moralità (moralitade)
Il termine ricorre in Pg XVIII 69, Cv II XV 6, III XV 11 e 12, IV VI 16. La dottrina morale di D., sebbene sparsa in tutti i suoi scritti, è contenuta principalmente nel Convivio, nella Monarchia e nella Commedia. Infatti, il Convivio è un'opera nella quale l'autore pretende porgere ai nobili una serie di norme e di insegnamenti utili per la loro vita (I I, VIII, IX). Lo scopo della Monarchia è di dimostrare la necessità dell'Impero universale, indipendente nella propria sfera temporale per il raggiungimento della felicità terrena. Della Commedia, poi, dice espressamente il poeta: genus vero phylosophiae sub quo hic in toto et parte proceditur, est morale negotium, sive ethica (Ep XIII 40). Essa si può sintetizzare nel modo seguente.
L'uomo, soggetto della morale. - L'uomo, che comprende in sé ciascuno dei quattro gradi di esseri inferiori (elementi semplici, minerali, piante, animali bruti), ne possiede anche gl'istinti, oltre a quello specificamente umano (Cv III III 2-11, Pg XVIII 28-30, Pd I 103-120). Ora, poiché le cose deono essere denominate da l'ultima nobilitade de la loro forma... quando si dice l'uomo vivere, si dee intendere l'uomo usare la ragione (Cv II VII 3 e 4, Mn I III 6); la tendenza connaturale all'uomo è per le perfette e oneste cose (Cv III III 5), ossia per la verità e la virtù (III III 11).
Ora, l'uomo, che solo tra gli esseri sensibili possiede la ragione (Cv III VII 8), è dotato anche di libero arbitrio (XIV 9). In forza di questa libertà, che è una proprietà della volontà, egli, nonostante gl'influssi celesti, può, in ogni circostanza, agire secondo scelte libere e consapevoli. Tale prerogativa, che è il suo massimo titolo di grandezza (la nobile virtù, Pg XVIII 73), gli è stata conferita da Dio ed è, come D. stesso si esprime, maximum donum humanae naturae a Deo collatum (Mn I XII 6), il maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontade / più conformato, e quel ch'e' più apprezza (Pd V 19-21). Da siffatta libertà deriva la responsabilità e pertanto la m. delle azioni, a seconda della loro conformità o meno con la norma morale: nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade (Cv I II 6), e ancora: color che ragionando andaro al fondo, / s'accorser d'esta innata libertate; / però moralità lasciaro al mondo (Pg XVIII 69). Di conseguenza, l'uomo è degno di loda e di vituperio solo in quelle cose che sono in sua podestà di fare o di non fare (Cv III IV 6).
D'altra parte, l'uomo, appunto perché sollecitato da beni diversi, talvolta fallaci, può anche deviare dalla retta via: di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore (Pg XVI 91-93). Ed è precisamente per questo che ciascuno ha la virtù della prudenza: innata v'è la virtù che consiglia, / e de l'assenso de' tener la soglia (XVIII 62-63). I battezzati, poi, secondo la capacità di ognuno, ricevono da Dio i sette doni dello Spirito Santo, che operano in loro, purché ciascuno s'ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni (Cv IV XXI 11-14).
Il libero arbitrio, base e fondamento della m., occupa un posto importantissimo nel pensiero di Dante. La dottrina che lo riguarda, pur presente in tutti i suoi scritti (importante assai per il nostro argomento è Mn I XII), riceve il suo sviluppo maggiore, per la parte filosofica, per opera di Virgilio proprio nei canti centrali della seconda cantica (XVI, XVII, XVIII) e quindi di tutto il poema, per essere poi ripresa e completata, per quanto riguarda l'aspetto teologico, da Beatrice stessa (Pd V). Da esso dipende l'ordinamento morale dell'Inferno e del Purgatorio (senza di esso non fora giustizia / per ben letizia, e per male aver lutto, Pg XVI 71-72). Non per nulla D., che nella selva selvaggia aveva l'uso del libero arbitrio impedito, si sentirà dire da Virgilio, dopo aver compiuto la sua purificazione spirituale: libero, dritto e sano è tuo arbitrio (XXVII 140). E lo stesso concetto di responsabilità, e pertanto di merito, come ricorda Giustiniano, sta alla base della distribuzione dei beati nel Paradiso: nel commensurar d'i nostri gaggi / col merlo è parte di nostra letizia, / perché non li vedem minor né maggi (Pd VI 118-120).
La scienza morale. - La scienza o filosofia morale regola le azioni umane e perciò dispone l'uomo allo studio e all'acquisto delle altre scienze. Per queste sue proprietà essa si può paragonare al nono cielo o Primo Mobile, il quale per l'appunto imprime ai cieli inferiori il proprio moto (Cv II XIII 8, XIV 14-18, III XI 17). Ora, la scienza morale studia l'agire umano in generale e in particolare, poi, le singole virtù.
