Morte e successione costantiniana
Quando, il 1° marzo 317, Costantino proclamò Cesari i due figli e il nipote, quanti avevano vissuto i turbolenti decenni della tetrarchia dovettero dare per scontato che il suo intento era quello di restaurarla, e per due generazioni successive anziché una sola. Il programma originario di Diocleziano, nel 285, era stato quello di dividere i poteri imperiali tra due Augusti di pari rango, dotati di ben definite sfere di competenza. Esso era stato modificato nel 293, da un lato per rendere sicura la successione, combinando tra loro i due precedenti sistemi in uso nell’Impero, la discendenza e la competenza; e d’altro canto per garantire piena copertura militare all’immenso territorio imperiale, aggiungendo due Cesari, uno per ciascuno degli imperatori. Al momento della morte dell’Augusto o del suo ritiro – questa seconda eventualità difficilmente sarà stata contemplata quando il sistema era stato inizialmente varato – il Cesare sarebbe stato promosso ad Augusto e un nuovo Cesare sarebbe stato nominato al suo posto. Ciascuna coppia Augusto-Cesare di questo collegio tetrarchico era ufficialmente designata ‘giovia’ o ‘erculea’ (Iovius o Herculius), il primo titolo pertenendo all’Oriente, il secondo all’Occidente, in modo da conferire un senso di unità alle singole coppie. Tale unità era rafforzata dall’adozione di un gentilicium dinastico comune a tutti i membri del collegio (Valerio) e, in via subordinata, di altri nomi di gentes (ad esempio Aurelio, Flavio, Galerio): il sistema imperiale era essenzialmente una monarchia ereditaria, e si era sempre basato su queste pratiche onomastiche al fine di denotare ed enfatizzare l’asse ereditario, come tra poco vedremo. All’interno di questo collegio, ciascuno dei due Cesari era imparentato con il suo Augusto per via matrimoniale, nel tentativo di prevenire usurpazioni dal basso. I primi Augusti e Cesari erano stati scelti a motivo delle loro specifiche attitudini all’ufficio; ma per la terza generazione Diocleziano permise che un’ereditarietà di tipo genetico interrompesse il legame mitico, artificiale e operante solo per via matrimoniale che aveva segnato il passaggio tra le prime due, ammettendo i figli di un Cesare e di un Augusto, Costantino e Massenzio, quale successiva coppia di Cesari. Com’è noto, il sistema andò a rotoli nel 305 a seguito della malattia di Diocleziano e dell’usurpazione di Galerio, il quale accarezzava un piano di successione basato su non molto più che clientelismo e nepotismo, e rifiutò i poteri imperiali a Costantino e Massenzio. È senza dubbio questa crisi che Costantino aveva presente all’atto di proclamare tre Cesari nel 317, chiaramente designati, lo vedremo, come due ‘eredi’ e una ‘riserva’1.
Alla luce delle tradizioni romane antiche il sistema tetrarchico escogitato da Diocleziano può apparire stravagante e sovversivo; in realtà esso attingeva in ogni suo aspetto a precedenti che risalivano direttamente a Ottaviano Augusto. Sempre, sin dai suoi inizi, l’Impero romano era stato retto da una monarchia ereditaria, sicché gli imperatori privi di figli naturali legittimi usavano adottare coloro che, per qualsiasi ragione, sembravano loro i più adatti alla successione. Benché a questo riguardo si tenda immediatamente a pensare ai cosiddetti imperatori adottivi, da Nerva a Marco Aurelio, nondimeno Giulio Cesare, Ottaviano Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Galba ed Elagabalo, tutti costoro in mancanza di eredi diretti ricorsero all’adozione2.
Ottaviano Augusto non aveva mai preso in considerazione altra possibilità che un sistema monocratico, e i suoi immediati successori si attennero a questo modo di vedere. Ma con l’espandersi dell’Impero e l’intensificarsi delle minacce contro di esso, in particolare da Nord e da Est, avere più di un Augusto in grado di comandare gli eserciti divenne semplicemente un fatto di buon senso. Ad ogni modo, la prima occasione per due Augusti di governare insieme pacificamente fu fornita non tanto da emergenze militari alle frontiere, quanto da vincoli di lealtà familiare. Antonino Pio aveva adottato Marco Aurelio e Lucio Vero, il primo come erede designato e il secondo, sicuramente, come ‘riserva’ nel caso fosse successo qualcosa all’altro; così, quando Antonino Pio morì, Marco si associò Lucio Vero nel principato, e per quasi otto anni i due ressero insieme l’Impero. Più decisivo, comunque, fu il fatto che per cinque di questi otto anni Vero si trovasse alla frontiera orientale in guerra contro i parti, così che Marco poté restare a Roma e governare di persona lo Stato. A quanti vennero dopo, questo precedente chiarì quanto utile potesse essere avere più di un Augusto.
Se il regno congiunto di Marco Aurelio e Lucio Vero è ben familiare, ciò che non è altrettanto noto è che questa formula di governo non fu inusuale negli anni successivi alla morte del secondo. Sono note dai manuali date come queste: Marco Aurelio, 161-180; Commodo, 180-192; Settimio Severo, 193-211; Caracalla, 211-217; Geta, 211; perfino Kienast le riproduce in testa alle pagine pari della sua Kaisertabelle3. Ma la verità è che Commodo fu promosso Augusto nell’estate del 177; le sue date dovrebbero essere perciò 177-192. Analogamente, Settimio Severo si associò nel principato Caracalla intorno al 197, e Geta nel 209 o 210. Perciò le date di Caracalla sono 197-217 e quelle di Geta 209/210-211. Questa fu la prima volta che tre Augusti governarono insieme pacificamente.
Molte altre volte, in seguito, due Augusti governarono congiuntamente, sebbene in alcuni casi per brevissimo tempo: Macrino e il figlio di nove anni, Massimo, nel 218; i primi due Gordiani nel 238; Balbino e Pupieno in quello stesso anno; Filippo l’Arabo e il figlio decenne, Filippo, per oltre due anni tra il 247 e il 249; Decio e il figlio adulto Erennio Etrusco nel 251; Treboniano Gallo con Ostiliano, secondo figlio di Decio, per forse un mese nel 251 e poi con il proprio figlio adulto, Volusiano, per due anni tra il 251 e il 253; Valeriano e il figlio adulto, Gallieno, per sette anni tra il 253 e il 260; Caro col figlio adulto Carino nel 283.
Chi tornò al precedente di Marco Aurelio e Lucio Vero fu Valeriano, lasciando Gallieno a capo dell’Occidente per dirigersi a Est a combattere contro i persiani. Una situazione simile si verificò nel 283 quando Caro elevò ad Augusto il primogenito Carino e lo lasciò in Occidente mentre lui stesso portava guerra ai Persiani. In conclusione, nel 285 non era un fatto senza precedenti che ci fossero due Augusti associati al potere.
Più interessante è l’evoluzione del titolo di Cesare nel corso dello stesso periodo. A cominciare da Claudio e fino alla tetrarchia, il termine fece parte della titolatura imperiale utilizzata da ogni Augusto (con l’eccezione di Vitellio), dapprima in penultima posizione davanti ad Augustus, in seguito – a partire da Vespasiano – in seconda posizione dopo Imperator4. Questo uso rifletteva nomi e titoli di Ottaviano, Imperator Caesar Divi filius Augustus; di Tiberio, Imp. Ti. Iulius Caesar Augustus, di Caligola, C. Caesar Augustus, per i quali, tuttavia, Caesar era un nome e non un titolo.
Un uso abbastanza diverso, d’altra parte, si sviluppò a seguito della decisione di Ottaviano di cambiare i nomi dei suoi nipoti, all’atto di adottarli nel 17 a.C., in C. e L. Giulio Cesare. Questo cambiamento di nome, procedura perfettamente normale per un’adozione romana (il nome legale di Augusto era C. Iulius Caesar Octavianus), e in particolare la concessione ad essi del titolo di principes iuventutis (si veda oltre), li designava come suoi eredi. Coloro che vennero adottati in seguito, o nacquero all’interno della famiglia reale come suoi continuatori, portarono lo stesso nome: Ti. Iulius Caesar (adottato da Augusto nel 4 d.C.), Agrippa Iulius Caesar (da Augusto, 4 d.C.), Germanicus Iulius Caesar (da Tiberio, 4 d.C.), Drusus Iulius Caesar (figlio naturale di Tiberio, 4 d.C.), C. Iulius Caesar Germanicus (figlio naturale di Germanico, 12 d.C.) e Ti. Iulius Caesar Nero (adottato da Caligola, 37 d.C.). Claudio non era membro della gens Iulia, e perciò non poté far uso del gentilizio per i suoi figli, ma comprese l’importanza dei nomi per la politica dinastica e perciò mantenne il Caesar sia per i figli naturali sia per gli eredi adottivi: Ti. Claudius Caesar Britannicus (43 d.C.) e Nero Claudius Caesar Drusus Germanicus (50 d.C.).
Il precedente di Claudio fu ufficializzato da Vespasiano quando, nel 69, proclamò suoi successori nell’Impero i due figli, e ne cambiò i nomi da T. Flavius Vespasianus e T. Flavius Domitianus in T. Caesar Vespasianus e Caesar Domitianus. Entrambi mantennero questi nomi quando divennero Augusti, aggiungendo i titoli Imperator e Augustus rispettivamente all’inizio e alla fine dei loro nomi e senza raddoppiare il Caesar. In tal modo, il paradigma era stabilito. Quando Nerva adottò Traiano, ne cambiò il nome da M. Ulpius Traianus in Caesar Nerva Traianus e, come già Domiziano, Traiano mantenne questo nome una volta diventato Augusto. Nel 136 Adriano adottò L. Ceionio Commodo e lo rinominò L. Aelius Caesar. Dopo la prematura scomparsa di Elio, nel 138 adottò T. Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino e gli diede nome T. Aelius Caesar Hadrianus Antoninus. Diventato Augusto, però, quest’ultimo lasciò cadere il Caesar: fu il passo successivo nell’evoluzione del nome a titolo. Marco Aurelio e Lucio Vero furono adottati da Antonino contestualmente all’adozione di quest’ultimo da parte di Adriano, e anche i loro nomi cambiarono, sebbene il solo Marco, in quanto erede designato, ricevette il nome di Caesar5. Nel 166 egli si limitò ad aggiungere il nome Caesar alla fine di quello del figlio allorché questi fu nominato erede al trono imperiale: è la prima volta che il nome appare trattato esclusivamente come un titolo.
Settimio Severo rinominò il figlio maggiore, L. Settimio Bassiano, come M. Aurelius Antoninus Caesar, ma quando proclamò proprio successore il figlio minore Geta utilizzò un nuovo titolo, nobilissimus Caesar. È questa la prima volta in cui possiamo affermare senza riserve che il nome Caesar era diventato a tutti gli effetti un titolo imperiale, designante l’erede al trono. Tutti gli imperatori successivi usarono questo titolo per indicare i loro successori: Diadumeniano, Severo Alessandro, Massimo, Gordiano III, Filippo II, Decio II, Ostiliano, Volusiano, Valeriano II, Salonino, Carino e Numeriano furono tutti nobilissimi Caesares.
