rinfrancò i Romani; poiché ci fu una famosa sconfitta dei nemici e 16 mila furono uccisi, egli ricevette questo premio dal re suo padre.
Oppure per gli antichi non era disdicevole né vergognoso fare l’amore con servitori che fossero nel fiore della giovinezza, come ancor oggi attestano le commedie, ma si astenevano rigorosamente dai giovinetti di nascita libera: ad evitare di sbagliarsi quando li incontravano svestiti, i ragazzi portavano questo segno esteriore. O questo ha lo scopo di assicurare un buon comportamento e in certo modo frenare l’incontinenza, perché essi avessero vergogna di comportarsi da uomo prima di aver smesso il segno della fanciullezza.
Plutarco di Cheronea, Questioni Romane, trad. it. di N. Marinone, Milano, BUR, 2007
Non c’è a Roma un’età precisa in cui ciò debba avvenire, ma di certo è il passaggio che segna la vera e definitiva differenziazione sessuale. Per le femmine, il passo da infanzia a maturità coincide infatti col giorno in cui vanno spose, cosa possibile teoricamente fra i 12 e i 14 anni, ma nei fatti di solito posteriore. Per i maschi, l’ingresso nella maturità, cioè nella iuventas, non è fissato, uguale per tutti, e non risponde a un unico criterio. Esso copre un arco di tempo che va dai 14 ai 17 anni. I quattordici anni rappresentano l’età a partire dalla quale presumibilmente i giovani da impuberes, incapaci di generare e, giuridicamente, di sposarsi, diventano puberes, sessualmente maturi e con capacità giuridica di contrarre matrimonio; i 17 anni, momento in cui possono cominciare il servizio militare, segnano invece un passo avanti verso il raggiungimento dello status di cives, di cittadini, che si completerà solo a 25 anni col pieno godimento dei diritti giuridici e politici.
Se tuttavia diverso per ciascuno è il momento in cui gli adolescenti da pueri possono diventare iuvenes, unico per tutti è il rito che sancisce tale trasformazione: l’assunzione della toga virile, la veste quotidiana che i cittadini romani adulti devono portare in pubblico. Essa viene chiamata in diversi modi: toga virilis, perché è la veste che indossano i viri, gli uomini; toga libera, perché possono indossarla solo i cittadini liberi con pieni diritti civili; toga pura, perché non è contraddistinta da alcun colore se non quello naturale della lana di cui è intessuta. L’aggettivo pura del resto, oltre alle qualità materiali dell’indumento, evoca la condizione di purezza morale di chi la indossa, tanto quella in cui si trovano gli adolescenti che mettono la toga per la prima volta, quanto quella che i cittadini adulti sono tenuti a mantenere. Analogamente anche la designazione libera, pur facendo riferimento allo status del cittadino, richiama la maggiore libertà di cui gode il vir rispetto al puer. Libertà che non manca di suscitare nei Romani la preoccupazione costante che, dismessa la praetexta, coloro che sono appena diventati viri si diano a costumi sfrenati e smodatezza sessuale.
L’assunzione della toga virilis rappresenta insomma un momento cruciale nella costruzione dell’identità del cittadino romano, un momento a partire dal quale si definiscono anche il suo carattere e la sua dignità morale. È un passaggio molto importante non solo per lui, ma per tutta la sua famiglia e così lo è il rito che lo sancisce, la sollemnitas togae purae. A decidere a che età e in quale giorno esso debba avere luogo è di norma il padre, a volte uno zio o, in assenza di un parente maschio, anche la madre, e lo decide sulla base di una valutazione che non si limita alla sopraggiunta pubertà, ma che tiene conto del complesso livello di maturità dell’adolescente. Non esiste una data fissa per la cerimonia, sebbene sia usanza celebrarla il 17 marzo, giorno dei Liberalia, la festa di Liber (Bacco); forse perché, dice il poeta Ovidio (Fasti, 3, 771-776) il dio sembra sempre puer e iuvenis allo stesso tempo, o perché, essendo chiamato anche Liber Pater, i padri affidano i figli alla sua protezione, o forse ancora perché con l’assunzione della toga virile i giovani acquistano di fatto maggiore libertà, compresa quella di bere, gozzovigliare e darsi a comportamenti lascivi che caratterizza le feste di Bacco. Ad ogni modo, nel giorno stabilito dai parenti, tutta la famiglia si riunisce davanti al lararium, il sacrario con il piccolo altare agli dèi domestici, i Lares, di solito posto nell’atrio della casa. Ci sono anche i servi e diversi amici del padre e del figlio, invitati apposta per l’occasione. Presso l’altare il puer depone la toga praetexta, mentre al collo dei Lares, ovvero delle statue che li raffigurano, appende la bulla, dedicando loro anche delle offerte, forse un sacrificio. Così il giovane consacra i suoi insignia ingenuitatis agli dèi domestici vestito, già dalla vigilia della cerimonia, con la tunica recta, detta così per il fatto di essere tessuta alla tela stans, un telaio al quale le tessitrici lavorano in piedi, stantes appunto. In casa è il momento per il padre di consegnare al figlio il suo abito da uomo, la toga virile, e per il figlio di indossarla, alla presenza di tutti. Termina, a questo punto, la parte “domestica” della cerimonia, che da qui in poi si sposta nello spazio civico, dove il ragazzo fa la sua prima apparizione in pubblico da novus togatus compiendo il cosiddetto tirocinium fori (primo ingresso nel foro): accompagnato da tutti i partecipanti al rito egli guida la processione per il foro fino al Campidoglio, dove celebra un sacrificio a Iuppiter e Iuventas nel tempio di Iuppiter Optimus Maximus. Alla dea, presso l’altare a lei dedicato, offre una moneta, proprio come i suoi genitori l’avevano fatto in onore di Giunone Lucina al momento della sua nascita. A Roma, oggi, è nato un nuovo cittadino.
