Musica e matematica
Che ogni accordo musicale si configuri come un rapporto numerico è consapevolezza che viene da lontano, addirittura dalla Repubblica e dal Timeo di Platone. Per Cassiodoro (vi sec.), «la musica è una disciplina in cui si parla di numeri». Agostino (iv sec.) afferma che la musica è una «emanazione sensibile di strutture matematiche». Non stupisce dunque che nelle arti liberali la musica sia inclusa, insieme ad aritmetica, geometria e astronomia, tra le scienze del quadrivio, che con le discipline letterarie del trivio hanno costituito lo standard educativo occidentale dal medioevo all’Ottocento. La concezione platonica si ritrova ancora in Nicola Cusano (1401-1464), per il quale Dio si sarebbe servito, per conferire solidità eterna all’universo, proprio della musica con le sue proporzioni aritmetiche e le sue armonie geometriche. Con Galileo, nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), l’analisi si fa più precisa: «Non è la ragion prossima ed immediata delle forme de gl’intervalli musici la lunghezza delle corde, non la tensione, non la grossezza, ma sì bene la proporzione de i numeri delle vibrazioni e percosse dell’onde dell’aria che vanno a ferire il timpano del nostro orecchio, il quale esso ancora sotto le medesime misure di tempi vien fatto tremare». Nella lettera al matematico tedesco Ch. Goldbach del 17 aprile 1712, Leibniz formula la celebre definizione: «Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi» (La musica è un esercizio occulto dell’aritmetica, nel quale la mente non si rende conto di calcolare).
■ La scala pitagorica. Origine e fondamento dell’armonia è il numero: è questo l’assunto del paradigma matematico che concepisce la musica come scienza del numero sonoro e il presupposto del fecondo intreccio tra musica e matematica, discipline che, pur appartenendo a sfere culturali distinte, hanno in comune vari aspetti formali: per esempio, un linguaggio specifico che tende a escludere chi non lo conosce e l’assoluta necessità di padroneggiare un certo tecnicismo, lungo e impegnativo nel suo apprendimento. Secondo la tradizione, la nascita della scienza musicale risalirebbe a Pitagora, che scoprì, percuotendo un’anfora piena d’acqua a cui via via ne andava aggiungendo dell’altra, che si generava la stessa nota ma più acuta. Una variante dell’aneddoto è tramandata da Giamblico di Calcide (iii sec. d.C.): l’intuizione di Pitagora sarebbe merito di un fabbro crotonese che martellava il ferro con mazze di diversa grandezza. Tra i rumori così emessi, alcuni risultavano più gradevoli di altri. Pitagora li chiamò suoni consonanti e scoprì che erano dovuti a martelli i cui pesi stavano in precisi rapporti. Al di là dell’aneddoto, i pitagorici notarono appunto che, facendo vibrare due corde sottoposte alla stessa tensione ma di diversa lunghezza (rispettivamente 1/2, 2/3 e 3/4 della prima), si ottenevano suoni che all’orecchio risultavano particolarmente piacevoli (consonanti, appunto). È la struttura fisiologica del nostro udito che ci fa percepire le frequenze dei suoni in modo moltiplicativo anziché additivo: insomma, con l’orecchio “contiamo” in progressione geometrica, mentre con le dita, aggiungendo unità a unità, contiamo secondo una progressione aritmetica.
Come oggi si sa, la frequenza (la nota) fondamentale del suono emesso da una corda tesa posta in vibrazione è direttamente proporzionale alla radice quadrata della tensione cui la corda è sottoposta; è invece inversamente proporzionale alla sua lunghezza, alla radice quadrata della sua densità e alla sua sezione. Per esempio, la nota emessa da una corda tesa da un peso quadruplo ha frequenza doppia: si dirà che dista un intervallo di ottava dalla precedente e verrà percepita come “uguale”, ma più acuta. La stessa osservazione può essere ripetuta in termini di lunghezza: accorciando una corda e in particolare premendola a metà della sua lunghezza e poi pizzicando una delle sue metà, si otterrà una nota a un’ottava superiore.