Al nome Caesar e più tardi al titolo di nobilissimus Caesar si aggiunse il titolo di princeps iuventutis. Esso derivava dall’uso del termine da parte di Ottaviano per designare Gaio e Lucio quali suoi eredi, e fu conferito da quasi tutti gli Augusti successivi ai rispettivi Cesari quale ulteriore strumento per indicare in essi i propri successori: Germanico (forse), Gemello, Nerone, Tito, Domiziano, Marco Aurelio, Commodo, Caracalla (che mantenne il titolo per il resto della sua vita), Geta, Diadumeniano, Severo Alessandro, Massimo, Gordiano III, Filippo II, Decio II, Ostiliano, Volusiano, Valeriano II, Salonino, Carino, Numeriano furono tutti principes iuventutis. Gallieno, che in quel momento era quarantenne, sembra esser stato princeps iuventutis quando fu promosso ad Augusto: ma era ancora il successore di Valeriano, e la definizione di iuvenis si estendeva fino ai quarantacinque anni.
Così tutto ciò che occorreva a Diocleziano per creare la tetrarchia era già esistito in un momento o nell’altro dei trecento anni precedenti: Augusti e Cesari plurimi, Cesari come successori designati, Augusti responsabili di zone specifiche dell’Impero, successione per via ereditaria e adottiva.
Subito dopo il suo avvento al potere, il 20 novembre 284, Diocle cambiò il proprio nome in C. Aurelius Valerius Diocletianus e l’anno successivo, allorché nominò Caesar Massimiano, gli impose il nome di M. Aurelius Valerius Maximianus, creando così un simulacro di famiglia benché non ci fossero, tra i due, legami di sangue o matrimoniali. Il 1° marzo 293 furono nominati due nobilissimi Caesares, Costanzo e Galerio. Costanzo si sposò con Teodora, la figlia di Massimiano, che era il suo Augusto, e divenne Flavius Valerius Constantius, mentre Galerio si sposò con Galeria Valeria, figlia di Diocleziano, suo Augusto, e divenne C. Galerius Valerius Maximianus6. Naturalmente anche la figlia di Diocleziano ebbe il nome cambiato, per rispecchiare quello del marito e il suo nuovo status, benché ciò non avvenisse, probabilmente, finché non fu proclamata Augusta nel 307. Entrambi i Cesari furono anche proclamati principes iuventutis. Tutti e quattro gli imperatori condividevano ora il gentilicium Valerio, ma, per creare una connessione ulteriore – più di ordine mitico – tra di loro e tra le singole coppie Augusto-Cesare, gli imperatori orientali, inclusi i successivi Massimino Daia e i due Licinii, furono conosciuti come Iovii, mentre quelli occidentali, inclusi Severo, Costantino e forse Massenzio, come Herculii. In previsione della terza generazione di imperatori, Costantino e Massenzio vennero preparati a subentrare come futuri Cesari.
Il sistema era concepito bene, e avrebbe funzionato se Galerio non avesse approfittato della malattia di Diocleziano nel 303-304 per costringere quest’ultimo e Massimiano al ritiro, se non avesse promosso ad Augusti sé stesso e Costanzo, e se non avesse proclamato nobilissimi Caesares, al posto di Costantino e Massenzio, il suo amico e forse prefetto del pretorio Severo, ora rinominato Flavius Severus Valerius per adeguarsi alla nomenclatura occidentale di Costanzo, e il proprio nipote Massimino, col nome di Galerius Valerius Maximinus per adeguarsi alla propria stessa nomenclatura orientale – tutto questo il 1° maggio 305. Quando Galerio, in seguito alla morte di Costanzo nel 306, fu costretto ad accettare Costantino come Cesare, quest’ultimo ricevette i titoli di nobilissimus Caesar e di princeps iuventutis, nonché i nomi dinastici di Flavius Valerius Constantinus e l’appellativo di Herculius. È interessante il fatto che nessuno di questi nomi e titoli fu usato nella coniazione di monete a Occidente dopo il 307, quando Costantino si fece proclamare Augusto, benché si continuasse a riferire a lui come Flavius Valerius Constantinus nelle iscrizioni (con Valerius spesso omesso) e nelle emissioni orientali fino alla sconfitta di Licinio nel 324. Quando usurpò il potere a Roma nel 307, Massenzio si limitò a replicare i suoi nomi di nascita, M. Aurelius Valerius Maxentius, dimostrando in tal modo di volersi proporre come rispettoso del sistema esistente. Quando, nel 308, Licinio fu inserito nella tetrarchia come Augusto, gli fu dato il nome anomalo di Valerius Licinianus Licinius. Nel 316, durante la guerra civile tra Costantino e Licinio, quest’ultimo si diede un co-Augusto col nome di Aurelius Valerius Valens, richiamandosi così al modello di Diocleziano e Massimiano, gli Augusti originali.
Il 1° marzo 317, all’indomani della guerra civile, i piani di Costantino e Licinio per la futura pace includevano un tentativo di restaurare la tetrarchia proclamando i rispettivi figli nobilissimi Caesares: Crispo come Flavius Iulius Crispus7, Costantino II come Flavius Claudius Constantinus Iunior e Licinio II come Valerius Licinianus Licinius Iunior, mantenendo in questo caso il gentilizio Valerio che risaliva a Diocleziano. Crispo era figlio di Minervina, prima moglie di Costantino, ed era nato attorno al 300, mentre Costantino II era figlio di Fausta – figlia di Massimiano e sorellastra di Teodora, matrigna di Costantino –, che Costantino aveva sposato nel 307, al momento della rottura con Galerio e della seconda sua proclamazione come Augusto da parte di Massimiano. Licinio II era figlio di Licinio e di Costanza, sorellastra di Costantino (sua madre era Teodora, Elena quella di Costantino), e quindi per metà suo nipote.
Il Iulius della nomenclatura di Crispo compare per la prima volta come rinvio dinastico ai Giulio-Claudii, la prima famiglia imperiale e la sola in grado di competere con quella di Costantino, per dimensioni e longevità, tra quante l’avevano preceduta: Costantino aveva due figli e tre fratellastri, e i suoi figli sarebbero stati imperatori di terza se non di quarta generazione, un’impresa che nessuna dinastia aveva compiuto senza ricorrere all’adozione dai tempi dei Giulio-Claudii8. Il nome Giulio era evidentemente gradito a Costantino: avrebbe continuato a usarlo come nuovo nome dinastico anche per gli altri due suoi figli, la madre, il fratellastro e due mezzi nipoti, come si vedrà oltre9.
Il Claudius del nome di Costantino II era derivato, naturalmente, dalla pretesa di Costantino di essere discendente dell’imperatore del III secolo Claudio il Gotico – pretesa surrettizia, ma abituale a partire dal 310. Per di più, si legava bene al nome Iulius e ai Giulio-Claudii. Quella rivendicazione arretrava di ben due generazioni la dinastia familiare. Non può essere una coincidenza il fatto che nel 317, o comunque non più tardi del 318, per la prima e unica volta Costantino coniò monete in memoria del Divus Claudius10. Diversamente dal Iulius, il nome non sarebbe riapparso fino a quando Costanzo II non lo impose a Gallo – Flavius Claudius Constantius – nel 351, e a Giuliano – Flavius Claudius Iulianus – nel 355, presumibilmente in onore del fratello.
Che il Flavius fosse mantenuto, ma non il Valerius, mostra come Costantino intendesse segnare un’interruzione rispetto alla tetrarchia originaria, ma avesse chiara d’altra parte l’importanza storica dei nomi ai fini di una politica dinastica, sicché conservò quello tra essi che si ricollegava unicamente a suo padre.
Benché Crispo avesse circa diciassette anni, Licinio II venti mesi e Costantino II circa sei mesi, i figli di Costantino vennero proclamati principes iuventutis, ma non Licinio II: ciò indica come quest’ultimo, a dispetto della sua età, fosse il membro più giovane del collegio, Cesare per la generazione successiva.
L’8 novembre 324, dopo la sconfitta dei due Licinii, Costantino proclamò nobilissimus Caesar il suo terzo figlio Costanzo, all’epoca di soli sette anni, con il nome di Flavius Iulius Constantius11. Non aveva più bisogno del legame con Claudio il Gotico. Analogamente a Licinio II, Costanzo non ricevette il titolo di princeps iuventutis, come si addiceva al suo rango di membro giovane del collegio. La struttura tetrarchica potenziale era stata ancora una volta ristabilita, con un Augusto, un Cesare seniore, due Cesari juniori. Come era successo con Galeria Valeria, la madre di Costantino divenne Flavia Iulia Helena, sua moglie Flavia Maxima Fausta, entrambe all’atto di essere proclamate Augustae – lo stesso giorno, probabilmente, della nomina di Costanzo12. Intorno al 326 Crispo era a mezza strada tra i venti e i trent’anni e aveva già operato autonomamente da Costantino nelle Gallie13. Solo un breve lasso di tempo lo separava ancora dalla promozione al rango di Augusto e della conseguente assunzione del controllo sulla parte occidentale dell’Impero; ma ciò non doveva verificarsi.
La messa a morte di Crispo nel 326 e l’imposizione della damnatio memoriae sul suo nome distrussero questi piani, e sembra che, all’indomani di queste vicende, Costantino abbandonasse ogni pensiero di successione14. La sua reazione immediata avrebbe dovuto essere quella di elevare il quarto figlio, Costante, che all’epoca aveva sei anni, al rango di nobilissimus Caesar così da occupare il gradino più basso del collegio, promuovendo di grado Costantino e Costanzo; quest’ultimo, dopotutto, era stato proclamato nobilissimus Caesar non più tardi di un mese e mezzo dopo la sconfitta di Licinio e di suo figlio. Ma nulla di tutto ciò accadde per oltre sette anni. Forse lo shock provocato dalla perdita di Crispo e poi di Fausta si rivelò intollerabile per l’imperatore, così da renderlo incapace di affrontare il problema della successione. Anche se non era atteso in quel momento, la mancata promozione di Costanzo (così come di ogni successivo Cesare) a princeps iuventutis mostra come questo titolo avesse perso valore, e infatti nessun Cesare successivo lo ricevette più15.
Non fu prima del 332 che Costantino ritornò ai suoi piani dinastici. A quell’epoca egli aveva preso un buon numero di importanti decisioni che avrebbero lasciato l’Impero e il potere imperiale nelle mani di entrambi i rami della famiglia paterna, cioè dei discendenti delle due mogli di Costanzo I, Elena e Teodora, dalle quali aveva avuto rispettivamente un figlio (Costantino) e tre figli e tre figlie. Nel 332 Costantino era arrivato o era sul punto di arrivare al suo sessantesimo compleanno (cioè al suo sessantunesimo anno di vita). Era consapevole del fatto che i suoi figli erano molto giovani e inesperti e che lui stesso avrebbe potuto non sopravvivere per gli anni necessari a fornire loro l’esperienza di cui abbisognavano prima che alcuni di loro venissero promossi ad Augusti e al potere imperiale pieno. Gli serviva un modo per assicurare loro una guida appropriata, e all’Impero una leadership forte, nel caso in cui lui stesso fosse morto troppo presto.