Se per i maschi la cerimonia dell’assunzione della toga virile sancisce l’ingresso nell’età adulta, e un passo avanti nella costruzione della loro identità di cives, per le femmine, che non godono dello stesso spazio dell’uomo nella vita pubblica, e sono escluse dalle cariche politiche e militari, il rito di passaggio, la soglia della pueritia, è rappresentato dal matrimonio.
Si può dire in altri termini che mentre l’uomo romano, il vir, nasce il giorno in cui veste la toga pura, la donna romana, la mulier, nasce il giorno delle nozze, quando da virgo diventa sposa e poi matrona. Prima delle nozze anche lei, come il puer, depone le insegne della sua infanzia: la toga praetexta, che lascerà per indossare la stola, abito delle matrone, è consacrata alla Fortuna Virginale; le bambole le dedica in dono a Venere; ai Lari, forse con un rito analogo a quello compiuto dai pueri, consegna altre bambole e giocattoli, fra cui una palla, le reticelle per capelli e le vittae, i nastri con cui li ha tenuti legati finora, e da ultimo gli strophia, le bende reggiseno. La notte prima delle nozze, a scopo scaramantico e di buon augurio, come il puer quando assume la toga pura, anche la puella veste la tunica recta, e lega i capelli col reticulum luteum, una reticella giallo oro, capi, entrambi, che secondo il rito dovrebbe aver tessuto lei stessa. All’indomani, dopo il suo ultimo sonno virginale, con la cerimonia nuziale il rito di passaggio sarà compiuto e la virgo sarà finalmente mulier e uxor, donna e sposa.
Macrobio
Saturnalia, Libro I, cap. VI Tullo Ostilio, terzo re dei Romani, vinti gli Etruschi, introdusse per primo in Roma la sedia curule, i littori, la toga orlata e la pretesta, che erano insegne dei magistrati etruschi. In quei tempi però i fanciulli non si servivano della pretesta: essa, come il resto che ho citato, era indice d’onore. Ma poi Tarquinio Prisco, figlio dell’esule corinzio Demarato, detto anche secondo alcuni Lucumone, terzo re da Ostilio, quinto da Romolo, trionfò sui Sabini. In quella guerra egli lodò dinanzi all’assemblea e donò il ciondolo d’oro e la pretesta a suo figlio appena quattordicenne che aveva ucciso di sua mano un nemico, insignendo un fanciullo più coraggioso di quanto non comportasse la sua età con i premi destinati all’età virile e a riconoscimento onorifico. Infatti la pretesta era propria dei magistrati e il ciondolo d’oro dei trionfatori: lo portavano durante il trionfo, racchiudendovi gli amuleti che ritenevano più efficaci contro la malevolenza. Da questo fatto prese origine l’abitudine di far portare la pretesta e il ciondolo ai giovani nobili come augurio e voto di un valore simile a quello che era stato onorato con tali doni nella fanciullezza. Secondo altri, lo stesso Prisco, nell’ordinare le classi dei cittadini con la solerzia propria di un principe previdente, si occupò particolarmente del modo di vestire dei fanciulli liberi e decise che i patrizi portassero il ciondolo d’oro con la toga orlata da una striscia di porpora, almeno quelli i cui padri erano stati magistrati curuli; accordò a tutti gli altri la semplice pretesta, purché i loro padri avessero prestato regolare servizio in cavalleria. In nessun caso i figli dei liberti potevano vestire la pretesta ed ancor meno gli stranieri che non avevano alcun vincolo di parentela con i Romani. In seguito però la pretesta fu concessa anche ai figli dei liberti, e l’augure Marco Lelio ce ne chiarisce la causa: durante la seconda guerra punica, in esecuzione di un decreto del senato per i molti prodigi avvenuti, i duunviri consultarono i libri sibillini, e dopo averli esaminati annunziarono che bisognava fare una supplica in Campidoglio ed un banchetto sacro con il ricavato di una colletta a cui potevano partecipare anche le liberte autorizzate a portare la veste lunga. Si tennero dunque le pubbliche preghiere e l’inno fu cantato da fanciulli liberi e liberti ed insieme da vergini non orfane né di padre né di madre: da allora anche ai figli dei liberti, purché nati da matrimonio legittimo, fu concesso di vestire la toga pretesta e di portare un collare di cuoio in luogo dell’ornamento del ciondolo.
Macrobio, Saturnalia, trad. it. di N. Marinone, Torino, UTET, 1997