Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’idea che la musica rappresenti un “marchio nazionale” nasce alla fine dell’Ottocento. Con la grande guerra, la mobilitazione patriottica della musica vede un ulteriore passo in avanti. Con i movimenti totalitari come il fascismo e il nazismo, la musica, più che nazionale, diventa “razziale”. La sconfitta dei fascismi nel 1945 sembra far venire meno il rapporto tra musica e nazione, alla ricerca del carattere universalistico e in senso lato “pacifista” del “messaggio” musicale.
Luigi Nono
La nascita di Intolleranza 60
Lettera di Luigi Nono ad Angelo Maria Ripellino dell’11 gennaio 1960:
11 - 1 - 60 - Giudecca
caro Ripellino
Viva a te!!!!
benissimo.
anticipo la mia idea per il teatro, poiché avevo già pensato di parlarne con te a Roma.
non solo per chiederti consigli o informazioni, ma direttamente la tua collaborazione totale: cioè nel fissare il testo.
credo solo nella collaborazione continua e nel tempo, non prima o dopo, ma contemporanea alla scrittura musicale.
[...] tema fondamentale: l’intolleranza, nel passato e oggi. vero nazismo per tentar di violentare e impedire il procedere del pensiero umano in tutta la sua vastità (pensiero/azione/libertà/).
penso a 4 episodi diversi nel tempo nell’azione e nel tipo di intolleranza, da sviluppare simultaneamente dall’inizio alla fine passando da uno all’altro, senza successione nel tempo [...]
cioè 4 episodi di intolleranza, dove anche naturalmente malgrado tutto - torture ecc. - la vita e il procedere umano non viene stroncato - fisicamente sì - e il V episodio dove il contrario, o meglio il complemento: la vita e il procedere umano supera e elimina ogni violenza nazista. (nazismo come sintesi e simbolo e realtà di antiuomo.)
esempio: un episodio nel medioevo / uno nel rinascimento (Galilei-Brecht?) 32 / uno del razzismo (ebrei e i nazisti) / fino a Halleg e la tortura francese attuale33 / intolleranza verso il pensiero / idea / ideologia / razza / vita stessa: in differenti manifestazioni.
Luigi Nono
Intolleranza 60
Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.
Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era.
Voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uom un aiuto sia l’uomo
pensate a noi
con indulgenza.
in Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, a cura di G. Gronda e P. Fabbri, Milano, Mondadori, 1997
Il nesso tra la musica e l’identità nazionale si è sviluppato soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento. Con l’evolversi delle dottrine nazionalistiche e della politica di potenza degli imperi, la musica viene guardata come uno dei tratti distintivi della specificità, anche razziale, del popolo e della nazione.
Persino un apostolo dell’arte “pura” come Johannes Brahms (1883-1897) compone un Triumphlied per festeggiare la vittoria della Prussia sulla Francia (1871) e il suo Ein deutsches Requiem diventa il vero inno del Reich bismarckiano. Nella Vienna fin de siècle, i nazionalisti antisemiti vedono nella musica del cattolico Anton Bruckner (1824-1896) il vero spirito dell’anima ariana di contro alla musica “senza patria” dell’ebreo Gustav Mahler (1860-1911). È naturalmente Richard Wagner (1813-1883) che, nel mondo tedesco e austro-ungarico, si fa il rappresentante della “germanicità” in musica, anche se l’uso nazionalistico della sua opera durante il regno di Guglielmo II sarà abbastanza parco.
Anche in Francia e in Italia in quegli anni si cerca la “francesità” e l’“italianità” della musica: la “francesità” è incarnata da Camille Saint-Saëns, ed è la francesità “progressiva” di chi si sente repubblicano e universalista. Nel nostro Paese l’italianità era incarnata da Giuseppe Verdi, e poi dalla “giovane scuola” di Giacomo Puccini (1858-1924), Pietro Mascagni (1863-1945), Leoncavallo, dove italianità viene intesa come legame con la latinità, quindi caratterizzata da calore e spontaneità.