Per la maggior parte del regno di Costantino i figli ancora vivi di Teodora erano stati tenuti virtualmente in esilio, lontano dal centro del potere: Dalmazio a Tolosa e Giulio Costanzo a Corinto17. Ciò è stato attribuito all’influenza di Elena, che poteva vedere solo come rivali dei propri figli e nipoti quelli della seconda moglie di suo marito. Ella partì per la Palestina nel 326, dopo la morte di Crispo e di Fausta, e fu in quell’anno, mentre Costantino era anche lui in Italia per celebrare la fine dei suoi vicennalia, che in Etruria, non a Corinto, nacque Costanzo Gallo. Elena morì all’inizio del 329 e immediatamente dopo Costantino cominciò a integrare nel potere i due fratellastri superstiti. Essi ebbero l’onore dei nomi dinastici (Flavius e Iulius), del consolato nel 333 e 335, degli antichi e ancora venerati titoli di censor Flavio Dalmazio (console nel 333) nel 333 o all’inizio del 33418, di patricius e nobilissimus Giulio Costanzo (console nel 335). Il primo titolo fu attribuito a Giulio Costanzo nel corso del 335 e l’altro nel settembre di quello stesso anno, quando i nipoti Dalmazio e Annibaliano furono promossi rispettivamente a Cesare e a rex19: titoli, questi, tanto prestigiosi quanto velocemente raggiunti. Una figlia di Giulio Costanzo e di sua moglie Galla andò sposa a Costanzo II, figlio di Costantino, per lei cugino a metà, nel 335/33620, mentre la figlia di Costantino, Costantina21, fu maritata al suo semi-cugino Annibaliano22, figlio di Flavio Dalmazio, nello stesso anno, intrecciando in tal modo vincoli ancor più stretti tra i due rami della famiglia23.
Da ultimo, il 25 dicembre 333, il figlio minore di Costantino, Costante, allora probabilmente decenne, fu insignito del rango di nobilissimus Caesar e ricevette il nome di Flavius Iulius Constantius. In tal modo, verrebbe da dire, Costantino sarebbe rimasto con tre Cesari, di cui uno senior e due juniores, secondo il progetto della metà degli anni Venti. Ma ora egli era più vecchio di dieci anni e, se tre Cesari sarebbero stati assistenti appropriati durante il suo regno, c’era ormai da pensare al futuro, e a cosa sarebbe accaduto se lui fosse diventato troppo vecchio per governare o guidare l’esercito, o se fosse morto, in battaglia o di morte naturale. Fu così che il 18 settembre 335, quasi due anni dopo la promozione di Costante, Dalmazio24 e il fratello minore Annibaliano furono insigniti di titoli imperiali, col rango di nobilissimus Caesar il neo-rinonimato Flavius Iulius Dalmatius, col nobilissimato Annibaliano25. A causa della mancanza di iscrizioni che ne facciano menzione e per la scarsità di monete battute a suo nome (la cui lunghezza non lasciava posto per quasi nient’altro nella leggenda), non abbiamo testimonianze del nome completo di Annibaliano. Ma tenuto conto della prassi onomastica di Costantino, si sospetta che anche lui fosse un Flavius Iulius. Ricevette anche il titolo senza precedenti di rex regum et gentium Ponticarum26.
Sembra quasi certo che Costantino progettasse di promuovere in un momento successivo, quando fossero cresciuti e maturati a sufficienza, ad Augusti entrambi e contemporaneamente i due Cesari più adulti, Costantino II e Costanzo. Forse immaginò perfino di poter fare un passo indietro, assumendo un titolo simile a senior Augustus o pater Augustorum di Diocleziano, e di lasciare a imperatori più giovani e capaci gli impegni più gravosi, restando però lui stesso al timone della politica imperiale. In tal modo due Augusti e due Cesari gli sarebbero succeduti nel quadro di una tetrarchia ristabilita, integrata al suo interno da vincoli di sangue e di matrimonio. Si direbbe che Costantino ritenesse la successione dinastica capace di risolvere i problemi intrinseci che avevano portato al fallimento il sistema dioclezianeo (donde il ritorno nelle sue grazie dei fratellastri e delle loro famiglie, e la nomina di Dalmazio). Il ritorno all’ovile dei figli di Teodora avrebbe ridotto di molto, se non eliminato, ogni problema di futuri tentativi di usurpazione da parte loro27. I piani di Costantino su Annibaliano non sono noti, ma il suo titolo è chiaramente correlato all’intenzione di mettere sotto controllo romano il territorio dei re di Armenia e non solo28. I fratellastri di Costantino erano senza dubbio destinati a giocare un ruolo di rilievo all’interno del concilium in qualità di uomini di Stato esperti, consiglieri e magari perfino reggenti in luogo dei giovani imperatori, dato che il maggiore dei figli superstiti, Costantino II, essendo nato nell’estate del 316, non aveva ancora compiuto i ventuno anni quando infine Costantino morì per davvero, nel maggio 337. Inoltre a Costanzo fu assegnato, dopo la morte di Costantino (e probabilmente per sua volontà), il suo fidato prefetto del pretorio, Flavio Ablabio, in un rapporto entro cui quest’ultimo era chiaramente previsto come tutore e consigliere, mentre la figlia, Olimpia, era stata già da tempo promessa in moglie a Costante29. Come si può vedere, tutto ciò era poco più che un’estensione dei progetti cui l’imperatore aveva cercato di dare corpo almeno a partire dal 317, con l’unica differenza che ora egli faceva progetti in vista del proprio ritiro o della propria morte, cosa di cui non aveva sentito in precedenza la necessità.
Dunque, per Costantino, il copione era scritto: la sua eredità politica avrebbe continuato a vivere in un inespugnabile collegio di imperatori cristiani, vincolati l’uno all’altro da legami di sangue e di matrimonio, tutti abilmente assistiti da consiglieri più anziani e più saggi, nonché tutelati da un sistema tetrarchico di imperatori e Cesari regionali. Nel 335 erano stati addirittura individuati territori specifici quali sfere di competenza diretta per i quattro Cesari30. Dal punto di vista di Costantino, il piano era perfetto. Purtroppo, il Fato intervenne prima che egli potesse dare l’ultimo ritocco ai suoi preparativi.
Le circostanze
Costantino aveva a lungo guardato alla Persia come a una parte della sua missione evangelizzatrice, e addirittura già nel 324 o 325 il poeta Publio Optaziano Porfirio poteva scrivere come se l’imperatore avesse già in mente di invaderla (Carmina XVIII 4). In effetti Eusebio conserva la versione greca di una lettera che Costantino scrisse a Shabur II in un momento compreso tra il 324 e il 336 (v.C. IV 9-13)31. Ma non c’è dubbio che la concessione del titolo di rex regum et gentium Ponticarum ad Annibaliano poteva essere vista da Shabur soltanto come una pretesa da parte di Costantino sull’Armenia, che i persiani avevano rivendicato al proprio controllo intronizzandovi un loro candidato nel 336, se non sulla Persia stessa – il titolo di Shabur suonava in latino rex regum –, con una minaccia diretta che ci è chiaramente riferita dall’epitome de Caesaribus (che si appoggia per questo su Eunapio, uno storico del tardo IV secolo32) là dove classifica il territorio assegnato ad Annibaliano come «Armeniam nationesque circumsocias» (XLI 20), e dai nummi coniati in onore di Annibaliano a Costantinopoli, raffiguranti sul verso una divinità fluviale che altri non può essere se non l’Eufrate o il Tigri (si veda nota 26). Le incursioni persiane dell’estate 336 in Armenia – che era ufficialmente cristiana dal 314 – e all’interno delle frontiere romane, con la transitoria conquista di Amida forse nel 33533, convinsero Costantino a iniziare la lenta e accurata preparazione di un massiccio attacco alla Persia. Eusebio fa menzione di questi preparativi (v.C. IV 56) e senza dubbio li descriveva più in dettaglio nella parte del testo andata perduta (v.C. IV 56-57). Sembra che il re di Persia si sia sentito incoraggiato dalla mancanza di una reazione seria e immediata da parte di Costanzo, che era di stanza in Oriente sin dal 33534. Sappiamo da Eusebio (v.C. IV 56-57, 60,5), da Socrate (h.e. I 18,12, dipendente da Eusebio) e da Libanio (Or. 59,71-72) che messi persiani arrivarono a Costantinopoli poco prima della Pasqua (3 aprile) del 337. Benché Eusebio, seguito da Socrate, dica che fu raggiunto un accordo di pace, Costantino continuò nei suoi preparativi per tutto aprile e maggio, e si mise in viaggio per incontrarsi con Costanzo ad Antiochia35.
C’è un certo numero di tradizioni tra loro diverse sugli ultimi giorni di Costantino, e per ricostruire gli eventi occorre passare in rassegna le fonti principali.
Eusebio lascia intendere, ma non dice apertamente, che Costantino cadde malato poco dopo Pasqua (v.C. IV 60,5). La malattia si aggravò e lo indusse a prendere dei bagni caldi a Costantinopoli. In seguito raggiunse Elenopoli in Bitinia, dove pregò presso la «cappella dei martiri», probabilmente il santuario dedicato al martire Luciano (61,1)36. Le acque e le preghiere non ebbero effetto e allora, intuendo di essere in punto di morte, decise di farsi battezzare (61,2-3). Così si diresse verso un προάστειον nei dintorni di Nicomedia, la natura del quale si discuterà oltre, dove fu battezzato37, mise ordine nei suoi affari, e morì sul mezzogiorno del 22 maggio (61,3-64,2)38.
Il racconto di Socrate, (h.e. I 39-40), che tanto ha influenzato i successivi cronisti e storici greci e siriaci, sembra a prima vista un compendio di Eusebio. Ma un’indagine più approfondita mostra che le cose non stanno esattamente così. Il racconto si articola in tre sezioni: I 39,1-2 sulla malattia e sugli spostamenti di Costantino; 39,3-5 sul suo testamento; 40,1-2 su funerali e sepoltura. La sezione finale deriva certamente da Eusebio, essendo un sunto scrupoloso di v.C. IV 66-71 e 60,1-2, senza informazioni ulteriori, se si eccettua la precisazione sul sopraggiungere di Costanzo dall’Oriente.
Il racconto del testamento è tratto da Rufino (h.e. X 12), benché le disposizioni testamentarie mostrino una qualche influenza di Eusebio (v.C. IV 63,3). Questo resoconto è un falso posteriore, di ispirazione filocostantiniana, destinato ad assolvere l’imperatore dall’accusa di aver cresciuto un figlio di convinzioni ariane, e può essere trascurato (si veda nota 55). Socrate attesta che Costantino sopravvisse per qualche giorno dopo aver fatto testamento e che qualcuno fu immediatamente inviato in Oriente per avvertire Costanzo della morte del padre (39,5). In ogni caso Eusebio non fa alcuna annotazione cronologica sulla morte di Costantino, a parte l’indicazione generica della Pentecoste (64,1), e aggiunge che ne fu mandata notizia ai Cesari (così, al plurale) solo dopo che la salma ebbe raggiunto Costantinopoli e fu esposta nella camera ardente (68,1). È difficile immaginare che la notizia abbia potuto essere tenuta nascosta a Costanzo per così lungo tempo. I dettagli di Socrate non derivano da Rufino. Sembra essere stata consultata una terza fonte.
Del massimo interesse è il resoconto di Socrate sulla morte di Costantino. Esso specifica che l’imperatore si ammalò subito dopo aver compiuto sessantacinque anni (il suo compleanno era il 27 febbraio) e che salpò alla volta di Elenopoli per giovarsi delle sorgenti termali dei dintorni. Si tratta di Pythia Therma, oggi Yalova, circa trenta chilometri a sudovest di Elenopoli (oggi Hersek)39. Qui la malattia si aggravò notevolmente, sicché egli sospese i bagni termali e si mise in viaggio per Nicomedia. Mentre sostava in un προάστειον, vi ricevette il battesimo.
Questa versione aggiunge particolari che non si trovano in Eusebio: la prossimità degli eventi al compleanno di Costantino, il viaggio per mare verso Elenopoli per i bagni termali, l’effetto deleterio di questi ultimi per la salute di Costantino. Il riferimento al προάστειον e al battesimo può derivare da Eusebio, ma può con altrettanta probabilità esserne indipendente.
