Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La musica ha sempre avuto un’“immagine”; dalle locandine del rock delle origini ai sofisticati sistemi multimediali dei concerti attuali, passando dalle copertine al packaging, ai videoclip e ai siti web. Si costruisce così un territorio importante anche per l’evoluzione complessiva del linguaggio visivo.
Il mercato della musica pop ha offerto spunti molto forti alla storia del graphic design, ad esempio nella definizione del rapporto fra underground e mainstream (per quanto queste due parole possano avere valore oggi), e nella conseguente logica di definizione di stili visuali fagocitati e riproposti dal mercato delle merci, non solo musicale ovviamente. Poi, ha sollevato, sempre più frequentemente specie in tempi recenti, problematiche sinestetiche. Infine, ha anche permesso a progettisti giovani di trovare affermazioni più o meno definitive. Va inoltre considerata l’articolazione del meccanismo di comunicazione messo in moto dall’industria ma anche dall’autoproduzione che, in campo musicale, non si limita certo alle copertine dei dischi (oggi cd).
Una delle prime date fondative è costituita dall’apparizione dei cosiddetti manifesti psichedelici nella California degli anni Sessanta. Wes Wilson, Rick Griffin, Mouse & Kelley, Victor Moscoso sono i cinque riconosciuti maestri di una linea che abbatte i criteri di leggibilità in favore di una visionarietà capace di mescolare radici colte (Secessione viennese e art nouveau) e popolari (kustom kulture e iconografia surf). Anche le copertine si aprono a soluzioni curiose: il fumetto (il leggendario Cheap Trills dei Big Brothers and the Holding Company disegnato da Robert Crumb) o la fotografia debitamente virata. Non va inoltre dimenticata l’importanza delle luci negli spettacoli di allora (al Fillmore e all’Avalon Ballroom, nella fattispecie): le varie crew come Holy Sight firmano regolarmente gli spettacoli finendo nei manifesti con un ruolo non certo secondario. Ciò rappresenta un salto in avanti molto forte rispetto a una tradizione, quella del rock delle origini, ragionevolmente vernacolare (oggi molto riscoperta, invero), legata alle origini contadine del genere, ibridate con influenze provenienti dallo sport (la boxe, in primis). È vero però che il jazz già dagli anni Cinquanta ci ha dato prove raffinate, talora rarefatte, di maturità del visual: pensiamo al caso straordinario di Reid Miles (con il fotografo Francis Wolff) per l’etichetta Blue Note.
Ma negli anni Sessanta la discografia è un mercato già maturo (celebre la scrittura dei Grateful Dead, che impegnano l’etichetta discografica in favore di concerti gratuiti nell’area di San Francisco). Le belle copertine fotografiche di Jimi Hendrix (1942-1970) sono un prodotto ben confezionato, in linea tuttavia con le emergenze dell’epoca, e non indenne dai meccanismi della censura. Nella contaminazione fra subcultura e mercato giocano anche i Beatles: ne sono un esempio la celebratissima copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (foto di Peter Blake), con tutti i suoi simbolismi per iniziati; ma anche la coeva banana di Andy Warhol per i Velvet Underground (1967).
Una dicotomia già affrontata dal jazz riguarda strettamente i progettisti grafici: fra unicità e sistema, ovvero fra varietà delle immagini e coordinazione, all’interno di collane o rispetto all’identità della casa editrice. Ciò naturalmente ha un corrispettivo commerciale: la necessità di imporre un grande hit (che il suo visual sia o meno deciso in collaborazione con il musicista) versus l’autorevolezza di alcune etichette che faccia da garanzia sui contenuti. È forse, quest’ultimo, il caso di Atlantic, che negli anni Sessanta si avvale della collaborazione di Paula Scher (delle Pentagram), designer di eccezionale levatura.
È un’antinomia cara alla storia del graphic design, quella fra sistema e immagine, fra rigore scientifico e creatività artistica. I primi anni Settanta ci raccontano dell’evoluzione surrealista della visionarietà, cara al decennio precedente, nelle copertine fantasy di Roger Dean. Illustrazione contro fotografia, si potrebbe anche suggerire, nell’ascesa di fotografi celebri come Mick Rock: pensiamo ai ritratti di David Bowie, musicista peraltro, come avremo modo di vedere, estremamente attento al visual. Con un esempio che è una miscela fra le due, in chiave nouveau réalisme: Hipgnosis e la sua storica collaborazione con i Pink Floyd. Nell’orizzonte del glam appare una logica di estetica globale e di coordinazione stilistica che ovviamente trova conferme sulla scena dei concerti, ma che riguarda anche specificamente il progetto grafico: Brian Ferry con i Roxy Music appare come art director, avvalendosi di fotografi quali Nick Deville.
