morte delle lingue
mòrte delle lìngue. – Si può dire che una lingua muoia quando muore il suo ultimo parlante. Così fu per esempio per il dalmatico, lingua romanza un tempo parlata nella zona costiera e insulare oggi compresa tra la Croazia e il Montenegro, il cui ultimo parlante morì nel 1898; lingua che oggi conosciamo grazie alla descrizione del linguista Matteo Bartoli, il quale proprio da quell’ultimo parlante ne raccolse i suoni e le forme. In condizioni simili a quelle del dalmatico di fine Ottocento si trovano – agli inizi del 21° secolo – almeno 473 lingue minoritarie distribuite in tutti e cinque i continenti: il sito Ethnologue le considera in via di estinzione (nearly extinct) perché parlate soltanto da poche persone anziane. Ma molte di più sono le lingue che si possono considerare in pericolo (endangered): l’edizione online dell’Atlas of the world’s languages in danger realizzato dall’United Nations educational, scientific and cultural organization, UNESCO (aggiornato al 2011) stima che su circa 6000 lingue parlate nel mondo almeno il 30% si trovi a diversi livelli di rischio e il 10% sia comunque da considerarsi vulnerabile. Si tratta di stime approssimative, vista la difficoltà di delimitare i confini tra lingue e varietà e di censire idiomi dalla scarsissima diffusione e documentazione; ma più che sufficienti a destare preoccupazione. La morte delle lingue è un fenomeno che si è sempre verificato nel corso della storia quando una comunità di parlanti è venuta meno in seguito a eventi catastrofici (terremoti, epidemie, carestie, genocidi) o è progressivamente passata a un’altra lingua, sulla spinta di cambiamenti epocali legati a conquiste e colonizzazioni, a persecuzioni politico-religiose o a mutate condizioni socioculturali. L'orientamento degli studiosi, però, è che a partire della metà del secolo scorso il processo abbia subito un’accelerazione sempre maggiore, dovuta alla pressione del modello culturale occidentale e della sua lingua veicolare: l’inglese. Negli ultimi decenni, i fenomeni legati alla cosiddetta globalizzazione (degli scambi economici e dei mezzi di comunicazione) avrebbero reso la situazione via via più critica. Secondo i dati diffusi dall’UNESCO (basati su una ricerca del 1996), il 97% della popolazione mondiale parlerebbe appena il 4% delle lingue del mondo; per contro, il 96% delle lingue sarebbe parlato da appena il 4% della popolazione mondiale: entro la fine del 21° secolo il numero delle lingue parlate al mondo potrebbe ridursi a quasi la metà. A partire dal 2000, anno in cui viene celebrata la prima Giornata internazionale della lingua madre, sono state pertanto intraprese iniziative in difesa della diversità linguistica: la glottodiversità, considerata (alla stregua della biodiversità) una ricchezza fondamentale del nostro pianeta, poiché ogni lingua offre una testimonianza unica e irripetibile di una cultura e di un popolo. «È urgente agire perché la comunità internazionale s’impegni in favore del multilinguismo e della diversità linguistica», si legge nel manifesto in cui si proclama il 2008 Anno internazionale delle lingue. Un punto di vista condiviso e promosso da molti linguisti di diversa provenienza e orientamento, tra cui il sinologo francese Claude Hagège, che con il libro Halt à la mort des langues (2000; trad. it. Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, 2002) ha posto la questione al centro del dibattito culturale internazionale, procurandole un’ampia attenzione mediatica. Dal 2001 al 2003 un gruppo di studiosi coordinato dall’UNESCO ha lavorato a un sistema di valutazione della vitalità delle lingue che si fonda su sei fattori principali: la trasmissione delle lingue da una generazione all’altra; il numero assoluto dei parlanti; il tasso dei parlanti di una lingua sull’insieme della popolazione; l’uso di una lingua nei diversi campi della vita pubblica e privata; la reazione di una lingua rispetto ai nuovi campi della comunicazione e ai nuovi media; la disponibilità di materiale per l’apprendimento e l’insegnamento di una lingua. Riguardo al penultimo di questi punti, un fattore critico per il futuro è la fortissima sproporzione che si registra tra le varie lingue usate in Internet. Stando ai dati di Internet world stats (relativi al marzo 2011), i parlanti di lingua inglese (circa il 27%) e cinese (circa il 25%) rappresentano da soli oltre la metà degli utenti complessivi della rete; inoltre l’insieme delle dieci lingue più parlate (si aggiungono – a notevole distanza – spagnolo, giapponese, portoghese, tedesco, arabo, francese, russo e coreano) supera l’82%. Pertanto i parlanti di tutte le altre lingue rappresentano complessivamente meno di un quinto della popolazione che comunica in Internet (fenomeno riconducibile per molti casi al digital divide: il ritardo accumulato da molti paesi – e interi continenti, come l’Africa – nell’alfabetizzazione digitale). Il dominio dell’inglese è ancora più evidente se si considera la lingua in cui sono trasmessi i contenuti sul web: dati forniti da W3techs riguardanti il 2012 stimano che più della metà di tutti i siti disponibili sia scritta in inglese (54,9%) e le sette lingue più usate coprano insieme quasi l’85% (oltre all'inglese – nell’ordine – tedesco, russo, spagnolo, francese, giapponese, cinese; l’italiano si trova al decimo posto, con una stima dell’1,6%). Peraltro attraverso Internet passano alcuni tentativi di reagire a questo processo di estinzione. Una tribù di nativi che vive tra gli Stati Uniti e il Canada, ridotta ormai a poco più di 2000 unità, per tentare di preservare la sua lingua – il Ktunaxa (o Kutenai), compreso da circa 400 persone, ma parlato solo da una dozzina – ha cominciato nel 2012 a mettere in rete registrazioni, giochi interattivi e altro materiale didattico: per favorire l'interesse dei giovani.