Appare così che c’era un’altra fonte, in circolazione nella prima metà del V secolo, recante un diverso resoconto della morte di Costantino. La maggior parte delle altre fonti, come vedremo, conosce solo pochi particolari su questa morte, mentre il tipo di dettagli conservato da questo resoconto, confermato com’è nelle sue linee generali da altre testimonianze, incluso Eusebio, rivela una fonte precoce, cosa che decisamente incoraggia ad accoglierne la testimonianza. Eusebio modifica tendenziosamente il suo racconto degli ultimi giorni di Costantino così come del periodo immediatamente successivo, sicché i particolari da lui attestati, ove non siano suffragati da altre fonti, sono meno degni di credito da parte nostra.
Una differente versione di quanto leggiamo in Socrate può essere reperita, a metà del X secolo, nell’epitome storica di Simeone Logoteta40. Qui Costantino parte contro i persiani, viaggiando da Nicomedia ai bagni di Pythia, dove si ammala. In seguito si reca via Elenopoli «al campo» (ἐν τῷ χάρακι), dove muore per una violenta febbre nel nono anno dalla «fondazione e dedicazione di Costantinopoli» (= 338; p. 109,52-56). Nessuna menzione è fatta del battesimo. L’espressione ἐν τῷ χάρακι è data così dall’editore; essa è tradotta dagli editori dei testi paralleli in Cedreno e Leone Grammatico come in castra, da Fowden invece come in camp41. Il traduttore in antico slavo ecclesiastico, così come l’editore del testo parallelo in Teodosio Meliteno, comunque, la tratta alla stregua di un nome di luogo42, come prova in effetti il più tardo geografo bizantino Stefano da Bisanzio: ἔστι καὶ ἄλλος Χάραξ ἐμπόριον μέγιστον, ἐν τῷ Νικομηδείας κόλπῳ πλησίον αὐτῆς (688,11-12)43. Si trova a circa venticinque chilometri a ovest di Nicomedia, appena prima di Libyssa, la prima mansio (sosta) sulla strada per Costantinopoli e quasi esattamente di fronte a Elenopoli, dalla parte opposta della baia44. Charax era direttamente sul mare – in quanto vasto emporion aveva probabilmente un porto attrezzato di qualche tipo – e sarebbe stata la destinazione più ovvia, via Elenopoli, per un veloce attraversamento della baia che portasse Costantino alle più vicine comodità. Di conseguenza il testo dovrebbe recare ἐν τῷ Χάρακι, «a Charax». La geografia è dunque accuratamente descritta.
In Simeone Logoteta allora, benché in una forma leggermente diversa, possiamo vedere uno schema che rispecchia Socrate nei suoi dettagli più che Eusebio. Ora, ci si aspetterebbe che una fonte dipendente da Socrate o da Eusebio menzionasse una preesistente malattia di Costantino, quale spiegazione ovvia della visita alle terme come prima tappa del suo viaggio. Inoltre, l’assenza in Simeone del προάστειον presso Nicomedia come luogo della morte, l’assenza del battesimo, del testamento e dei funerali sarebbero altrettanto strane, se la fonte fossero Eusebio o Socrate45. Abbiamo inoltre i particolari fededegni su Charax e sulla febbre di Costantino, che non appaiono altrove, e la pretesa infondata che Costantino sia arrivato ai bagni provenendo da Nicomedia, che non dipende da nessuno di quei due autori. Tutto ciò suggerisce che abbiamo a che fare qui con una tradizione autonoma rispetto a quelle rappresentate da Eusebio e Socrate, e tuttavia chiaramente riferita ai medesimi fatti.
La Kaisergeschichte ora perduta, che fu utilizzata come fonte da Aurelio Vittore, Eutropio e Girolamo, fu redatta originariamente, com’è probabile, verso la metà del IV secolo46. Diceva semplicemente che Costantino morì presso Nicomedia mentre preparava la guerra contro i persiani47. Vittore poteva aggiungere al suo resoconto proveniente dalla Kaisergeschichte che Costantino in quel momento era sulla via della Persia.
La Continuatio Antiochensis, una continuazione dei Chronici canones di Eusebio scritta ad Antiochia intorno al 350, afferma che i persiani dichiararono guerra e che Costantino, messosi in marcia contro di loro, morì a Nicomedia (25)48. Ciò è probabilmente conseguenza di un’informazione lacunosa o della sintesi imprecisa di una fonte più completa.
Come Eusebio e tutti quelli che ultimamente dipendono da lui, la Continuatio sa del tardo battesimo di Costantino, ma diversamente da tutte le altre fonti superstiti (che in ultima istanza non ne dipendono direttamente), sa anche chi impartì il battesimo: Eusebio di Costantinopoli49. L’errore a riguardo della sede episcopale di Eusebio – che all’epoca era vescovo di Nicomedia – indica che questo particolare non fu fissato contemporaneamente agli eventi, ma in una data successiva, quando Eusebio (che morì nel 341) era più noto come vescovo di Costantinopoli.
La Continuatio è la più antica tra le fonti indipendenti superstiti che nomina Eusebio come il vescovo che battezzò Costantino, benché Teodoreto ammetta la sua presenza negli ultimi giorni di vita dell’imperatore (h.e. I 32,1). Filostorgio e Agapio affermano che Eusebio ricevette il testamento di Costantino e lo mise al sicuro (Philost. II 16 e Agapio, p. 564), un’asserzione che sembra essere in relazione con il racconto di Rufino sul testamento (si veda nota 55)50. D’altra parte, la testimonianza di Teofane, secondo cui il battesimo di Costantino per mano di Eusebio era affermazione proveniente da «certi ariani», suggerisce che il nome di Eusebio doveva comparire in altre fonti oggi perdute, e che si conservava probabilmente anche in racconti orali51.
Scrivendo all’inizio del VI secolo Malalas afferma che Costantino morì presso Nicomedia dopo una malattia di sei giorni mentre si trovava in un processus, una processione ufficiale fuori le mura di Costantinopoli52. Come in tante altre fonti, Costantino è semplicemente in viaggio verso Nicomedia quando muore; non sono menzionati altri spostamenti. Torneremo in seguito su Malalas. Giuliano dice solo che Costantino morì di malattia (Or. 1,16D), così pure Libanio (Or. 18,10) nonché Zosimo (II 39,1) e la epitome de Caesaribus (41,15), che dipendono entrambi, su questo punto, da Eunapio (si veda nota 32). Analogamente la Kaisergeschichte si limitava a registrare la sua morte nel mezzo dei preparativi di guerra e non faceva menzione di come egli fosse arrivato a Nicomedia. Questa versione dei fatti, secondo cui Costantino era semplicemente morto mentre si trovava dalle parti di Nicomedia, sembra derivare in ultima istanza da una versione della morte promulgata ufficialmente che, al pari di quella di Eusebio, preferiva tacere il fatto che l’imperatore, quando morì, stesse partendo per la guerra. Forse questo particolare appariva poco ‘politico’ in quel momento, o semplicemente una debole testimonianza del favore divino per l’imperatore. Di conseguenza la sua avanzata verso Antiochia viene omessa e all’imperatore succede solo di morire a Nicomedia. Malalas afferma che Costantino fu malato per sei giorni: il particolare è presumibilmente veritiero, essendo coerente con i racconti di Socrate e Simeone, ma non c’è modo di verificarlo. Non includerà, ovviamente, i primi stadi della malattia registrati da Eusebio e Socrate; probabilmente si riferisce solo all’ultimo e più serio, che ebbe inizio ai bagni termali.
L’attività dei persiani alle frontiere e i preparativi di guerra di Costantino nel 335-336 furono seguiti dall’arrivo a Costantinopoli dei messi persiani, alla fine del 336 o all’inizio del 337. Shabur voleva senza dubbio sondare il terreno, valutando l’esatta portata delle intenzioni di Costantino e al tempo stesso cercando un’occasione per reclamare tanto l’Armenia quanto i territori perduti da Narsete a favore dei romani nel 297-298. A Pasqua Costantino stava già poco bene, probabilmente. Quali che fossero state le sue precedenti minacce a proposito delle condizioni dei cristiani in Persia nelle sue lettere a Shabur, quest’ultimo sembra aver preso l’iniziativa nel 336/337, mettendo Costantino di fronte a un ultimatum che poteva solo portare alla guerra. Forse, in considerazione dell’inerzia dei romani dopo le sue incursioni dell’anno precedente, riteneva che essi non fossero disposti a scendere in guerra con la Persia per l’Armenia e i territori disputati, malgrado il titolo conferito ad Annibaliano. Più probabilmente i suoi inviati vennero a sapere o videro direttamente il progresso dei preparativi di guerra di Costantino, ed egli decise perciò di colpire preventivamente senza aspettare che il nemico fosse pronto. Libanio ci presenta i messi persiani come latori di un ultimatum che Costantino rifiuta; la Continuatio lo considera una vera e propria dichiarazione di guerra. La differenza è probabilmente di prospettiva. Eusebio (imitato da Socrate) ha cercato di insabbiare il coinvolgimento di Costantino in questa fallita spedizione, pretendendo che egli avesse fatto pace con i persiani prima della sua ultima Pasqua53, ma di certo l’imperatore non poteva permettere che l’accresciuta minaccia persiana si intensificasse ulteriormente e decise di intraprendere una spedizione contro la Persia non appena fosse stato pronto.
Gli inviati persiani lasciarono Costantinopoli e tornarono da Shabur con la risposta che questi esattamente si aspettava, dacché doveva aver già ammassato truppe alla frontiera, pronto all’attacco, quando inaspettatamente Costantino morì: l’imperatore spirò il 22 maggio e già attorno al 16 giugno Shabur stava assediando Nisibi54. Senza dubbio sferrò l’attacco appena avuta notizia della partenza di Costanzo da Antiochia; notizie della morte di Costantino sarebbero seguite rapidamente. L’attacco fu percepito all’epoca come immediatamente successivo, o quasi, alla morte dell’imperatore.
Dopo la partenza dei messi, Costantino concluse a tambur battente i suoi preparativi e verso la metà di maggio partì da Costantinopoli per Antiochia. Data la sua età e la guerra imminente, si può pensare che in Antiochia egli progettasse di promuovere Costanzo al rango di Augusto. Si sarebbe trattato di una decisione semplicemente opportuna, e la sua preferenza per Costanzo in quel momento – cui forse allude Giuliano, Or. 2,94A-B – spiegherebbe molta parte della successiva maggior importanza de facto di Costanzo rispetto a Costantino II nella triarchia. Benché non si fosse sentito bene per oltre un mese, l’imperatore non poteva permettere che un leggero malessere lo trattenesse dall’agire. Nella speranza di liberarsi dai problemi di salute egli deviò, via mare, verso il porto di Elenopoli e di là si recò alle sorgenti termali di Pythia per cercarvi un qualche sollievo. Nel frattempo il resto della spedizione procedeva via terra alla volta di Nicomedia, dove Costantino l’avrebbe raggiunta in capo a pochi giorni, per poi costeggiare la baia verso Nicea e quindi intraprendere il lungo e difficile attraversamento dell’Asia Minore a est, verso Ancyra, e poi a sud, verso Tarso.
