Musica e retorica tra Grecia e Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La comparazione tra i sistemi di comunicazione della retorica e della musica, che costituiscono una delle principali eredità del mondo antico, non va storicamente considerata come frutto di un pensiero unitario, in quanto si configura in modo differente a seconda del periodo storico. Lo documentano brani tratti dalle più rappresentative opere retoriche greche e latine prodotte nei secoli compresi tra il IV a.C. e il I d.C., come la Retorica di Aristotele, gli anonimi Sullo stile e Sul Sublime, i trattati di Dionigi di Alicarnasso e Quintiliano.
A partire dal VI secolo a.C., e ancora per tutto il IV, gli insegnamenti della grammatica e della musica costituiscono la base comune per l’apprendimento di tutti gli altri saperi: vi sono istruiti letterati, filosofi e sofisti come Laso di Ermione, Democrito, Ippia e Eraclide Pontico. Ancora a distanza di molti secoli Filodemo considera la grammatica e la musica discipline analoghe e Plutarco ritiene che abbiano in comune l’oggetto di studio: la voce umana.
L’esistenza di uno stretto rapporto tra grammatica e musica ha una probabile origine di matrice pitagorica; sostenuta in alcuni dialoghi di Platone, è poi ribadita nei trattati musicali di due continuatori di Aristotele: uno diretto, Aristosseno, e uno molto più tardo, Adrasto di Afrodisia. Tale idea è poi diffusa nel mondo latino attraverso la traduzione latina e il commento del Timeo platonico a opera di Calcidio.
Cantori e rapsodi, ma anche attori e oratori, in quanto “tecnici della voce” apprendono in maniera analoga le pratiche per intonare la voce o recitare. Il volume, l’altezza, le inflessioni del tono, il ritmo sono tutti elementi indispensabili per una comunicazione efficace, capace di raggiungere l’animo degli ascoltatori (ancor prima della mente) suscitando una vasta gamma di emozioni e di reazioni.
Non è infatti raro che i retori, professionisti della comunicazione dell’antichità, abbiano conoscenze musicali approfondite, spesso frutto di una tradizione culturale diffusa nella famiglia di origine più o meno allargata. È lo stesso Aristotele che nella Retorica (3, 1403b) attesta l’esigenza di trasferire nella trattatistica dedicata all’oratoria le linee portanti e i precetti della pratica musicale: nel momento in cui gli attori iniziano a godere di maggiore considerazione sociale rispetto agli stessi poeti, ci si accorge che lo studio della recitazione può travalicare i confini dei suoi ambiti tradizionali, come il teatro e la poesia, per diventare un fattore vincente anche nei dibattiti politici. Aristotele sottolinea che, proprio a causa di questo stato di cose, la recitazione possiede di fatto un’efficacia straordinaria sull’uditorio (pros ten akroaten) ormai abituato a subire il fascino della voce più che a seguire il ragionamento, e che per tali ragioni i meccanismi della recitazione, comprese le reazioni emotive del pubblico, sono divenute – come la poetica – oggetto di riflessione nella trattatistica. Nella Retorica (3, 1, 1403b) Aristotele definisce il fenomeno stesso della recitazione (ta peri ten hypokrisin): essa riguarda “la voce e il modo in cui essa deve essere usata per esprimere ciascuna emozione (pathos) – quando, ad esempio, deve essere forte, quando debole, quando media – e il modo in cui ci si deve servire dei toni (tonois) – acuto, grave e medio – e quali ritmi devono essere seguiti in ogni caso. Tre sono gli elementi che si devono considerare: essi sono il volume, l’armonia e il ritmo (megethos, harmonia, rhythmos)”.
Aristotele dunque prosegue con la trattazione sistematica delle relazioni esistenti tra la disposizione delle parti del discorso e la loro esecuzione, nella quale le dinamiche dello stile sono spesso comparate alle dinamiche della musica che l’oratore conosce bene e che sono del tutto comprensibili anche al vasto pubblico. Il confronto più noto (Retorica 3, 14, 1414b) concerne l’esordio dell’orazione, il prologo di una lirica e il preludio di una composizione strumentale per aulos, il principale strumento a fiato nel mondo greco: “Il preludio è simile all’esordio dei discorsi epidittici, poiché i suonatori di aulos eseguono per prima cosa un pezzo che sanno eseguire abilmente e lo collegano alla nota iniziale del motivo, e anche nei discorsi epidittici si deve scrivere in questo modo: dopo aver detto quel che si vuole, introdurre il motivo e collegarlo, come tutti fanno”.
Il paragone sarà ripreso, intorno al 55 a.C., da Cicerone nel De oratore (2, 80, 325): “L’esordio poi dovrà essere strettamente legato al resto del discorso, in modo da apparire un membro del corpo ad esso intimamente connesso, e non qualcosa di appiccicato come il preludio di un citaredo”.
Non sappiamo se veramente Cicerone sia stato allievo di Demetrio di Siria, a Roma nell’80 a.C., quando si trasmette il trattato Sullo stile (Peri hermeneias), la cui paternità è poi attribuita al più celebre Demetrio Falereo. Tuttavia sembra ricercata in esso una coerenza tra i vari livelli di articolazione del testo: suono, lessico, sintassi e significato. Il retore cita (Sullo stile, 185) come esempio di frase dal ritmo “allungato” il testo di Platone (Repubblica 3, 399d) “Mentre nelle zone di campagna per i pastori ci sarebbe una siringa” (kai au kat’agrous tois poimesin syrinx an tis eie), che riproduce nella scelta e nell’ordine delle parole una sorta di imitazione del suono dello strumento.