L’uso nazionalistico della musica è naturalmente molto forte in quelle “nazioni” che vogliono diventare Stato, e stiamo parlando dell’Ungheria, della Polonia, della Boemia e della Slovacchia. In questi Paesi lo sguardo è rivolto anche alla musica popolare, si contamina la tradizione classica con elementi folklorici. Antonin Dvorák (1841-1904), Leós Janácek (1854-1928), Zóltan Kodály, per certi aspetti persino Béla Bartók (1881-1945), incarnano la grandezza della “nazione” che attende di trovare una propria autonomia. Ma la musica è un segno distintivo anche per le nazioni europee da poco fattesi Stato e fino a quel momento non ancora portatrici di una vera “cultura nazionale”, come accade per Edvard Grieg in Norvegia e soprattutto per Jean Sibelius in Finlandia.
L’uso nazionalistico della musica vede una nuova tappa durante la prima guerra mondiale, dove si arriva a vietare l’esecuzione delle opere delle nazioni “nemiche”: in Francia è proibita l’esecuzione di Wagner, ma anche di Mozart e di Beethoven, in Germania e in Austria francesi e italiani sono banditi. Anche in Italia la musica “teutonica” e le operette austro-ungariche sono ostacolate e fischiate dal pubblico. Ne è vittima persino Arturo Toscanini, insospettabile in quanto a patriottismo: succede una bagarre quando, a Roma, nel 1916, il maestro esegue un concerto con musiche di Beethoven e di Wagner. Nel nostro Paese, è proprio il clima di propaganda patriottica e nazionalistica della prima guerra mondiale che porta i musicisti a cercare una “italianità” della musica e poi ad avvicinarsi al fascismo. Qui sono in particolare Gian Francesco Malipiero e Ildebrando Pizzetti a cercare le origini della italianità della musica in Palestrina e in Monteverdi e a istituire una loro continuità con Monteverdi, una “scuola italiana” come tale contrapposta a quella tedesca e francese. Tutto sommato, il fascismo non riuscirà mai a trasformare la musica in un campo aperto di propaganda. I tentativi di Pietro Mascagni (Nerone, 1935) ma anche di Alfredo Casella (Il deserto tentato, 1937), di Malipiero (Giulio Cesare, 1935) e di Pizzetti (Orseolo, 1935; Scipione l’Africano, 1937) di proporre opere che rappresentino l’italianità “fascista” della musica, non avranno molto successo. Del resto, in Italia i musicisti “atonali” non sono rigettati dal regime, la loro musica non è considerata “degenerata”, e tutti loro, Casella in particolare, sono convinti sostenitori del fascismo. Solo a partire dalla metà degli anni Trenta, e in particolare dopo il 1938, la musica atonale viene considerata razzialmente estranea alla stirpe italiana da compositori di regime come Antonio Lualdi e Giulio Cogni, che rivendicano il carattere razzialmente puro della musica di Verdi – e contribuiscono all’esilio di molti compositori ebrei alcuni dei quali, fino a quel momento si sono dichiarati ardenti fascisti, come Rino Alessi, Renzo Massarani e Mario Castelnuovo-Tedesco.