La malattia di Costantino si aggravò decisamente a Pithya – forse a causa dei bagni stessi, o forse in conseguenza del viaggio da Costantinopoli – ed egli accusò febbre alta. Fu sicuramente a questo punto che Costanzo fu fatto venire da Antiochia, forse per volontà dello stesso Costantino, in quanto dei tre figli era il più vicino a lui, benché tutte le fonti affermino o facciano intendere che egli non venne convocato se non dopo la morte dell’imperatore – ad eccezione di Giuliano, che sembra voler dare tutta l’importanza possibile al fatto che il solo Costanzo fu fatto chiamare dal padre morente (Or. 1,16D e 2,94A-B)55. Giuliano deve essere, almeno in questo, nel vero. Probabilmente Costantino fece sosta a Elenopoli per pregare, prima di passare nuovamente a Charax, sul lato nord della baia. Fu in seguito portato in un προάστειον da qualche parte tra Charax e Nicomedia, dove morì56.
Quattro fonti indipendenti, in ordine di composizione Eusebio, la Kaisergeschichte, Rufino e Malalas, affermano che Costantino nei suoi ultimi giorni fu portato in una villa/προάστειον57. Due di esse aggiungono che quest’ultima si chiamava Achyron, che è il nome greco per pagliaio.
«[Κωνσταντῖνος] μεταβὰς δ’ἔνθεν (i.e. dalla cappella dei martiri) ἐπὶ προάστειον τῆς Νικομηδέων ἀφικνεῖται πόλεως» (Eus., v.C. IV 61,3).
Kaisergeschichte: «[Constantinus] [...] rure proximo Nicomediae – Achyronam uocant – excessit» (Aur. Vict., Caes. 42,25) + « [Constantinus] [...] Nicomediae in villa publica obiit» (Eutr., X 8,2) + «Constantinus [...] in Acyrone villa publica iuxta Nicomediam moritur» (Hier., chron. 234b).
«Constantinus in suburbana villa Nicomediae [...] diem functus est» (Rufin., hist. X 12).
«ἐτελεύτησεν ὁ αὑτὸς βασιλεὺς Κωνσταντῖνος ἐν Νικομηδείᾳ τῆς Βιθυνίας [...] ἐν προαστείῳ τινὶ λεγωμένῳ Ἀ̕Αχυρῶνι πρὸ ὀλίγου διαστήματος τῆς πόλεως» (Malal., XIII 14).
Evidentemente la villa e il προάστειον sono la stessa cosa, e la «suburbana villa» di Rufino è quasi certamente una traduzione di προάστειον. Si trattava pertanto di una sorta di tenuta suburbana, prossima cioè a una grande città. Ma che tipo di tenuta era? Non si trattava di una ‘tenuta pubblica’, una mansio o un deversorium lungo il cursus publicus. L’autore della Kaisergeschichte usa l’aggettivo publicus non nel senso di ‘pubblico’, ‘aperto a tutti’, che ha poco senso in rapporto a una tenuta o villa di qualunque tipo, ma nel senso di ‘statale’, ‘di proprietà dello Stato’, come l’ager publicus o il cursus publicus; e così traducono Harry W. Bird e Garth Fowden: «morì nella/in una villa di Stato a Nicomedia»58. Questa interpretazione è confortata dalla biografia agiografica di Costantino del IX o X secolo conosciuta come Βίος di Costantino o Vita Guidi59. Per il resoconto degli ultimi giorni e della morte dell’imperatore, tale Vita semplicemente replica Teofane (XXXV, p. 653,20-22 = Theophanes, Chronographia, ed. de Boor, p. 33, 16-19), ma se ne discosta in una riga leggermente modificata tratta invece da Malalas (p. 653,22: ὀλίγον ἀρρωστήσας χρόνον ἐν προαστείῳ τινὶ). A questa riga da Malalas il compilatore aggiunge che la villa era ‘imperiale’ (βασιλικῷ, p. 653, 22-3), benché sia ignota la fonte cui attinge. È perciò chiaro che Costantino morì nell’edificio residenziale più importante di una tenuta imperiale. Ma se si trattava di una residenza imperiale, che senso si deve dare alla sua designazione come ‘pagliaio’?
La risposta sta nella traduzione: non era ‘un pagliaio’, ma ‘Il Pagliaio’. È il nome della residenza. Si tratta di un chiaro esempio di quel ben noto fenomeno che consiste nel denominare strade, edifici, contrade sulla base di caratteristiche molto note o appariscenti del sito o dell’area. Era un fenomeno abbastanza comune nel mondo romano, così da non necessitare spiegazioni particolari nelle fonti che vi facessero riferimento60. La località potrebbe esser stata il sito di un vecchio e ben noto pagliaio poi demolito, o un pagliaio potrebbe esser stato ancora una caratteristica appariscente della proprietà, magari vicino a una strada o su un incrocio. E in verità, per poco che la sagoma di un edificio richiamasse quella di un pagliaio, la denominazione potrebbe addirittura aver avuto carattere ironico.
Entrambe queste ipotesi su identità e nome dell’edificio in questione sono suffragate da altre fonti, e particolarmente da Ammiano Marcellino. Egli menziona numerose residenze imperiali di questo genere – chiamate suburbana (= προάστειον) e villae publicae – diffuse per tutto l’Impero, «residenze ufficiali occupate di tempo in tempo da governatori romani e da membri della famiglia imperiale in viaggio tra una capitale e l’altra»61. Come Achyron, ciascuna aveva un nome: il suburbanum ... Hippocephalum (‘Testa di Cavallo’), tre miglia romane fuori da Antiochia (XXI 15,2); un suburbanum che conosciamo da molte altre fonti chiamato l’Hebdomon, a sette miglia romane da Costantinopoli (XXVI 4,3)62; il suburbanum ... Mediana (‘Centrale’), a tre miglia da Naisso (XXVI 5 1; Cod. Theod. XV 1,13 [emendato]); la villa publica ... Pistrensis (= Pistrinensis? ‘Il Panificio’), a ventinove miglia romane da Sirmio (XXIX 6,7); la villa publica ... Murocincta (‘Cinta di Mura’), forse vicina a Carnuntum (XXX 10,4); e la villa Caesariana ... Melanthias (‘Nera’), tra i diciannove e i ventisei chilometri da Costantinopoli (XXXI 11,1, 12,1; vedi anche Cod. Iust. IV 49,7 e II 4,33[34]). Dalla Historia ecclesiastica di Socrate (I 27,10) apprendiamo di un altro προάστειον imperiale fuori da Nicomedia chiamato Ψαμαβία (‘La Spiaggia’)63. E dalle raccolte delle leggi ricaviamo i possibili esempi di Contoniacum fuori da Treviri (Cod. Theod. II 4,3, IV 6,4, IX 3,5, XI 1,17; Cod. Iust. VI 22,7) e di Valentia fuori da Costantinopoli (Cod. Theod. VIII 5,49, XI 1,22, XII 1,113). Il ‘palazzo’ di Diocleziano era il suburbanum Spalatum fuori Salona, benché l’uso ne fosse riservato a lui soltanto. Anche l’autore della Kaisergeschichte conosceva il nome di questa villa, dal momento che scrisse, come testimoniato dai Chronici canones di Girolamo, che Diocleziano morì «haut procul a Salonis in villa sua Spalato»64. Anche gli imperatori precedenti possedettero molte di queste ville, ma forse la più pertinente alla nostra discussione è la villa imperiale fuori Roma, sulla Flaminia, chiamata Ad Gallinas a motivo del pollame che Livia vi fece allevare (Svet., Galba 1).
La maggior parte delle città menzionate in questi esempi erano importanti centri militari o amministrativi. Questa informazione ci dà un indizio sul motivo per cui Costantino e il suo entourage si diressero verso questa particolare villa.
Diocleziano aveva fatto di Nicomedia una capitale dell’Impero e una delle sue residenze permanenti, costruendovi un palazzo e riedificando la città con il fasto che le si addiceva; anche Massimino e Licinio vi avevano posto il loro quartier generale65. Costantino vi subentrò immediatamente dopo, o quasi, la sconfitta di Licinio nel 324, e tra il 324 e il 330 Nicomedia fu probabilmente la sua residenza principale. Sarebbe stato in questo periodo che Achyron fu costruita o ricostruita su una struttura preesistente come una delle residenze suburbane dell’imperatore. Benché tale residenza dovesse ricevere solo visite occasionali e temporanee, sarebbe stata fornita di tutto il personale e le provviste necessari. Era quindi perfettamente equipaggiata quando vi giunse voce che un Costantino sofferente era in procinto di farle visita.
L’edificio in cui Costantino arrivò e quasi subito morì non era perciò un pagliaio, ma una comoda e ben attrezzata villa imperiale di nome Achyron, situata nei dintorni di una capitale dell’Impero, e costruita o ricostruita come residenza temporanea per l’imperatore stesso, la sua famiglia, i governatori della provincia, nel qual caso sarebbe stata dell’ordine di grandezza e di grandeur di altre grosse ville i cui resti sono stati trovati da un capo all’altro dell’Impero, come quella di Piazza Armerina o il palazzo di Diocleziano66.
Fu ad Achyron che Costantino venne battezzato da Eusebio di Nicomedia e morì. Erano passati sei giorni da quando si era ammalato a Pythia, se possiamo dar credito a Malalas. Il suo corpo fu probabilmente imbalsamato e riportato a Costantinopoli, dove rimase esposto nella camera ardente fino all’arrivo di Costanzo da Antiochia. Anche gli altri figli vennero certamente informati, benché non facessero nemmeno il tentativo di tornare a Costantinopoli per i funerali. Celebrati i quali, Costantino fu sepolto in un sarcofago di porfido nella chiesa dei Santi Apostoli67.
Nei cinquant’anni trascorsi dall’inizio della tetrarchia, tutti i precedenti mostravano chiaramente come la proclamazione di un nuovo membro del collegio imperiale o la promozione di un Cesare richiedessero la presenza di un Augusto o il consenso attivo dell’Augusto senior. Qualsiasi situazione in cui l’una o l’altra di queste regole era stata violata aveva procurato al Cesare o all’Augusto responsabile la fama di usurpatore, ed era spesso sfociata in guerra civile aperta. Quando Costantino morì, morì con lui l’unico Augusto regnante. Ciò privava Costantino II e Costanzo degli strumenti costituzionali per diventare Augusti, se si esclude il precedente remoto della proclamazione da parte dell’esercito con la ratifica del Senato e del popolo di Roma69. Certamente ciascuno dei Cesari si preoccupava di non permettere che qualcosa di simile si verificasse unilateralmente, poiché avrebbe potuto essere considerato dall’altro come una tentata usurpazione. Oltretutto non v’era certezza che i due Cesari iuniores si sarebbero accontentati – o che i rispettivi eserciti avrebbero loro permesso di accontentarsi – di rimanere tali nella confusione che ne sarebbe derivata. Ancor più problematica era la divisione dell’Impero. Malgrado alcune disposizioni territoriali fossero state date per i quattro Cesari nel 335, non c’era ragione di credere che sarebbero necessariamente rimaste in vigore dopo la morte di Costantino70.
Comunque sia, a dispetto dell’ovvia necessità di porre velocemente fine all’interregnum successivo alla morte di Costantino, passarono più di tre mesi prima che i suoi tre figli riuscissero infine a incontrarsi in Pannonia, ad accettare la comune promozione ad Augusti e a stabilire le divisioni territoriali, nonché l’anzianità fra di loro. Completato ciò il 9 settembre, due dei nuovi Augusti ritornarono alle loro capitali, mentre Costante rimase in zona per continuare le attività militari contro i sarmati avviate da Costanzo. Né Dalmazio, il quarto Cesare, né suo fratello Annibaliano furono menzionati in alcuno dei proclami ufficiali sul felice evento, non perché scartati dalla promozione di rango, ma perché nel frattempo assassinati.
