Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’ultimo decennio del Novecento, mentre sul piano compositivo sembra proseguire tendenze maturate già negli anni precedenti, si caratterizza soprattutto per trasformazioni profonde e forse irreversibili sul piano della comunicazione della musica e della diffusione di tecnologie che contribuiscono a una radicale democratizzazione della possibilità di progettare e realizzare musica. Decisivo è altresì il tramonto della comune distinzione fra ambito “colto” ed “extracolto”, divenuta ormai impraticabile di pari passo con ciò che si configura come una rottura nella continuità di quella tradizione colta che per secoli aveva retto la musica del mondo occidentale. La tradizione della “musica d’arte” appare ora largamente marginalizzata di fronte a innovazioni i cui protagonisti sono in gran parte autori provenienti dal rock o dal jazz e la cui produzione rifonda alla radice tutte le questioni concernenti i valori estetici e il ruolo progressivo o regressivo delle innumerevoli culture e dei generi musicali in gioco.
Pierre Bourdieu
Classi sociali e rapporto con l’opera d’arte
Ma questa analisi statistica non adempirebbe veramente alla sua funzione di verifica, se non aiutasse a capire la logica che sta all’origine delle distribuzioni che essa stabilisce; se cioè, una volta dimostrato che le dimensioni e la struttura del capitale, definite in modo sia sincronico che diacronico, costituiscono un principio di divisione delle pratiche e delle preferenze, non si riuscisse a mettere in luce il rapporto intelligibile, socio-logico, che unisce per esempio una struttura patrimoniale asimmetrica, con predominio di capitale culturale, e un determinato rapporto con l’opera d’arte.
P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1983
Nella lettura a posteriori, le grandi partizioni cronologiche della storia, i secoli o addirittura i millenni, per quanto del tutto convenzionali, esercitano un’attrazione fortissima, calamitando irresistibilmente verso i propri estremi cambiamenti epocali che non di rado sono solo illusioni prospettiche. Gli ultimi anni del XX secolo non sfuggono a questa consuetudine. Sebbene il fatto di trovarsi a “fine millennio” crei una suggestione particolare, sotto il profilo della progettazione e della creazione musicale l’ultimo decennio del secolo appare relativamente meno turbolento e innovativo rispetto ai decenni precedenti, e questo vale per la musica accademica, per le tendenze sperimentali, nonché per la popular music. In effetti, buona parte degli orientamenti e delle innovazioni musicali che hanno caratterizzato gli anni Novanta – dallo spettralismo al citazionismo, dal postminimalismo all’improvvisazione radicale, dal neotonalismo al trattamento elettronico del suono in tempo reale (live electronics), fino alle innumerevoli pratiche di ibridazione fra generi e linguaggi di varia origine (world music, dj-style ecc.) – hanno avuto il loro inizio e la loro diffusione già nei decenni precedenti.
La storiografia musicale più recente e aggiornata pone tuttavia molta attenzione a non confondere la “storia della musica” con la “storia della composizione”, due campi che in passato sono stati spesso disinvoltamente identificati secondo una prospettiva che vedeva nel genio compositivo il motore e l’essenza del divenire degli stili e delle forme musicali. Nell’ultima parte del Novecento, in sintonia con l’affermarsi, specie nel mondo anglosassone, di orientamenti di ricerca transdisciplinari legati ai cultural studies, in ambito musicologico si è consolidata la consapevolezza che non di rado i cambiamenti più decisivi per le sorti della musica non avvengono tanto sul terreno del linguaggio o delle tecniche compositive, ma riguardano altri aspetti altrettanto cruciali quali il panorama culturale, la comunicazione, le pratiche sociali, le tecnologie.