Basandosi su questi rapporti, iterando il procedimento e riportando la frequenza entro la prima ottava (l’intervallo tra una nota e quella con frequenza doppia), i pitagorici costruirono la scala delle sette note musicali indicate mediante lettere alfabetiche convenzionali (A, B, C, D, E, F, G), come avviene nei paesi germanici e anglosassoni, o mediante le sillabe DO, RE, MI, FA, SOL, LA, SI, sistema notazionale messo a punto da Guido d’Arezzo (991-1033) nella forma UT, RE, MI, FA, SOL, LA, dagli incipit dei versi di un inno medievale a san Giovanni. La scala viene costruita dalla frequenza fondamentale di una corda assunta come unitaria e moltiplicando o dividendo per 3/2. Procedendo così, per quinte ascendenti o discendenti, moltiplicando per 3/2 o 2/3, si ottengono i rapporti di quella che è chiamata scala pitagorica (benché risalga in realtà a Eratostene, nel iii secolo a.C.)
La teoria musicale di impianto matematico pitagorico è fondata sulla rappresentazione del suono musicale attraverso i rapporti di numeri interi semplici: il quaternario (ossia i numeri da 1 a 4). A partire da Pitagora, ogni trattato matematico nella Grecia antica propose immancabilmente un capitolo sulla musica. La scala pitagorica presenta però alcuni problemi. Fra due note consecutive che distano di un tono, cioè DO-RE, RE-MI, FA-SOL, SOL-LA, LA-SI, il rapporto è 9/8; fra due note consecutive che distano di un semitono – cioè MI-FA e SI-DO – il rapporto è invece 256/243. In altre parole, salendo di un tono e scendendo di due semitoni, non si torna al punto di partenza in quanto il prodotto tra 9/8 e il quadrato di 256/243 vale circa 1,0136 che (sia pure di poco) è diverso da 1. Questo implica che la scala pitagorica presenta una spirale delle quinte, infinita nelle due direzioni.
■ La musica delle sfere. Alla tradizione pitagorica viene fatta risalire anche la suggestiva ipotesi dell’armonia delle sfere, teoria in cui simbolismo del numero e teoria matematica delle proporzioni armoniche risultano intimamente legati all’indagine sull’origine e sull’ordine dell’universo. Secondo tale teoria, gli astri con il loro moto attraverso l’etere producono suoni non udibili dall’orecchio umano a causa della sua costitutiva imperfezione. La teoria è descritta esemplarmente da Platone nell’ultimo libro della Repubblica e nel Timeo; secondo quest’ultimo dialogo, il divino demiurgo compose l’anima del mondo secondo i principi dell’armonia musicale, dividendo cioè l’essenza delle cose in sette parti originanti due progressioni (aritmetica e geometrica) a ragione 2 e 3. Di origine pitagorica sono anche le tradizionali associazioni delle sfere planetarie (all’epoca: Luna, Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno) alle corde dell’antica lira eptacorde, e dei sette pianeti ai sette suoni formanti due tetracordi che si uniscono tra loro e coincidono in una nota comune, la mése, in origine corda centrale della lira sulla quale i musici regolavano l’accordo del loro strumento. Il matematico alessandrino Tolomeo (sec. ii ca d.C.) perfezionò e articolò negli Harmonica e nel Tetrabiblos questa analogia, ma già Cicerone (sec. i a.C.) nel Somnium Scipionis (vi libro del De Republica) aveva descritto la diversa frequenza del suono emesso dalle sfere celesti: quelle più esterne emettono suoni più acuti e quelle più interne suoni più gravi. Tramite Macrobio (secc. iv-v d.C.) e Calcidio (sec. iv d.C.) la fortuna della tradizione matematico-musicale platonica e pitagorica fu assicurata anche nell’alto medioevo, quando l’antica musica delle sfere venne gradualmente trasferita come «musica divina» dai pianeti (cielo reale) al cielo cristiano per rappresentare il rapporto armonico tra Dio e le sue creature. La dottrina della musica delle sfere circolò in Occidente come luogo comune di tutta la trattatistica musicale anteriore al sec. xviii. Essa conobbe anche riformulazioni moderne ad opera di Keplero, che nel terzo libro degli Harmonices mundi libri quinque (1619) dedusse le armonie musicali dai poligoni regolari inscritti nel cerchio, e le applicò ai moti delle voci (musica instrumentalis), ai moti della natura (musica astrologica) e ai moti dei pianeti (musica mundana) contaminando geometria, musica e astronomia, e rivisitazioni contemporanee ad opera di un compositore come Paul Hindemith (1895-1963), nell’opera Die Harmonie der Welt (L’armonia del mondo, 1957).