Quando Costantino fu colpito dalla malattia a Pythia Therma, capì rapidamente che la situazione era seria e che i suoi due figli maggiori avrebbero avuto qualche difficoltà a promuovere se stessi ad Augusti se lui fosse morto. Come innanzi suggerito, egli stava forse progettando di promuovere Costanzo ad Antiochia prima della campagna contro la Persia. Aveva sollecitamente convocato Costanzo, come il più vicino a lui geograficamente tra i suoi due figli maggiori, nel caso le proprie condizioni volgessero al peggio. Lui stesso o i suoi consiglieri dovettero certamente pensare che in extremis egli avrebbe anche potuto elevare ad Augusto Costanzo alla presenza dell’esercito, e questi in seguito fare altrettanto con Costantino II. Quando alla fine l’imperatore morì il 22 maggio, prima dell’arrivo di Costanzo, messi veloci furono mandati ufficialmente ai quattro Cesari per informarli della morte del padre (o zio).
Costanzo arrivò a Costantinopoli da Antiochia nei primi giorni di giugno e diede immediatamente inizio ai preparativi per i funerali del padre, che devono aver avuto luogo subito dopo. Non sembra siano stati fatti sforzi particolari per far partecipare i suoi fratelli ai funerali nella capitale. Considerato il corso degli eventi, sembra quasi che sia stato detto loro esplicitamente di non venire. Entro la fine di giugno, da Costantino II o da Costanzo era stato disposto che i fratelli si sarebbero incontrati a Sirmio, località in posizione intermedia tra tutti loro, al fine di trovare una via d’uscita alle comuni difficoltà costituzionali e di stabilire le divisioni territoriali: tutto ciò, evidentemente, invece di riunirsi a Costantinopoli per i funerali.
Costanzo, non va dimenticato, non aveva più di diciannove anni in quel momento, e benché non fosse per nulla dotato del genio che alla sua stessa età aveva caratterizzato Ottaviano, era certamente astuto e spietato, e aveva davanti a sé gli esempi sanguinosi lasciatigli dal padre in materia di soluzione dei problemi dinastici e familiari. A dire il vero, tutti e tre i figli di Costantino erano giovani: venti o ventuno, diciannove, tredici o quattordici anni. Costanzo era sposato alla figlia di Giulio Costanzo, sua sorella era maritata ad Annibaliano, figlio di Flavio Dalmazio, e Costante era promesso alla figlia di Ablabio, Olimpia. Il potenziale di intervento sui tre fratelli nel caso migliore, di un loro rovesciamento nel peggiore, da parte dei più adulti Dalmazio, Costanzo o Ablabio doveva essere ben chiaro a Costanzo. Egli si occupò dapprima di Ablabio, allontanandolo e senza dubbio sciogliendo il fidanzamento del fratello con Olimpia. Ci sono sufficienti indizi nelle fonti letterarie, specialmente in Giuliano, Ammiano ed Eunapio (= Zosimo), per dimostrare che un qualche tipo di disaccordo sorse rapidamente tra Costanzo e i suoi parenti (specialmente con lo zio Giulio Costanzo) a riguardo della successione. Quasi di sicuro la disputa verteva sull’esclusione di Dalmazio e Annibaliano dal potere, malgrado gli espliciti desideri di Costantino e i suoi tentativi di sottrarre i tre fratelli da qualsiasi interferenza da parte dei parenti più anziani. La decisione di escludere Dalmazio può ben essere stata presa dai tre in una data molto anteriore, se già nel 335 essi si erano trovati chiaramente d’accordo nel non coniare per lui monete di metallo prezioso nelle rispettive zecche.
Quasi sicuramente il massacro ebbe luogo a Costantinopoli o nei suoi paraggi. Sarebbe stato del tutto naturale per quanti, tra i parenti di Costantino, si trovavano nelle vicinanze, riunirsi colà per i suoi funerali, e il fatto che in così tanti furono uccisi in una volta sola assieme ai loro sostenitori suggerisce che si trovassero, quasi tutti, nello stesso posto, e Costantinopoli è la sede più ovvia per un simile raduno piuttosto che, ad esempio, Naisso. C’erano solo 23 mansiones e circa 486 miglia romane da Naisso, dove avevano base Dalmazio e suo padre, e ciò rendeva più facile, nel loro caso, arrivare in tempo per i funerali. Costanzo era certamente a Costantinopoli quando fece uccidere Ablabio (benché questi si trovasse altrove). Anche l’esercito sarà stato senza dubbio presente in massa nella capitale, in conseguenza degli imponenti preparativi per la campagna di Persia, e le giustificazioni più tardi avanzate da Giuliano rendono quasi certo che Costanzo e l’esercito ‘ribelle’ si trovassero fisicamente molto vicini alle vittime al momento del massacro71; altrettanto vale per il salvataggio di Giuliano stesso e di suo fratello da parte di Costanzo o di Marco d’Aretusa (che deve essersi trovato a Costantinopoli piuttosto che altrove in quel momento). L’esercito fu utilizzato per uccidere Giulio Costanzo, Dalmazio, Optato e Annibaliano e di sicuro anche altri, facendo poi da capro espiatorio per la loro morte. Quelli che non si trovavano in città, come Ablabio, vennero braccati e uccisi da sicari. Costanzo condannò la memoria di Dalmazio, di Giulio Costanzo probabilmente, e forse fra altri, mandando messaggeri ai fratelli per informarli dell’accaduto. In una qualche data tra la fine di giugno e la metà di luglio partì per Sirmio. I piani di Costantino erano completamente falliti.
In Gallia e in Italia Costantino II e Costante diedero effetto immediato alle damnationes memoriae e cessarono di battere moneta per Dalmazio. Costante emise nummi con la scritta secvritas rei pvb sul verso, come se lo Stato fosse appena scampato a qualche pericolo (Dalmazio e Giulio Costanzo o l’esercito ribelle?). Costantino II inaugurò immediatamente i nummi di bronzo con il recto in onore di Elena e Teodora, e dopo il suo arrivo a Sirmio convinse i fratelli a fare altrettanto. Sembra sia stata questa una delle rare volte in cui, malgrado la sua anzianità, riuscì a imporre il suo volere ai due fratelli.
Dopo aver raggiunto il Danubio, Costanzo stornò la minaccia dei sarmati alla testa dell’esercito di Dalmazio e assunse il titolo di Sarmaticus a riconoscimento della vittoria (forse il 27 luglio). Alla fine di luglio incontrò Atanasio a Viminacium, forse ancora durante le operazioni di guerra. In una data ignota, prima del 29 agosto, arrivarono i fratelli, e insieme i tre diedero inizio alla difficile discussione su come dividere l’Impero ora che Dalmazio era morto. Abbastanza inaspettatamente, fu Costantino II a emergere come il più debole dei tre.
Libanio (Or. 59,73-74) ci informa che Costanzo ricevette notizia dell’assedio persiano a Nisibi prima dell’incontro con i fratelli (benché egli retrodati quest’ultimo al tempo dei funerali di Costantino), e Giuliano dice che egli apprese della rivolta in Armenia durante tale incontro (Or. 1,18D-19A). Poiché l’assedio cominciò attorno alla metà di giugno (della rivolta invece non si sa niente), dispacci che viaggiavano alla velocità media di cinquanta miglia al giorno avrebbero avuto bisogno di quasi quattro settimane per raggiungere Costantinopoli e di un altro paio per proseguire fino a Sirmio. Probabilmente viaggiarono ben più veloci, ma è impossibile che siano giunti a Costanzo prima del suo arrivo a Sirmio (supponendo una sua partenza precoce dalla capitale). In ogni caso, quale che fosse la situazione alle frontiere o la rapidità delle comunicazioni, Costanzo non poteva tornare indietro prima che gli affari di Pannonia fossero sistemati e lui stesso fosse diventato Augusto.
Senza dubbio Costanzo si mosse in direzione di Costantinopoli immediatamente dopo la sua promozione il 9 settembre, ansioso di tornare ad Antiochia. Shabur II tolse l’assedio a Nisibi verso la metà di agosto, e la notizia giunse a Costantinopoli al più tardi alla metà di settembre. Sicché alla data del suo arrivo a Costantinopoli, prima dell’ultima settimana del mese, Costanzo aveva già ricevuto la notizia della ritirata dei persiani (come osserva Libanio, Or. 59,75), e poteva perciò rivolgere la sua attenzione altrove. Fece allora ritorno ad Antiochia per preparare la risposta all’invasione di Shabur, essendosi lasciato alle spalle, almeno per quanto lo riguardava, i problemi di successione. Sarebbe stato Costante a dover fare i conti con i propri insuccessi in Pannonia quando Costantino II invase l’Italia all’inizio del 340.
Un’ulteriore chiave di lettura degli eventi del maggio-settembre 337 si potrebbe trovare senza dubbio nell’identità dei consoli scelti per il 338, se sapessimo chi erano. Q. Flavio Mesio Egnazio Lolliano Mavorzio era stato designato per quell’anno da Costantino in un qualche momento prima del maggio 337. A seguito della promozione dei figli di Costantino nel 337, comunque, avrebbe dovuto essere sostituito da due dei nuovi Augusti72. Ma in definitiva né Lolliano né alcuno degli Augusti divenne console. Lo divennero invece Urso e Polemio, che sono quasi completamente sconosciuti: Polemio potrebbe essere lo stesso che compare quale comes sotto Costanzo, ma questo è tutto quello che possiamo dirne. Il fatto che ci siano ignoti e che sostituissero degli imperatori appena nominati nonché un senatore di alto rango – Costanzo e Costante furono consoli nel 339, Lolliano non prima del 355 – rende praticamente certo che, col consolato, essi riscuotessero da parte di Costanzo il premio del loro ‘contributo’ a una promozione senza problemi per i tre figli, anche se non abbiamo idea di che tipo di contributo potesse trattarsi73.
Costantino non fu mai in condizione di garantirsi una successione nelle forme da lui auspicate, e l’aver mancato (o rifiutato?) di promuovere ad Augusto almeno uno dei suoi figli prima di raggiungere la vecchiaia, come gli imperatori avevano fatto dai tempi di Marco Aurelio, finì col mandare a monte non solo il suo piano per la successione, ma la stessa tetrarchia. Malgrado ciò, i vantaggi fondamentali di quel tipo di sistema sopravvissero: il governo di uno solo divenne raro e le due sfere di influenza, orientale e occidentale, si mantennero, anche se alla fine portarono alla scissione dell’Impero. E, per quanto sorprendente ciò possa apparire, nonostante il fallimento del suo progetto di successione Costantino finì per esser parte di una sequenza di tre dinastie, collegate fra loro da alleanze matrimoniali, che avrebbe governato ininterrottamente (a parte la brevissima eccezione di Gioviano) dal 285, con Massimiano, fino al 455 nell’Impero d’Occidente, e fino al 457 in quello d’Oriente: un totale di 172 anni, la più lunga sequenza dinastica della storia romana e una svolta radicale rispetto ai trenta Augusti e Cesari legittimi, più otto scissionisti, e ai trentatré usurpatori sorti tra il 235 e il varo della tetrarchia nel 29374.
1 Si potrebbe sostenere, un po’ cinicamente, che Costantino designò come eredi i suoi figli perché sapeva che il nipote Licinio II non sarebbe mai arrivato al trono. Questa ipotesi non può essere scartata.