Al volgere del secolo uno dei temi più rilevanti nell’orizzonte musicale è quel processo di erosione dei confini fra generi che sempre più riguarda l’identità e il “perimetro” della musica d’arte, la cui “distinzione” (per ricorrere a un termine utilizzato dal sociologo Pierre Bourdieu) rispetto agli svariati ambiti della popular music appare sempre meno chiara e individuabile. In altre parole, ci sono sempre più artisti e correnti della popular music sempre meno popular e sempre più orientati ad accrescere l’esteticità e lo spessore teorico delle loro ricerche e sperimentazioni. Per contro, molti compositori di estrazione accademica collaborano sempre più spesso con interpreti o autori di area popular, oppure lasciano filtrare nel loro lessico tratti stilistici o citazioni di musiche “altre”, dal pop, al jazz, alle musiche tradizionali.
L’interesse dei compositori dell’area colta per le espressioni musicali extracolte non è certo una novità. Si può dire anzi che, da secoli, questa attenzione sia stata uno degli assi portanti delle vicende musicali della musica occidentale. Ma nel corso del XX secolo si delinea via via un cambiamento sostanziale, la cui conseguenza è che quei due attributi “colto” ed “extracolto”, contrariamente al passato, sono ormai del tutto inutilizzabili in un panorama musicale che si caratterizza proprio per l’importanza che vi assumono autori e musiche di cross-over, cioè che incrociano nei modi più diversi e non di rado sconcertanti gli stilemi, le competenze, le pratiche sociali dei due diversi ambiti.
Questa libertà degli accostamenti polistilistici, il gusto dell’ibridazione fra generi diversi sono generalmente ricondotti al postmodernismo, l’orientamento teorico ed estetico affermatosi in campo culturale e artistico nell’ultimo quarto del secolo sulla scia di pensatori quali Foucault, Derrida, ma soprattutto Lyotard. Termine a lungo andare inflazionato, il postmoderno pone l’accento sulla totale libertà interpretativa dell’artista e del fruitore, sulla scia di un celebre aforisma di Paul Valéry che recita: “Mes vers ont le sens qu’on leur prête” (I miei versi hanno il senso che loro si attribuisce). In campo musicale, questo accento libertario e antiaccademico, la programmatica mescolanza di linguaggi e di stili attinti a 360 gradi, la dissacrazione dei canoni e, infine, l’idea del significato e quindi del valore estetico come flusso aperto, perennemente mutevole e ridefinibile suonano come una versione fin de siècle di un groviglio di motivi antiromantici e antimetafisici che da Gioacchino Rossini a Erik Satie, da Jean Cocteau al dadaismo, possono dirsi endemici in seno alla musica moderna e che confluiscono nell’operato di John Cage per poi da esso diramarsi verso gli esiti più diversificati. Da questo punto di vista è fondata l’affermazione di Umberto Eco secondo cui “ogni epoca ha il proprio postmoderno”.
Ma ciò che qualifica in modo fortemente specifico il panorama musicale di fine secolo è il generalizzato confronto di natura ideologica fra orientamenti diversi – postmoderni versus epigoni del modernismo, paladini del popular versus custodi della musica d’arte ecc. – che vicendevolmente si accusano di rappresentare tendenze regressive ovvero oscurantiste, con una pressoché generalizzata adozione delle categorie adorniane di progresso e reazione come criteri di giudizio, anche da parte degli avversari del filosofo francofortese.
Ne è derivata una sostanziale impasse teorica, una situazione di stallo nella quale si fronteggiano accusatori del postmoderno come tendenza reazionaria (assimilata spesso al neoclassicismo in virtù del suo disinvolto recupero di stilemi da altri giudicati “storicamente esauriti”) e sostenitori di esso che invece lo indicano come via d’uscita da un modernismo giudicato determinista, scientificizzante e moralista e sentito come soffocante la libertà creativa. Schieramenti che, inoltre, non sono affatto omogenei e delimitabili, non foss’altro per il fatto che già in Adorno è presente l’aporia del neoclassicismo e della serialità condannati entrambi come derive feticistiche e reazionarie.