Gli atti umani. - Occorre anzitutto distinguere tra atti puramente ‛ naturali ', come l'operazione digestiva, e atti che subiacciono a la ragione e a la volontade. Solo questi ultimi sono da dirsi ‛ umani '. Un'ulteriore distinzione va fatta tra l'azione vera e propria, che dipende dalla nostra volontà, e l'attività meramente mentale o speculativa che, pur scoprendo le leggi delle varie scienze, non le crea (Cv IV IX 4-7, Mn I II 5). L'atto umano, finalmente, perché possa considerarsi tale, dev'essere compiuto da persona di mente fisicamente sana (D. qui non tiene conto di quelle aberrazioni che egli pur chiama orribili infermitadi della mente [Cv IV XV 12]: la iattanza, la pusillanimità e la leggerezza); non sono, perciò, responsabili delle loro azioni né i mentecatti, né i frenetici (§ 17).
Le virtù morali e intellettuali. - La virtù morale è un abito elettivo buono, posto nel mezzo tra due vizi contrari, uno dei quali pecca per eccesso, l'altro per difetto (Cv IV XVII). Essa ha, per ultima sua origine, l'istinto naturale da D. chiamato ‛ amore ' (amor è sementa in voi d'ogne virtute, Pg XVII 104). Le virtù morali sono propiissimi nostri frutti... però che da ogni canto sono in nostra podestade (Cv IV XVII 2). Sono, secondo la divina sentenza d'Aristotile (§ 3), undici, e cioè Fortezza, Temperanza, Liberalità, Magnificenza, Magnanimità, Amativa d'onore, Mansuetudine, Affabilità, Verità, Eutrapelia e Giustizia (§§ 4-12).
Di alcune di queste D. tratta anche altrove. Così della pronta liberalitade, che comporta dare a molti delle cose utili, e spontaneamente, discorre a lungo indicandola come un motivo che l'ha spinto a scrivere il Convivio in volgare (Cv I VIII, IX). Per la verità, poi, egli ha un culto speciale: essa va sempre seguita e difesa a qualunque costo, Dio è il ver... di fuor dal qual nessun vero si spazia (Pd IV 126); si veda soprattutto Cv I III 6, II VIII 14, III XIV 8, IV VIII 15, Mn III I 3, Ep XI 11, Quaestio 1 e 2, Pd IV 124-132, X 138, XVII 100-142, XXVIII 106-108).
Uguale culto D. ha per la giustizia, la quale, per risiedere ne la parte razionale o vero intellettuale dell'uomo, cioè ne la volontade, è la virtù più caratteristicamente umana e pertanto la più amabile (Cv I XII 9 e 10). Appunto per queste sue qualità D. si era proposto di trattarne più ampiamente nel XIV e penultimo trattato del Convivio (I XII 12, IV XXVII 11). Se il Convivio non fu mai compiuto, D., nella Monarchia, studiò il concetto di giustizia sia nella mente di Dio (II II, VII) che nella società, nella quale ultima è da lui ritenuta inattuabile senza un'autorità temporale universale (I XI). Questo secondo aspetto, poi, D. ha sempre presente nelle quattro epistole politiche (V, VI, VII, XI). Ma è soprattutto nella Commedia che l'argomento riceve il suo pieno sviluppo. Anche qui, come già nella Monarchia, il poeta dà alla sua dottrina una base rigorosamente teologica: cotanto è giusto quanto a lei [la volontà divina] consuona (Pd XIX 88). La giustizia, perciò, che consiste nel dare a ciascuno ciò che gli spetta (Mn I XI 7), costituisce il criterio fondamentale per l'assegnazione della pena o del premio ai trapassati dei tre regni d'oltretomba ed è, di conseguenza, il perno di tutto il poema. La terza cantica, poi, è tutto un inno alla giustizia e alla carità la quale, come D. afferma altrove (Mn I XI 13), l'affina e l'illumina, acuit atque dilucidat. Particolarmente solenni risultano infatti i tre canti (XVIII, XIX, XX) dedicati alla sosta del poeta e Beatrice con le anime dei giusti nel cielo di Giove. Qui D., dopo aver affermato la dipendenza dall'influsso celeste della giustizia umana, invoca, in una preghiera appassionata, l'intercessione dei beati come unico rimedio ai mali della terra (XVIII 115-126).