2 È unico il caso di Claudio, che aveva un figlio già designato come suo successore quando adottò Nerone. Analogamente Treboniano Gallo adottò, dopo la morte di Decio, l’ultimo nato di quest’ultimo, Ostiliano, anche se aveva un figlio proprio (che a quanto sembra fu contestualmente proclamato Cesare); ma era, questo, un atto inteso a sottolineare la continuità col precedente regime.
3 D. Kienast, Römische Kaisertabelle. Grundzüge einer römischen Kaiserchronologie, Darmstadt 1996.
4 Vespasiano appare solitamente nelle iscrizioni, e sulle monete come Imp. Caesar Vespasianus Augustus, ma si trova spesso la forma più antica Imp. Vespasianus Caesar Augustus nelle iscrizioni e raramente quella Imp. Caesar Augustus Vespasianus sulle monete.
5 I nomi di Marco cambiarono di frequente: da M. Annius Verus a M. Annius Catilius Severus, poi M. Annius Verus (quando fu adottato dal nonno), quindi M. Aelius Aurelius Verus, Aurelius Caesar, infine M. Aurelius Antoninus. Vero passò da L. Ceionius Commodus a L. Aelius Aurelius Commodus e a L. Aurelius Verus.
6 Non vi è prova certa dell’uso di praenomina da parte degli imperatori legittimi, a parte i casi di Diocleziano, Massimiano, Galerio (con molto minore frequenza rispetto ai due Augusti) e Massenzio. Ci si aspetterebbe un ‘Marco’ per Costanzo, ma esso non appare quasi mai (mai nelle monete). Nelle iscrizioni c’è confusione, quanto a Costanzo e Galerio, se fossero un ‘Marco’ o ‘Gaio’ (si veda ILS 637).
7 Il praenomen Gaius appare in un’unica iscrizione (ILS 712) ed è probabilmente un errore. In iscrizioni e monete Crispo è spesso chiamato anche ‘Valerio’: altro errore, benché comprensibile.
8 È improbabile che egli considerasse alla stessa stregua i Severi, dato che Elagabalo e Severo Alessandro erano cugini e la loro nonna era sorella di madre di Caracalla e di Geta. Si trattava in ogni caso di un precedente non molto degno di essere reclamizzato.
9 Aurelio Vittore lascia intendere che Giulio era un nome di famiglia, là dove afferma che prima della sua proclamazione come Cesare nel 293 il nome di Costanzo I era Giulio Costanzo (XXXIX 24). Deve trattarsi di un errore basato sulla sua conoscenza dei due Giulio Costanzo successivi. L’averlo concesso a Elena mostra come esso fosse nome dinastico e non di famiglia.
10 RIC VII Trier 203, 207, p. 180; Arles 173, 176, p. 252; Roma 106, 109, 112, 115-116, 119, 122, 125, 128, pp. 310-312; Aquileia 23, 26, pp. 394-395; Siscia 43, 45, pp. 429-430; Thessalonica 26, pp. 502-503.
11 Questi è regolarmente chiamato Flavius Valerius Constantius nelle monete coniate a Roma tra il 324 e il 330, e per brevissimo tempo in quelle delle zecche di Londra, delle Gallie e di Tessalonica; ma si tratta di un errore (si veda RIC VII, p. 30), comprensibile se si considera l’uso invariabile del ‘Valerio’ da parte della tetrarchia e di Massenzio tra il 284 e il 312.
12 T.D. Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Cambridge (MA) 1982, p. 9. La seconda moglie di Costanzo, Teodora, ebbe il nome di Flavia Maxima Theodora sulle monete coniate nel 337, ma non c’è evidenza del fatto che essa abbia mai detenuto il rango di Augusta o questi stessi nomi prima di quella emissione monetaria; potrebbero quindi esserle stati attribuiti come onori postumi.
13 Ivi, pp. 83-84.
14 Ivi, pp. 8 n. 30, 84; D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., p. 306. In generale cfr. P. Guthrie, The Execution of Crispus, in Phoenix, 20 (1966), pp. 325-331; H.A. Pohlsander, Crispus: Brilliant Career and Tragic End, in Historia, 33 (1984), pp. 79-106; R.M. Frakes, The Dynasty of Constantine Down to 363, in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lenski, Cambridge 2006, pp. 94-95; e specialmente T.D. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Oxford 2011, pp. 144-150.
15 Ci si riferisce a Giuliano come princeps iuventutis in alcune iscrizioni successive alla sua elevazione ad Augusto (si veda ad esempio ILS 750). Dopo il 337 l’uso del titolo come legenda del verso nelle monete, così frequente nei precedenti cento anni circa, si esaurisce quasi del tutto. Lo si ritrova solo a Treviri tra il 337 e il 340, in una piccola emissione di silique per Costantino II, Costanzo II e Costante quali Augusti (RIC VIII Trier 33-35, p. 142); in rarissimi miliarenses leggeri per Decenzio nel 351 e per Magnenzio e Decenzio nel 352 (ivi, Trier 298, 302-303, pp. 161-162); infine in solidi per celebrare l’ascesa di Graziano ad Augusto nel 368, con principium iuventutis nel verso, dalle zecche di Treviri (RIC IX Trier 13, p. 16), Costantinopoli (24, p. 217), Nicomedia (14, p. 253), e Antiochia (19, p. 277). Nulla ne è riportato in RIC X. Queste occorrenze possono essere confrontate col crescente numero di esempi censiti dagli indici di RIC, specialmente a partire dall’inizio del III secolo: RIC I, p. 289; RIC II, p. 551; RIC III, p. 494; RIC IV.1, p. 386; RIC IV.2, p. 205; RIC IV.3, p. 229; RIC V.1, 411; RIC V.2, p. 680; RIC VI, p. 703; e RIC VII, pp. 746-747.
16 Questa sezione e la successiva si basano su R.W. Burgess, ’Αχυρών or Προάστειον? The Location and Circumstances of Constantine’s Death, in Journal of Theological Studies, n.s. 50 (1999), pp. 153-161; Id., The Summer of Blood: The «Great Massacre» of 337 and the Promotion of the Sons of Constantine, in Dumbarton Oaks Papers, 62 (2008), pp. 5-51 (= R.W. Burgess, Chronicles, Consuls, and Coins: Historiography and History in the Later Roman Empire, Variorum Collected Studies Series 984, London 2011, papers IX and X); e Id., Studies in Eusebian and Post-Eusebian Chronography, Historia Einzelschriften 135, Stuttgart 1999, pp. 221-232. I lettori interessati a maggiori dettagli e annotazioni più complete possono consultare queste analisi nella versione originale. Si veda anche T.D. Barnes, Constantine, cit., pp. 163-168.
17 T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge (MA) 1981, p. 251. Un più anziano Annibaliano (PLRE I: 407, s.v. Hannibalianus 1; T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 37), terzo fratellastro di Costantino, sembra sia morto prima, tra il 333 e il 335 circa.
18 PLRE I, s.v. Dalmatius 6, pp. 240-241; T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 105.
19 PLRE I, s.v. Constantius 7, p. 226; T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 108.
20 PLRE I, s.v. Anonyma 1, p. 1037; T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 45; D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., p. 317.
21 PLRE I, s.v. Constantina 2, p. 222; D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., p. 318.
22 PLRE I, s.v. Hannibalianus 2, p. 407; T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 43; D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., p. 308.
23 Si veda T.D. Barnes, Constantine, cit., pp. 171-172.
24 PLRE I, s.v. Dalmatius 7, p. 241; T.D. Barnes, The New Empire, cit., pp. 8, 45; D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., p. 307.
25 T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 8, n. 28; D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., pp. 307 e 308.
26 PLRE I, s.v. Hannibalianus 2, p. 407; D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., p. 308. Per il titolo, si vedano Anonymus Valesianus VI 35 e Polemio Silvio, Laterculus I 63 (MGH CM IX, 1,522). Egli è chiamato semplicemente rex nelle monete, che furono coniate solo a Costantinopoli (RIC VII Constantinopoli 100 e 145-148, pp. 584 e 589-590).
27 Per i piani tetrarchici di Costantino si veda H. Chantraine, Die Nachfolgeordnung Constantins des Großen, in Abhandlungen der geistes- und sozialwissenschaftlichen Klasse der Akademie der Wissenschaften und der Literatur, 7 (1992), pp. 3-25. Si veda anche R.W. Burgess, Summer of Blood, cit., Appendix 1, pp. 43-45.
28 Si veda G. Wirth, Hannibalien: Anmerkungen zur Geschichte eines überflüssigen Königs, in Bonner Jahrbücher, 190 (1990), pp. 201-232.
29 PLRE I, s.v. Olympias 1, p. 642; T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, cit., p. 252; Id., The New Empire, cit., p. 45; D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., p. 313. Il nome Flavius, noto solo da un’iscrizione del 337 e da papiri che registrano il suo consolato del 331 (PLRE 1, p. 3), gli fu probabilmente conferito da Costantino contestualmente al fidanzamento.
30 T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, cit., pp. 251-252; e Id., The New Empire, cit., p. 198.
31 Barnes la data non prima del 324: T.D. Barnes, Constantine and the Christians of Persia, in Journal of Roman Studies, 75 (1985), p. 132.
32 T.D. Barnes, The Sources of the Historia Augusta, Bruxelles 1978, pp. 114-123, specialmente le pp. 119-120 su Eunapio, Zosimo e l’Epitome.
33 Si veda R.W. Burgess, Studies in Eusebian and Post-Eusebian Chronography, cit., p. 200.
34 Si veda T.D. Barnes, Constantine, cit., pp. 166-167.
35 Per le fonti che fanno riferimento a questa invasione persiana, si veda R.W. Burgess, Studies, cit., pp. 221, 224, 225 e 227-229.
36 Ivi, pp. 203-204.
37 Per le varie tradizioni sul battesimo di Costantino, si vedano le eccellenti analisi di F.J. Dölger, Die Taufe Konstantins und ihre Probleme, in Konstantin der Grosse und seine Zeit. Gesammelte Studien, Freiburg 1913, pp. 377-447, e G. Fowden, The Last Days of Constantine: Oppositional Versions and their Influence, in Journal of Roman Studies, 84 (1994), pp. 153-170.
38 Per questa data, conservata in molte fonti diverse da Eusebio, si vedano T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 80; e D. Kienast, Römische Kaisertabelle, cit., p. 297.
39 Per Pythia ed Helenopoli, si vedano Barrington Atlas of the Greek and Roman World, ed. by R.J.A. Talbert, Princeton-Oxford 2000, p. 52, E3 e F3, e C. Mango, The Empress Helena, Helenopolis, Pylae, in Travaux et Mémoires, 12 (1994), pp. 141-146, 157.
40 Per Simeone Logoteta si veda Symeonis magistri et Logothetae Chronicon, hrsg. von S. Wahlgren, Berlin-New York 2006. Le fonti di Simeone non possono essere fatte risalire più indietro di un testo menzionato come l’Epitome, datato congetturalmente all’inizio dell’ottavo secolo (si veda Studies in John Malalas, ed. by E. Jeffreys, B. Croke, R. Scott, Sydney 1990, pp. 46-47, 263). Il testo di Simeone è riportato fedelmente dalle opere di numerosi storici successivi, in particolare Leone Grammatico, Teodosio Meliteno e Cedreno, nonché in una traduzione in antico slavo ecclesiastico (si vedano le due note seguenti per le relative edizioni).