Al successo delle musiche ripetitive o minimaliste che dir si voglia (con un autore come Philip Glass assurto quasi al ruolo di pop-star) e dei loro innumerevoli epigoni dislocati nelle province dell’impero, segue a partire dagli anni Ottanta l’ondata dei compositori dell’Est europeo (Schnittke, Pärt, Kancheli, Górecki) la cui musica riscuote un sorprendente successo di pubblico: basti ricordare la Sinfonia n. 3 di Henryk Mikolaj Górecki che nel 1993 raggiunge la vetta delle classifiche discografiche non solo del classico, ma anche del pop.
Attorno a queste tendenze, spesso definite in modo sommario quanto improprio come “neotonali”, si raccolgono schiere di giovani seguaci più o meno abili, accomunati dall’idea – che è anche un’ambizione – di una musica d’arte contemporanea capace di comunicare col pubblico e, conseguentemente, da un rifiuto dell’eredità darmstadtiana e, in generale, delle d’avanguardie del secondo dopoguerra, pur con vari distinguo.
Si delinea così il paradigma musicale di fine millennio: una musica permeabile ai più diversi influssi provenienti da un contesto sociale e geopolitico alquanto burrascoso e mutevole; compositori intenti a coniugare nelle loro creazioni i diversi ingredienti musicali che la comunicazione mediatica e l’industria discografica non cessano di portare alla ribalta, cercando sovente la collaborazione di interpreti e autori del pop, del jazz, della world music. Dall’olandese Louis Andriessen al cinese Tan Dun, dagli americani Michael Daugherty, David Lang o Steven Mackey, agli inglesi Steve Martland o Thomas Adès, agli italiani Fausto Romitelli o Giovanni Sollima o Luigi Ceccarelli, la gamma dei presupposti e degli esiti stilistici, pur amplissima e quantomai diversificata, può ricondursi a un comune proposito di puntellare quella tradizione colta della musica da concerto, sinfonica od operistica il cui smottamento, per altro, non si arresta sotto la spinta di altre realtà sonore. In altre parole non si esce da quel circolo vizioso che Mario Baroni ha colto acutamente, osservando come il confronto sul rinnovamento musicale attualmente in atto in seno alla musica accademica abbia un punto debole: l’incapacità di mettere in discussione la continuità della tradizione della “musica colta europea, i cui presupposti ideologici (compresi quelli sulle funzioni estetiche della musica) sono ancora accettati e considerati validi. Ciò che si dovrebbe cambiare sarebbe solo il tipo di linguaggio”.
Gli ultimi anni del secolo mettono in luce la rottura di questa continuità, a seguito della quale la musica di tradizione colta non è più alla guida del rinnovamento e del progresso musicale. Le questioni tutte interne alla comunità dei compositori concernenti il linguaggio compositivo, ad onta degli sforzi di rilanciare il radicalismo sperimentale da un lato, o di “apertura” alle musiche diverse dall’altro, hanno condotto a perdere di vista il fatto che le innovazioni, le sperimentazioni, le applicazioni tecnologiche e, in generale, i fermenti musicali più eversivi si realizzano ormai in prevalenza entro ambiti largamente estranei alla tradizione europea della musica d’arte.
Pur appartenendo genericamente all’area della popular music, questa nuova ricerca musicale è riconducibile solo a stento ad ambiti tradizionali quali jazz, rock o altro. Nella critica internazionale e sulle riviste specializzate, prolifera a questo riguardo una colorita terminologia in perpetuo divenire. Si parla di post-jazz, art-rock, avant-rock, world-beat, global, industrial, noise, electronica, trance-ambient, dj-style, plunderphonics ecc. È una terminologia fluttuante, spesso superficiale, che denuncia da un lato la mobilità e la mutevolezza di questi generi, dall’altro l’assenza di una sistematizzazione teorica e di una collocazione culturale accreditata e condivisa. È in questi territori extraaccademici ormai fortemente intellettualizzati e animati da esplicite finalità artistiche e sperimentali, dove l’ibridazione, la dissacrazione e il riassemblaggio del passato o addirittura il vero e proprio saccheggio del già fatto sono ormai moneta corrente, che il postmoderno trova la sua realizzazione più estrema.