Circa cinquant’anni dopo la diffusione del trattato Sullo stile e una ventina dopo gli scritti retorici ciceroniani, quando la propaganda politica dell’età augustea diffonde l’immagine di Roma come città “greca” che aveva appreso la paideia greca e risultava pertanto giustificata nel suo ruolo di dominatrice del mondo “greco”, le élite greche a Roma conquistano ruolo e prestigio non solo culturale ma anche politico. Immigrati colti e provenienti da famiglie di rango nobiliare dell’Asia Minore si legano a influenti famiglie romane. Ne è un esempio Dionigi di Alicarnasso, maestro di retorica a Roma tra il 30 e il 21 a.C.
Dionigi ha tra i suoi allievi uno dei giovani rampolli della potente gens Metilia, Rufo, il futuro proconsole d’Asia, al quale dedica per il compimento della maggiore età il Peri syntheseos onomaton (Sulla composizione delle parole). Dionigi conosce e utilizza il lessico tecnico musicale, ha letto Aristosseno e sa indirizzare l’allievo verso l’ascolto di un oratore con intensa partecipazione affettiva ed emotiva, che compara con l’esperienza dell’ascolto di un’esecuzione musicale (11, 8-9 e 13). La reazione indignata dell’ascoltatore attento e non musicista di professione di fronte alla nota falsa di una famosa citarista o all’intonazione imprecisa di un celebre auleta, o all’andar fuori tempo, si basa sulla capacità di provare sentimenti e di condividere quel modo di sentire (pathos) che, per natura, accomuna gli uomini; ma egli stesso non è altrettanto capace di riprodurre anche soltanto uno di quei suoni che gli strumentisti hanno imparato attraverso un lungo apprendistato tecnico, né di esprimere un giudizio sull’ascolto di un’esecuzione concertistica secondo le categorie degli esperti (technitai) nella scienza della musica. La conclusione cui si giunge è di sapore aristotelico: “anche la scienza (episteme) dei discorsi politici è una sorta di musica (mousike), che differisce da quella canora e strumentale (tes en ode kai organois) nella quantità (to poso), ma non nella qualità (to poio)”.
Quanto alle proprie emozioni come ascoltatore, Dionigi (Demostene, 22, 1, 1) è persino più esplicito e paragona l’ascolto di Isocrate a melodie strumentali o vocali che influenzavano il suo stato d’animo: “Quando leggo un qualsiasi discorso di Isocrate, o di quelli composti per i tribunali o per le assemblee, […], io divento ponderato nel mio modo di sentire e di comportarmi, e sento una profonda tranquillità dentro di me, come gli ascoltatori o delle composizioni (spondeia) per aulo, o dei canti in dorico o in enarmonico”.
A distanza di un paio di generazioni, l’autore del Sublime (40 ca.) specifica i dettagli dei procedimenti verbali che provocano nell’ascoltatore i medesimi effetti della musica, ricorrendo di nuovo a un confronto.
In un caso la figura retorica della perifrasi è confrontata con la parafonia (28, 1): “Come infatti nella musica, per mezzo dei cosiddetti suoni di accompagnamento (dia ton paraphonon kaloumenon) il suono principale risulta più dolce, così la perifrasi spesso consuona con il tema principale”. In un altro caso la retorica è addirittura la quinta fonte del sublime, dall’anonimo trattatista identificata con la synthesis onomaton, la compositio verborum (39, 3): “la composizione” – spiega – “è come l’innata armonia verbale dell’uomo (harmonian tina ousan logon anthropois emphyton), che cattura con l’orecchio anche l’anima, che mobilita gli aspetti più vari dei nomi, dei pensieri, dei fatti, della bellezza, della melodia […], che immette il pathos incalzante di chi sta parlando nell’anima di quanti, standogli vicini, lo ascoltano con sempre crescente partecipazione”.
Questa compositio verborum nell’Institutio oratoria (1, 10, 23) viene definita da Quintiliano “una composizione e suoni variabili secondo il tenore degli argomenti, nel discorso come nella musica” (compositio et sonus in oratione quoque varie pro rerum modo adhibetur sicut in musica).
Tra il sistema di comunicazione dell’oratoria e quello della musica sono dunque rilevabili soprattutto quattro punti di contatto: l’articolazione in “parti” del discorso e del componimento musicale (Aristotele); gli effetti della scelta, dell’ordine e della connessione di alcune unità (Sullo stile); i modi e gli effetti dell’esperienza comunicativa sugli ascoltatori (Dionigi) e infine il livello, ancora più tecnico, che concerne l’analogia tra il funzionamento delle figure retoriche nell’oratoria e i meccanismi della musica (Sul Sublime e Quintiliano).
Alla luce del percorso che ha fatto emergere tali confronti, vale la pena concludere con la seguente riflessione: se, come ha insegnato Warren Kirkendale, il rapporto comparativo tra la musica e la retorica costituisce una delle principali eredità del mondo antico, i due sistemi di comunicazione vanno però considerati (seguendo i suggerimenti di Alberto Gallo e di altri autorevoli studiosi) non come un insieme unitario, ma come due sistemi che si rapportano tra loro in modo alquanto differente a seconda dei diversi periodi storici. Se in epoche più recenti, infatti, la retorica è stata utilizzata per spiegare le articolazioni compositive di un determinato brano musicale, per l’antichità è stata soprattutto la retorica a spiegare i propri procedimenti attraverso quelli della musica, e non viceversa.