41 Georgius Cedrenus, hrsg. von I. Bekker, 1, Bonn 1838, p. 519; Leonis Grammatici Chronographia, hrsg. von I. Bekker, Bonn 1842, p. 87; G. Fowden, The Last Days, cit., p. 150.
42 Slavjanskij perevod chroniki Simeona Logotheta, a cura di V.I. Sreznevskij, Sankt-Petersburg 1905 (rist. Londra 1971), p. 41; e Theodosii Meliteni qui fertur Chronographia, hrsg. von T.L.F. Tafel, Monumenta saecularia III,1, Münich 1859, p. 63.
43 Stephan von Byzanz. Ethnika, hrsg. von A. Meineke, Berlin 1849 (rist. Graz 1958). Per Charax, si veda RE III,2, c. 2121, s.v. Charax 6.
44 Si veda Barrington Atlas, cit., p. 52, F3.
45 Nella mia analisi originaria, avevo commentato un riferimento al sarcofago di Costantino (R.W. Burgess, Studies, cit., p. 225), ma tale passo è stato espunto dal testo come aggiunta tardiva da Wahlgren (si veda nota 40).
46 Si vedano R.W. Burgess, Principes cum tyrannis: Two Studies on the Kaisergeschichte and its Tradition, in Classical Quarterly, 43 (1993), pp. 491-500; Id., On the Date of the Kaisergeschichte, in Classical Philology, 90 (1995), pp. 111-128; Id., Jerome and the Kaisergeschichte, in Historia, 44 (1995), pp. 349-369; Id., A Common Source for Jerome, Eutropius, Festus, Ammianus, and the Epitome de Caesaribus between 358 and 378, along with further thoughts on the date and nature of the Kaisergeschichte, in Classical Philology, 100 (2005), pp. 166-192 (= R.W. Burgess, Chronicles, cit., papers IV-VII), per l’analisi e la bibliografia.
47 Kaisergeschichte = «in Persas tendens, a quis bellum erumpere occeperat, rure proximo Nicomediae – Achyronam vocant – excessit» (Aurelio Vittore XLI 16) + «bellum adversus Parthos moliens, qui iam Mesopotamiam fatigabant [...] Nicomediae in villa publica obiit» (Eutropio X 8,2) + «Constantinus cum bellum pararet in Persas in Acyrone villa publica iuxta Nicomediam moritur» (Girolamo, Chronici canones 234b).
48 W. Burgess, Studies, cit., p. 168.
49 Girolamo (Chronici canones, 234A), il Chronicon Paschale (Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, p. 532) e Teofane (ed. de Boor, p. 33) derivano dalla Continuatio, e molti resoconti successivi derivano da Teofane.
50 Per Agapio, si veda Kitab al-‛Unvan. Histoire Universelle, écrite par Agapius Mahboub de Menbidj, éd. par A. Vasiliev, 2, PO, 7, (1911), pp. 459-591.
51 Il passaggio da «Eusebio di Nicomedia» all’inesistente «Eusebio di Roma», come dimostrato da Fowden (The Last Days, cit., pp. 158-162), presuppone ovviamente una generica conoscenza del ruolo di Eusebio nel battesimo.
52 XIII 14, ed. Thurn, pp. 248-249.
53 G. Fowden, The Last Days, cit., pp. 146-153.
54 R.W. Burgess, Studies, cit., pp. 232-238.
55 R.W. Burgess, Summer of Blood, cit., p. 13.
56 Per la favola di un avvelenamento di Costantino da parte dei suoi fratellastri, cui si è dato credito con sorprendente frequenza ma che altro non è se non propaganda ariana, si veda R.W. Burgess, Summer of Blood, cit., pp. 19-21.
57 Il riferimento al προάστειον in Socrate (I 39,2; si veda sopra) può derivare da Eusebio ed è stato perciò omesso in questa sede.
58 H.W. Bird, The Breviarium Ab Urbe Condita of Eutropius, Translated Texts for Historians 14, Liverpool 1993, p. 66; e G. Fowden, The Last Days, cit., p. 149. È descritto in RE I, c. 2222, come «Villa Constantins d. Gr. bei Nikomedien», benché la parola greca sia riferita come ’Αγκυρῶν (‘Le Ancore’).
59 Un BIOΣ di Costantino, a cura di M. Guidi, in Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche, quinta serie, vol. 16 (1907), pp. 304-340, 637-662. Il riferimento ai paragrafi deriva dalla traduzione di questa Vita per mano di F. Beetham, D. Montserrat e S. Lieu in From Constantine to Julian: Pagan and Byzantine Views, ed. by S.N.C. Lieu, D. Montserrat, London-New York 1996, pp. 106-142.
60 Vale la pena di citare solo qualche esempio su Roma, riportati da L. Richardson jr, A New Topographical Dictionary of Ancient Rome, Baltimore 1992, dove molti altri possono esserne trovati: Bucinum (‘conchiglia di strombo’, una piazza o una località nella Regio IV); Septem Caesares (‘I Sette Cesari’, distretto sconosciuto); Ad capita bubula (‘Alle Teste di Vacca’, località della Regio Palatina); Caput Africae (‘Capo d’Africa’, un paedagogium per schiavi della famiglia imperiale); Doliola (‘Piccole Brocche’, località lungo la Cloaca Massima); Lacus Orphei (‘Lago d’Orfeo’, un teatro sull’Esquilino nella Regio V denominato da una statua di Orfeo); Mica Aurea (‘Briciola d’Oro’, un ristorante-tenda nella Regio II); Parthorum (‘Dei Parti’, un caseggiato nella Regio XII); Sessorium (‘Il Salotto’, un complesso imperiale di palazzi dal carattere di villa nella Regio V).
61 J. Matthews, The Roman Empire of Ammianus, London 1989, p. 401. In generale, si veda ivi, pp. 397 e 401; per un periodo precedente F. Millar, The Emperor in the Roman World, London 1977, pp. 16, 24-28 e 40-42.
62 Sull’Hebdomon si veda The Oxford Dictionary of Byzantium, ed. by A.P. Kazhdan, Oxford 1991, p. 907.
63 Questo è ordinariamente chiamato «suburbio» di Nicomedia, ma è correttamente descritto da H.-G. Opitz nel suo Athanasius Werke 2.1: Die Apologien, Berlin-Leipzig 1935, p. 141, n. 2, come un kaiserliches Gut bei Nicomedien. Il nome è menzionato anche da Atanasio (da cui deriva Socrate), apol. sec. LX 4 e LXV 4 (pp. 141 e 144 del succitato volume di Opitz), sebbene senza essere qualificato come προάστειον. Come si può dedurre da RE 171, col. 489, un insediamento vero e proprio nello hinterland di una città (ciò a cui oggi ci riferiamo come a un suburbio) era quasi sempre chiamato una κώμη.
64 Così, seguendo la lezione del testo di Fotheringham (p. 312), non quella di Helm (230D), che è erronea su questo punto. Per queste edizioni si veda R.W. Burgess, Jerome Explained: An Introduction to his Chronicle and a Guide to its Use, in Ancient History Bulletin, 16 (2002), p. 9 (= R.W. Burgess, Chronicles, cit., Paper III).
65 Si vedano Lattanzio, mort. pers. VII 8-10, e F. Millar, The Emperor, cit., pp. 51-54; per Diocleziano, si veda T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, cit., pp. 6, 24, 25, 147; per Massimino, ivi, pp. 40, 63; per Licinio, ivi, pp. 64, 68, 70-71, 77; per Costantino, ivi, pp. 74, 77, 212, 219; e T.D. Barnes, New Empire, cit., su Diocleziano, p. 49; Massimino, p. 65; Costantino, p. 69; Licinio, p. 80.
66 Matthews cita altri due esempi, si veda The Roman Empire, cit., p. 401.
67 La destinazione finale della sepoltura di Costantino è materia di controversia fra gli studiosi e oltrepassa l’ambito di questo saggio. Un inquadramento generale della discussione può trovarsi in M.J. Johnson, The Roman Imperial Mausoleum in Late Antiquity, Cambridge 2009, pp. 119-129, e in J. Bardill, Constantine, Divine Emperor of the Christian Golden Age, Cambridge 2012, pp. 367-376, 380-384.
68 Questa sezione è un sunto della lunga e complessa analisi e discussione svolta in R.W. Burgess, Summer of Blood, cit., che non è possibile esporre nello spazio limitato del presente contributo. Per la giustificazione delle conclusioni qui presentate, si rimanda il lettore alla consultazione del saggio citato.
69 Si veda J.-R. Palanque, Collégialité et partages dans l’Empire romain aux IVe et Ve siècles, in Revue des ètudes anciennes, 46 (1944), pp. 54-55. Si vedano anche N. Lienski, The reign of Costantine, in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, cit. p. 62; e T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, cit., pp. 28-29, entrambi in riferimento all’ascesa al trono di Costantino.
70 T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 198. Giuliano (Or. I 19A-20A e Or. II 94B-C) dice piuttosto chiaramente che la divisione dell’Impero era la questione più importante sul tavolo quando i fratelli riuscirono finalmente a incontrarsi in Pannonia. Costanzo, concentrato sulla frontiera orientale fin dal 335, sarebbe stato contento di cedere la difficile frontiera danubiana a Costante. Costantino II, al contrario, come Augusto seniore, era meno entusiasta di aver perso l’Italia, come in seguito dimostrò.
71 Se il massacro si fosse verificato altrove, la scusa ovvia sarebbe stata che Costanzo, non essendo fisicamente presente, non era stato in grado di impedire le iniziative dell’esercito: come avrebbe potuto? L’«inganno» che Giuliano menziona indica anche la stretta vicinanza fra Costanzo e l’esercito.
72 Ogni volta che fu possibile, gli imperatori assunsero il consolato nel primo anno pieno dopo la loro ascesa al trono (se non prima); si veda R.W. Burgess, “Non duo Antonini sed duo Augusti”: The Consuls of 161 and the Origins and Traditions of the Latin Consular Fasti of the Roman Empire, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 132 (2000), p. 284 n. 95 (= R.W. Burgess, Chronicles, cit., Paper XV).
73 PLRE I, s.v. Polemius 5, p. 710, e s.v. Ursus 4, p. 989. Barnes ritiene che essi fossero generali dell’esercito, il che è plausibile ma non comprovato né su questo punto né sulle altre identificazioni che egli propone: T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, cit., p. 262 con la nota 17, pp. 398-399; e T.D. Barnes, Constantine, cit., pp. 168-170 con la nota 39, p. 221. Si veda anche R.S. Bagnall et al., Consuls of the Later Roman Empire, Atlanta 1987, pp. 13-14, 19 e 210-211, benché io non concordi con alcuna delle loro interpretazioni, se si esclude il rilievo sulla debolezza di Costantino II.
74 Graziano sposò Costanza, la figlia di Costanzo II, imparentando così le dinastie dei Costanzi e dei Valentiniani, come fece anche il matrimonio di Valentiniano I con Giustina, nipote di Giulio Costanzo e Galla (si veda R.M. Frakes, The Dynasty, cit., pp. 97-98). La figlia di Valentiniano, Galla, sposò Teodosio I, costituendo un legame tra la dinastia dei Valentiniani e quella dei Teodosiani, mentre la loro figlia Galla Placidia fu la madre di Valentiniano III, assassinato nel 455, e la nonna di Placidia, che andò sposa a Olibrio, che fu brevemente imperatore nel 472. Il nipote di Teodosio, Teodosio II, morì nel 450; la nipote Pulcheria sposò Marciano, che morì nel 457.