Il culmine della politica razziale in musica è inequivocabilmente toccato dal nazismo. Diversamente dal fascismo, non molto interessato a “ristrutturare” in senso totalitario il mondo musicale, il nazismo fin da subito organizza le istituzioni del mondo musicale in senso razziale. Scopo della cultura è quello di essere “popolare”, quindi legata alla razza ariana. La vera musica è dunque quella che rispetta questi canoni. Perciò, sono immediatamente banditi direttori d’orchestra e compositori ebrei. Tra questi ultimi, molti sono inoltre considerati musicisti “degenerati”. Per “musica degenerata” i nazisti intendono tutta quella produzione che non rispetta il canone tardoromantico: Arnold Schönberg (1874-1951) è allora subito indicato come il rappresentante di questa tendenza antiariana. Tuttavia il rapporto del nazismo con la musica è più complesso. Ai musicisti non ebrei, ma “atonali” viene lasciato un certo spazio, come per esempio a Paul Hindemith. La sua opera Mathis der Maler (1938) in un primo tempo viene presentata come esempio di teatro musicale della “nuova Germania” ariana ma poi cadrà in disgrazia e sarà censurata. Ovviamente, la selezione nazional-razziale riguarda anche il repertorio. Qui c’è una divergenza all’interno del nazismo: mentre per Hitler è Wagner il musicista ariano per eccellenza, per l’ideologo del nazismo, Arthur Rosenberg, che detiene un notevole potere anche nel mondo musicale, la musica volkisch è rappresentata da Beethoven, mentre in Wagner sarebbero già visibili quei segni di “decadenza” poi esplosi nell’avanguardia. In ogni caso, l’opera considerata maggiormente ariana di Wagner non è il Tristan und Isolde, giudicato eccessivamente decadente, bensì i Meistersinger. La ricerca di una musica volkisch investe anche il repertorio preottocentesco: sono bandite dalle esecuzioni pubbliche le opere dell’ebreo Mendelssohn-Bartholdy, mentre gli oratori di Händel con vicende tratte dall’Antico Testamento vengono riscritti nel libretto.
Un certo uso nazionalistico della musica si può vedere anche nell’URSS staliniana. Sotto Stalin, il buon bolscevico è prima di tutto un patriota, poiché la patria del socialismo è minacciata dai nemici della borghesia e del fascismo, e perciò va difesa. Anche qui atonalismo e serialismo sono mal sopportati quando non censurati perché non comprensibili dal “popolo”. Vengono perciò commissionate opere liriche “patriottiche” in cui si mostra l’eroismo del popolo russo nei secoli. La musica deve essere la più vicina possibile a quella russa dell’Ottocento, come ben si renderà conto Sergej Prokof’ev (1891-1953) durante la stesura delle opere Semyon Kotko (1940) e Guerra e pace (1946). Entrambi avrebbero dovuto essere degli affreschi delle virtù secolari del popolo russo, culminate nella rivoluzione e in Stalin, ma le due opere subiscono interventi, censure e tagli sia per il libretto sia soprattutto per lo stile considerato troppo “artificioso” e “cerebrale”, in una parola non sufficientemente “russo”.
Dopo la seconda guerra mondiale tramonta l’epoca delle “musiche nazionali”. La vittoria della democrazia sembra aver portato all’affermazione di un universalismo in cui non è più possibile parlare di musica legandola a un contesto nazionale. Tuttavia, la divisione del mondo a causa della guerra fredda a lungo fa sì che, nei paesi del blocco orientale, si continuino a produrre musiche popolari, cercando, come avviene nella DDR (la Germania dell’Est), una “germanicità” della musica, come ben si rendono conto Hanns Eisler (1898-1962) e Bertolt Brecht (1898-1956) le cui opere sono continuamente censurate dal regime nel quale comunque essi credono e hanno deciso di lavorare. Nei paesi occidentali, la musica della neovanguardia è “internazionale” per definizione, ed è ancora oggetto degli attacchi delle forze conservatrici, clericali e neofasciste, come accade per esempio alla prima dell’opera di Luigi Nono (1924-1990) Intolleranza 1960 (1961) accusata di essere “antitaliana”. Quanto ai temi, invece di esaltare le virtù eroiche e militari, come quasi sempre aveva fatto la produzione lirica, ora si pone uno sguardo critico, quando non distruttivo, sulle guerre intraprese soprattuto dal proprio Paese – Die Soldaten (1965) di Bernd Zimmermann, We Come to the River (1976) di Hans Werner Henze – e si denuncia il pericolo atomico, come in Die Atomtod (1965) di Giacomo Manzoni. A essere esaltate sono le “lotte nazionali” dei popoli dell’Asia e dell’Africa contro il colonialismo e contro “l’imperialismo americano”, come in Per Bastiana Tai-Yang Cheng (1967) e in molte parti di Al gran sole carico d’amore (1975), entrambe di Luigi Nono.