A queste undici virtù morali si può aggiungere, in quanto loro conduttrice, anche la prudenza. Aristotele, tuttavia, assegna questa alle virtù intellettuali: prudenza, sapienza, intelletto, scienza (Cv IV XVII 8). Inoltre, per operare virtuosamente, sono necessarie le quattro virtù cardinali: prudenza (già annoverata tra le intellettuali) e, inoltre, temperanza (su questa virtù D. si riprometteva di ritornare nel settimo trattato del Convivio: cfr. IV XXVI 8), fortezza e la già ricordata giustizia (IV XXII 11). Parimenti la prudenza e la giustizia sono indispensabili per essere liberali (XXVII 13).
Le virtù morali, finalmente, ‛ paiono ' essere e ‛ sono ' più comuni e più sapute e più richieste, nelle persone, che non le intellettuali (Cv IV XVII 12).
La nobiltà. - La buona e abituale elezione, da cui proviene ogni virtù morale, viene chiamata da D. ‛ nobiltà ' (Cv IV XVIII). Questa nobiltà è causa sia delle virtù morali, sia delle intellettuali, sia delle buone disposizioni naturali (pietà e religione), sia ancora delle laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e molte altre (in III VIII 10 vengono ricordate come passioni propie de l'anima umana grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna). Nella nobiltà risplendono anche le corporali bontadi, cioè bellezza, fortezza e quasi perpetua valetudine (IV XIX 5). Articolandosi, poi, per le virtù morali e intellettuali, la nobiltà indirizza ciascuna di esse alla propria perfezione; le intellettuali, in particolare, al momento della morte corporale, accompagnano l'anima che torna a Dio (XXIII 3). La nobiltà è un dono di Dio, proporzionato alle capacità recettive delle singole anime (seme divino ne la umana anima graziosamente posto, XXIX 3) ed è pertanto semente di felicitade (XX 9). La virtù, poi, che deve regolare i moti delle passioni, si chiama anche ‛ bontà ', appellativo che si applica pure alla nobiltà (XX).
Benché la nobiltà debba risplendere durante tutta la vita umana, ci sono tuttavia alcune virtù proprie delle varie età. All'adolescenza (fino al venticinquesimo anno di età) si addicono l'ubbidienza, la soavità, la vergogna (‛ passione ' che comprende lo stupore, il pudore e la verecondia) e, inoltre, l'adornezza corporale (XXIV 11) o bellezza; alla giovinezza (dai 25 ai 45 anni), la temperanza, la fortezza, l'amore, la cortesia, la lealtà; alla ‛ senettute ' o ‛ cenetta ' (dai 46 ai 70 anni), la prudenza, la giustizia, la liberalità e l'affabilità; giunto alla quarta e ultima età, l'uomo deve tornare a Dio e ‛ benedire ' lo cammino che ha fatto, però che è stato diritto e buono sanza amaritudine di tempesta (XXVIII 2 cfr. XXIV-XXVIII).
Le virtù teologali. - Le tre virtù teologali, fede speranza e carità, vengono infuse nell'anima col battesimo. Se ne richiede l'esercizio per raggiungere la visione beatifica di Dio (Cv III XIV 14, Mn III XVI 7-9, Pg VIII 85-93, Pd XXIV 34-154, XXV 1-102, XXVI 1-69).
I vizi. - I vizi, abiti cattivi, derivano dall'amore sregolato o amor proprio (l'amor è sementa in voi... / d'ogne operazion che merta pene, Pg XVII 104-105). Eccettuato l'Inferno, D. ne tratta assai poco. Tuttavia, ragionando nel Convivio della giustizia, egli tocca anche del suo contrario, l'ingiustizia, cui riconduce tradimento, ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno e loro simili (Cv I XII 10). Allo stesso criterio, poi, s'ispirerà per la divisione del basso Inferno: d'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, / ingiuria è 'l fine (If XI 22-23).
I vizi nell'ordinamento morale della Commedia. - Nell'Inferno, in cui le anime sono condannate al supplizio eterno, trovano posto solo i vizi. Essi vengono distinti in ritraenti dal bene e inclinanti al male. I primi riguardano, nell'ordine naturale, gl'ignavi e, nell'ordine soprannaturale, i pagani esclusi dal Paradiso perché privi del battesimo, ch'è porta de la fede (IV 36; cfr. Mn II VII 4). Macchiati di vizi inclinanti al male sono invece gl'incontinenti (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi), i violenti (contro Dio, sé stessi e il prossimo), i frodolenti (ruffiani, lusingatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, cattivi consiglieri, seminatori di discordia, falsari) e i traditori.