■ La scala naturale (o zarliniana). Le consonanze pitagoriche rimasero a fondamento della composizione musicale fino ai secc. xii-xiii, quando l’introduzione di scale sonore non solo successive ma anche simultanee comportò l’impiego di intervalli (terze e seste) non assimilabili alla teoria pitagorica compendiata da Boezio (secc. v-vi d.C.). Nella seconda metà del sec. xv, il francescano Gioseffo Zarlino (1517-1590), veneziano, teorico musicale e compositore, osò sfidare l’autorità di Pitagora e Boezio per adeguare la scienza del numero sonoro alla pratica musicale moderna. Nelle sue Istituzioni armoniche (1558) introdusse la cosiddetta scala naturale (o zarliniana). Il sistema pitagorico era basato sui numeri naturali fino a 4 e sulle loro proporzioni che davano luogo a un’ottava (4/2 = 2) scomposta in una quinta (3/2) e una quarta (4/3) e all’accordo DO-SOL-DO.
L’innovazione introdotta da Zarlino prendeva invece in considerazione anche i numeri 5 e 6 (non accettati dai pitagorici per le loro credenze numerologiche mistiche o magiche) e i loro rapporti che davano luogo a una quinta (6/4 = 3/2) scomposta in una terza maggiore (5/4) e in una terza minore (6/5) e all’accordo DO-MI-SOL. Nella scala zarliniana
i rapporti sono più semplici: alcuni sono immutati rispetto a quelli pitagorici, altri ne differiscono per una quantità che l’orecchio umano non percepisce. I problemi però rimangono, anzi per certi versi aumentano. Mentre la scala pitagorica era costruita a partire da un tono (9/8) e da un semitono (256/243), quella zarliniana prevede due diversi toni (grande e piccolo, 9/8 e 10/9) e un semitono (16/15). Se nella scala pitagorica il semitono non corrisponde perfettamente alla metà di un tono, in quella zarliniana il semitono non corrisponde perfettamente alla metà di nessuno dei due toni. Si continua a dover fronteggiare la situazione per cui due semitoni non fanno un tono e, a fine ciclo, le due note non sono le stesse.
Cartesio nel Compendium musicae (redatto nel 1618, edito nel 1650) semplificò il senario zarliniano indicando in 2, 3 e 5 (la triade armonica) i numeri sonori, corrispondenti alle consonanze d’ottava, quinta e terza maggiore.