Questo scenario non sarebbe però stato possibile se non fossero intervenuti alcuni fattori precisi. Innanzitutto l’enorme progresso e la miniaturizzazione della tecnologia audio tale da consentire a chiunque, con una modica cifra, di disporre di apparecchiature con le quali realizzare registrazioni, mixaggi, elaborazioni elettroniche del suono di standard elevatissimo. Il risultato è rivoluzionario: fare musica, comporre musica, addirittura immetterla sul mercato, divengono attività alla portata di quasi tutti.
Altro fattore determinante è il tramonto della creazione individuale a fronte dell’affermarsi di una prassi creativa di équipe che rivaluta con forza la performance e l’improvvisazione come momenti essenziali del processo creativo. La musica di fine secolo, anche quella più intellettualizzata ed estetizzante, è sempre più il frutto di un lavoro collettivo, anche se per ragioni di copyright continua spesso a essere firmata da un solo autore.
Altrettanto importante, infine, è stata la nascita di collettivi musicali di altissimo livello formati da musicisti capaci di affrontare i più diversi repertori accademici, jazz, popular ecc. Ensembles come il Bang On A Can di New York, oppure l’Ensemble Modern di Francoforte sono stati negli ultimi anni del XX secolo propulsori formidabili della nuova musica, diventando per i nuovi compositori strumenti insostituibili e mettendo brutalmente in risalto l’inadeguatezza degli standard esecutivi tradizionali su cui si regge un establishment musicale che penalizza fortissimamente le musiche troppo difformi o troppo difficili, quello stesso establishment contro il quale un compositore di estrazione rock come Frank Zappa (1940-1993) ha scagliato le sue critiche più feroci. Di particolare significato per le sorti della musica dell’ultimo decennio è l’incontro tra Frank Zappa e l’Ensemble Modern che mette fine al perdurante rifiuto del musicista americano di affidare ad altri complessi l’esecuzione delle proprie musiche (la cui difficoltà tecnica è proverbiale), dopo le delusioni procurategli da alcune importanti orchestre, incluso il celebre Ensemble Intercontemporain.
Il successo di The Yellow Shark (1992) una suite di brani composti da Zappa ed eseguiti magistralmente dall’Ensemble Modern nelle più prestigiose sale da concerto del mondo, può essere considerato l’episodio saliente di un’inedita fase musicale nella quale i contributi più originali e dirompenti nei vari generi della musica da concerto, del teatro musicale o dell’elettroacustica provengono da musicisti di formazione non accademica che riversano nella loro prassi compositiva l’impronta incancellabile della loro esperienza maturata nell’underground e nelle musiche eterodosse. Il caso più eclatante è forse quello di Frank Zappa, ma lo stesso vale per vari esponenti della musica radicale newyorchese fra i quali il vulcanico John Zorn (1953-) e l’eclettico Uri Caine (1956-), oppure per il tedesco Heiner Goebbels (1952-), autore di una produzione musicale di assoluto rilievo e di squisita vocazione teatrale. Lavori quali Die Befreiung des Prometheus (1991), Schwarz auf Weiss (1996), Eislermaterial (1998), alcuni dei quali realizzati con la collaborazione determinante dell’Ensemble Modern, sono esempi di una drammaturgia delineatasi nella lunga collaborazione con Heiner Müller e che musicalmente deve molto a Hanns Eisler. Intriso di profondo impegno civile e politico, totalmente emancipato dal formato operistico e da condizionamenti narrativi, il teatro musicale di Goebbels, permeato di umori metropolitani e industriali, si costruisce su un sincretismo musicale non ancora catalogabile. È una geometria spiazzante, un esempio fra i più efficaci e graffianti circa i possibili modi per archiviare il XX secolo e procedere oltre.