Ma un’altra e più sonora esplosione è all’orizzonte: il punk, dove la grafica ha parecchio da dire, non solo perché, fra locandine e copertine, autori come Jamie Reid (Sex Pistols) impongono uno stile destinato a essere un punto di riferimento; ma anche perché fenomeni correlati come le fanzine (fan-magazine) finiscono per estendere massicciamente le propaggini di questa estetica. La rivista “Rolling Stone” è all’epoca già diventata una celebrità mainstream: da una nascita underground nel 1967, con la chiamata di grafici come Martin Sharp e Richard Neville, provenienti dall’ipervisionaria “Oz”; al progetto di un professionista come Roger Black, sviluppato in contemporanea ai suoi interventi su “Newsweek” e “Harper’s Bazaar”. La fanzinerie punk si trasforma in editoria: anche in Italia, con “Rockerilla”, ad esempio, replicando rudezze destinate a raffinarsi nell’immaginario artificiale della New Wave. Da qui prendono le mosse autori destinati a essere consacrati dal nascente star-system della grafica, legati a etichette che sono espressione di culture peculiari: Peter Saville e la Factory, Malcom Garret, poco più tardi Vaughan Oliver e la 4AD. La prima vera star nel graphic design formatosi nell’industria musicale è Neville Brody, anche se la sua fortuna è dovuta al mensile “The Face”. Si tratta di etichette che non adottano logiche di sistema ma che affidano ormai la loro riconoscibilità alla cifra stilistica di un progettista.
La nascita del videoclip pone ulteriori problemi, inizialmente scarsamente affrontati, di coordinazione: è pur vero che, essendo la regia compito di altri specialisti, i progettisti grafici si danno da fare anche in questo settore. Un caso italiano è Francesco Messina (Polystudio) nel suo rapporto pluridecennale con Franco Battiato. Una figura che può rivestire in realtà anche il ruolo di produttore; come il sempre nostrano Giacomo Spazio, alle prese con l’edizione, e il graphic design, della più celebre fra le indie (etichetta discografica indipendente) italiane, la Vox Pop.
Tali problematiche sono destinate a consolidarsi negli anni Novanta, a fronte di un mercato ancor più complesso e di una evoluzione tecnologica inusitata (come l’apparizione del web). È ancora il lavoro per le indie a connotarsi attraverso il lavoro di studi come Designers’ Republic per Warp. Addirittura, qualche progettista potrebbe vantare di aver coniato (involontariamente) l’immaginario di un genere, come nel caso di Art Chandry con il grunge. Lo sviluppo delle nuove tecnologie riguarda direttamente anche la forma spettacolare della musica sancita, a livello di massa, dagli U2, con un richiamo fra videoclip e proiezioni in scena. L’avvento del cd invece non diminuisce l’importanza del graphic design, anzi pone nuove problematiche di packaging. Sono i gruppi legati alla scena elettronica in realtà a individuare il percorso evolutivo: la scena techno berlinese, fatta di flyers (gli inviti per le serate) e prime proiezioni digitali, è ben rappresentata, in tutto il suo splendore artificiale, dal volume Localizer 1.0 edito in Germania da Die Gestalten Verlag. Ma la fusione è alle porte: Tomato, uno degli studi londinesi più affermati dell’ultimo decennio, vanta al suo interno due componenti della band elettronica degli Underworld.
Strutture specializzate, come la londinese UVA, producono set per concerti e ambientazioni per eventi commerciali (anche sonore). Sempre di graphic design si tratta quando crew come D-Fuse (ex assistenti in Tomato) vincono i primi contest dedicati al settore (Netmage). Anche l’orizzonte del videoclip si allarga: autori come Chris Cunningham, Spike Jonze, Michel Gondry arrivano a due passi, in certi casi, dalla pura sinestesia. Nel caso di Mike Mills (Air, Kelly Watch The Stars), è lecito parlare esplicitamente di matrice comune con il graphic design. Nasce un ambito, quello dei cosiddetti cross media, che ibrida di fatto provenienze, formazioni, mezzi: la grafica è presente in tutte le sue forme (lettering, immagini fisse, diagrammi, elementi di impaginazione) al fianco di riprese video sempre più trattate (e a sempre minor costo) e all’animazione gratificata dall’avvento di Flash, originariamente un programma per il web. Onedotzero, con il suo sito, le sue release e dvd, i suoi libri (Blur) si preoccupa di monitorare un settore ancora in fase di pieno fermento. Un fermento poliedrico, che prescinde dalle tecnologie. Le copertine di Jonathan Barnbrook, ancora per Bowie, ce lo dimostrano; anche nel mainstream.