■ Il temperamento. Le soluzioni a questi problemi passarono attraverso il cosiddetto temperamento che consiste nell’accordare gli strumenti leggermente fuori tono, così da rendere i vari intervalli più bilanciati tra loro. Agli inizi del Cinquecento venne proposto il temperamento mesotonico, basato su un unico intervallo di tono pari a √(5/2). Vincenzo Galilei (1520-1591), padre di Galileo, discepolo di Zarlino e precursore della musica barocca, propose di modificare la scala naturale adottando un semitono costante pari a 18/17. La sua soluzione fu contestata ai primi del Seicento dal matematico S. Stevin, che propose il cosiddetto temperamento equabile. Si comprese in tal modo che non bastavano i numeri razionali e che ostinarsi a usare le frazioni portava a un vicolo cieco. Richiedere infatti che i semitoni siano uguali equivale a considerare l’uguaglianza per cui il rapporto tra due successivi DO sia uguale a k12; ma, poiché i due DO distano fra loro un’ottava, si ha l’equazione k12 = 2. Si ottiene così un’espressione irrazionale per il semitono, di cui le precedenti espressioni razionali usate nelle scale pitagorica e zarliniana costituiscono delle approssimazioni per difetto e per eccesso. Nel 1691 il musicista tedesco Andreas Werckmeister (1645-1706) introdusse il cosiddetto buon temperamento, un temperamento composto da 5 quinte mesotoniche e 7 quinte pitagoriche con cui riuscì a chiudere quasi perfettamente il ciclo delle quinte. La sua scala segna un punto di svolta nella storia della musica – viene descritta anche nel film Le armonie di Werckmeister (2000) del regista e sceneggiatore ungherese Béla Tarr – e fu particolarmente apprezzata da Johann Sebastian Bach (1685-1750) che la utilizzò nel suo Clavicembalo ben temperato. La profonda ispirazione matematica della musica di Bach è universalmente riconosciuta. Amava i numeri e ad alcuni di essi attribuiva particolari significati simbolici, tanto che è stato detto che molte pagine della sua musica si configurano come segreti esercizi di aritmetica.
La scoperta degli irrazionali e la costruzione di scale sempre più adeguate da una parte rappresentano un’innovazione tecnica ma dall’altra inducono a un ripensamento delle stesse opere musicali: il temperamento equabile, per esempio, portò con sé il concetto di tonalità, che pone con forza l’accento sugli accordi, cioè i rapporti tra le note eseguite contemporaneamente.
■ Il paradigma fisico-matematico: la musica come scienza del corpo sonoro. Se fino all’età moderna la musica theorica aveva spiegato l’armonia attraverso un paradigma matematico indifferente alla natura fisica del suono, la scienza musicale del sec. xvii trovò invece l’armonia nell’interiorità del corpo sonoro. Già nella filosofia naturale aristotelica il suono era una qualità sensibile oggetto dell’udito, e la musica era una disciplina che applicava le spiegazioni naturali allo studio dell’armonia. Nella seconda metà del Cinquecento, G.B. Benedetti aveva applicato alle vibrazioni prodotte nell’aria dalla fonte sonora la concezione aristotelica del tempo come misura del movimento, offrendo una spiegazione fisica della consonanza. L’attacco agli «universali aritmetici» in musica era poi continuato con Vincenzo Galilei. Questi oppose alla perfezione del numero l’«esperienza delle cose maestra», che gli mostrò la dipendenza del numero sonoro dalle condizioni materiali del corpo sonoro: tensione della corda, sezione, massa del materiale, e così via. Il primato del movimento sul numero fu la premessa della scienza musicale meccanicistica del Seicento. Nell’Harmonie universelle (1636-37), M. Mersenne tradusse il concetto agostiniano di armonia universale nel linguaggio della meccanica archimedea, formulando la prima legge fisico-matematica della corda vibrante. Nei Discorsi (1638) Galileo Galilei rifondò la scienza dell’armonia, assimilando le oscillazioni periodiche della corda alla legge del semplice moto armonico definita per il pendolo, e l’antica scienza del numero sonoro diventò un capitolo della meccanica dei corpi elastici. Lo studio delle leggi fisico-matematiche dell’armonia inaugurato da Mersenne e Galileo portò tra la fine del sec. xvii e l’inizio del xviii alla scoperta degli armonici superiori attraverso l’osservazione dei moti simultanei di vibrazione della corda. L’enigma pitagorico dei numeri sonori trovava un fondamento nelle cause fisiche dell’armonia generata dal corpo sonoro. Ignara degli sviluppi della scienza musicale moderna, la teoria armonica del Seicento aveva cercato di razionalizzare le strutture accordali della musica barocca stimolate dalla pratica del basso continuo, investigandone l’origine da un accordo fondamentale. Queste due autonome tradizioni di ricerca dell’origine dell’armonia, naturale e musicale, si incontrarono per la prima volta nella prima metà del Settecento negli scritti di Jean-Philippe Rameau (1683-1764). Integrando la nozione armonica di «basso fondamentale» con quella fisica di «suono fondamentale», Rameau riformò la teoria dell’armonia con i risultati e i metodi d’indagine della filosofia sperimentale nata con la rivoluzione scientifica del Seicento, imponendo la musica all’ordine del giorno della cultura scientifica europea. Nel suo Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels (Trattato di armonia ricondotta ai suoi principi naturali) scrive: «La musica è una scienza che deve avere delle regole certe; queste devono essere estratte da un principio evidente e questo principio non può essere conosciuto senza l’aiuto della matematica. Devo ammettere che, nonostante tutta l’esperienza che ho potuto acquisire nella musica, per averla praticata durante un periodo abbastanza lungo, è tuttavia solo con l’aiuto della matematica che le mie idee si sono sbrogliate e la luce è succeduta ad una certa oscurità di cui non mi ero mai accorto prima».
■ La propagazione del suono. Nel corso del xviii secolo, i matematici compresero meglio la natura del suono e riuscirono a descriverne analiticamente la propagazione. Per generare un suono occorre anzitutto un corpo elastico vibrante (una corda, per esempio) che trasmetta all’aria questa sua vibrazione in forma di compressioni e rarefazioni alternate di strati di molecole successivi. Nel 1747 J.-B. Le Rond d’Alembert trovò per primo l’equazione che descrive la propagazione di una perturbazione generica di una corda tesa tra due punti e posta in vibrazione. L’equazione di d’Alembert – un’equazione differenziale alle derivate parziali del secondo ordine, lineare e omogenea – ammette come soluzione generale la somma di due onde trasversali che si propagano in direzioni opposte sulla corda e che vengono chiamate onda progressiva e regressiva. Il suo contributo fu precisato, anche attraverso una polemica che coinvolge i tre matematici qui considerati, da Eulero che pose le basi scientifiche del principio di sovrapposizione – una qualsiasi perturbazione può essere espressa come combinazione lineare di onde piane – e da Daniel Bernoulli (1700-1782), figlio di Jacob Bernoulli, che espresse il suono come somma infinita di oscillazioni armoniche. La soluzione generale dell’equazione dell’onda piana è pertanto data da una serie trigonometrica e ciascun suono emesso da una corda vibrante è la somma dei suoi infiniti armonici. Si riesce così a dare una giustificazione, non più basata esclusivamente sulla pratica degli accordatori, ai battimenti e al fenomeno dell’interferenza alla base del concetto di “intonazione giusta” degli intervalli musicali. Bernoulli riteneva di aver descritto, mediante una serie trigonometrica, un particolare tipo di suoni (quelli prodotti da corde vibranti), ma un altro grande matematico francese, J.-B.-J. Fourier, pervenne alla conclusione che la soluzione di Bernoulli era valida per ogni suono: ogni funzione periodica si può esprimere tramite una serie trigonometrica. Scrisse inoltre, in realtà a proposito di un’altra fondamentale equazione differenziale alle derivate parziali, che «se le sue soluzioni si potessero udire, ci darebbero la sensazione di un’armonia musicale».
I contribuiti di Fourier si situano all’inizio dell’Ottocento. Nel corso del secolo, in una direzione divergente rispetto ai principi ispiratori del matematico francese, la matematica scoprirà il gusto di una spiccata astrazione e di un formalismo che sembrano allontanarla dal contatto con la realtà. L’Ottocento è il secolo delle geometrie non euclidee, dei quaternioni, delle prime strutture algebriche, della nascita dell’analisi funzionale. La tendenza verso una matematica tenuta solo al rispetto del principio di non-contraddizione e di vincoli che essa stessa sceglie arbitrariamente di darsi, si accentua nel corso del Novecento, e i riflessi di questa svolta non tardano a farsi sentire anche nella storia della musica.
■ Dalla dodecafonia alla musica stocastica. Come reazione alla tradizione romantica europea dell’Ottocento, i primi decenni del Novecento registrano in ambito musicale novità stilistiche che scardinano il principio di consonanza/dissonanza degli accordi musicali. Arnold Schönberg (1874-1951), insieme con i suoi allievi Alban Berg (1885-1935) e Anton Webern (1883-1945), abolisce ogni norma tonale inaugurando l’era dell’atonalità e della dodecafonia, un metodo compositivo che utilizza i dodici suoni della scala cromatica liberi da reciproche e gerarchiche relazioni armoniche e riorganizzati, anche con il ricorso a tecniche combinatorie, secondo il principio della serie (donde i termini serialità e musica seriale). il principio costruttivo della musica seriale si basa su una successione rigorosamente preordinata di suoni, detta appunto serie. Fermi restando i rapporti di intervallo propri della serie, la disposizione dei suoni può essere mutata mediante procedimenti di inversione, retrogradazione e retrogradazione dell’inversione. Sono possibili inoltre trasposizioni della serie e suoi derivati su tutti i dodici gradi della scala cromatica. Il primo uso sistematico della serie avvenne negli anni Venti del Novecento nell’ambito della dodecafonia, anche se si hanno esempi (come in Igor Stravinskij, 1843-1902, e in Gian Francesco Malipiero, 1882-1973) di organizzazione seriale anche in musiche diatoniche e tonali. Nelle scuole di avanguardia postweberniane (primi anni Cinquanta), il principio della serializzazione viene esteso a tutti i parametri sonori, quali: timbro, dinamica, modi di attacco, intensità, durate ecc. Olivier Messiaen (1908-1992) prova ad applicare le stesse tecniche sia alle altezze sia ad altri elementi della composizione musicale, un percorso di ricerca che condurrà al «serialismo integrale» di Pierre Boulez (1925-2016). L’interesse di Messiaen per la matematica risaliva all’infanzia: «Quando ero bambino amavo già i numeri primi, questi numeri che (solo per il fatto che non sono divisibili) emettono una forza occulta» (Claude Samuel, Permanences d'Olivier Messiaen. Dialogues et commentaires, 1992). Tale interesse è confermato dai titoli di alcune sue composizioni, dove compaiono concetti matematici quali permutazioni, simmetrie, distribuzioni di numeri, numeri primi, periodicità. Alcuni dei maggiori compositori del Novecento non sono affatto privi di una specifica cultura matematica: prima di entrare al Conservatorio di Parigi, Boulez aveva intrapreso studi di matematica a Lione; lannis Xenakis (1922-2001), compositore e teorico musicale che aveva studiato sotto la guida di Messiaen, si era laureato in ingegneria e aveva collaborato con Le Corbusier a importanti progetti architettonici e urbanistici come la creazione del Padiglione Philips all’esposizione del 1958 a Bruxelles. Con la musica stocastica basata sulla teoria delle catene di Markov, Xenakis introduce nel 1955 la probabilità nella musica: la composizione musicale è elaborata mediante processi formali definiti in termini probabilistici. Tali processi, sebbene non consentano la precisa determinazione dei singoli eventi, permettono il controllo globale del sistema e del suo comportamento generale; in questo la musica stocastica si distingue dalla musica aleatoria in quanto, pur basandosi su principi di casualità, è guidata da rigorose regole formali che definiscono in maniera esplicita il modello della composizione. La musica di Xenakis appartiene già a un periodo segnato dall’uso del computer e dalla sintesi elettronica dei suoni (anche se invero la ricerca di formule per produrre musica è molto più antica): è del 1957 la prima composizione che si avvale delle nuove tecnologie, Illiac suite for string quartet, realizzata dal compositore Lejaren Hiller (1924-1994) e dal matematico Leonard Issacson dell’università dell’lllinois. È l’ultima tappa di un percorso che dall’antica Grecia ha visto procedere musica e matematica su sentieri paralleli ma molto vicini tra loro, così vicini da poter gettare molte “passerelle” tra l’una e l’altra.