Nel Purgatorio, in cui le anime devono spogliarsi delle abitudini cattive per assumere le buone, si tratta sia dei vizi che delle virtù. Anche qui il criterio ordinatore supremo è l'amore (Cv IV XXII 5, Pg XVII 103-105) e, come già nella prima cantica, i vizi trovano una distinzione iniziale in ritraenti dal bene (il bene proprio: gli scomunicati, i pigri, i morti per violenza altrui, e il bene pubblico: i principi negligenti) e inclinanti al male (per cattivo oggetto, cioè sia per amore disordinato per difetto verso il sommo bene [gli accidiosi], sia per eccesso d'amore verso i beni fallaci esterni e interni). Ma nella suddivisione ulteriore dei vizi inclinanti al male, D. segue la classificazione ecclesiastica dei sette vizi capitali (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia e prodigalità, gola, lussuria). A questi vizi vengono contrapposte, negli ‛ esempi ', altrettante virtù morali: l'umiltà, la carità verso il prossimo, la mitezza, la sollecitudine, la povertà e la liberalità (contro il duplice vizio dell'avarizia e della prodigalità), la temperanza e la castità. A tutto il regno, poi, presiedono sotto forma simbolica di stelle, dapprima le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, I 22-27) e poi le tre teologali (fede, speranza e carità, VIII 85-93). Queste sette virtù riappariranno nella processione mistica nel Paradiso terrestre (XXIX 121-132).
Nel Paradiso infine scompaiono le virtù morali, in quanto regolatrici delle azioni umane tendenti verso un fine. Tramontano anche la fede e la speranza: la prima perché i beati vedono Dio, la seconda perché lo posseggono. Trionfa solo la carità, perfezionatrice della giustizia, che nei beati si manifesta come amor di Dio e conformità intera alla sua volontà e come amore del prossimo per amor di Dio (II 43-45, III 43-90, XX 133-138, ecc.).
Il problema della felicità. - La felicità è il finale nostro riposo, per lo quale noi vivemo e operiamo ciò che facemo (Cv IV XXII 3). D., pertanto, ne tratta con una certa ampiezza nel Convivio, nella Monarchia, e soprattutto nella Commedia, il cui fine è precisamente quello di removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis (Ep XIII 39).
Anzitutto si noti che D., come già s. Tommaso, usa indifferentemente i termini ‛ beato ' e ‛ felice ', ‛ beatitudine ' e ‛ felicità ' (lo stesso anche per i termini paralleli delle opere latine). Ciò si ricava particolarmente da Cv IV XVII 8 queste sono quelle che fanno l'uomo beato, o vero felice; XXII 9 quello che massimamente è dilettoso a noi, quello è nostra felicitade e nostra beatitudine, 11 questo [come] quell'altro è nostra beatitudine e somma felicitade, e 18 nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla)... trovare potemo. Altrove D. usa ora l'uno, ora l'altro termine, anche nello stesso contesto (Mn III XVI 7-10). Nel Convivio e nella Monarchia D. considera la felicità in modo filosofico, teorico. Nella Commedia, invece, il problema viene calato nella realtà vissuta. Appunto per questo terremo distinte le due trattazioni.
In ogni anima umana Iddio infonde un appetito intellettivo che, nelle prime sue manifestazioni, si mostra non dissimile da quello puramente naturale degli animali, ma che ben presto acquista caratteristiche sue proprie. Per effetto di tale appetito ognuno ama principalmente sé stesso. Man mano che questo appetito si sviluppa, l'uomo viene distinguendo in sé una parte meno nobile, il corpo, e una parte più nobile, l'anima, da lui maggiormente amata. Ora, poiché la ragione umana, che è appunto la parte più nobile, prova il massimo diletto nell'uso della cosa amata, ne viene di conseguenza che il gaudio sommo si avrà precisamente nell'uso delle nostre facoltà mentali. Infatti, l'operazione dell'intelletto è per sé, mentre le altre operazioni inferiori dell'uomo sono per esso. D'altra parte l'attività umana è duplice, speculativa cioè e pratica. Ora, poiché nella speculativa s'impiegano esclusivamente le facoltà spirituali, è chiaro che la felicità piena si avrà proprio in essa, cioè nella contemplazione della verità, della sapienza (Cv I I 1, II XIV 19, III XV 1-4, IV XVII 9-12, XXII 4-11). Felicità vera quest'ultima perché proporzionata al desiderio della mente umana, anche se in questa vita l'uomo conosce certe verità solo velatamente per mezzo della fede (Cv III XV 6-10).
All'uomo è concesso, inoltre, di raggiungere una felicità secondaria che si ottiene operando rettamente per mezzo delle virtù morali e in modo speciale per mezzo delle quattro virtù cardinali. Così le virtù morali rendono amabile la sapienza e la moralitade è bellezza de la filosofia (Cv III XV 11; v. anche § 12). Si ha perciò quella felicità che fu definita da Aristotele ‛ operazione secondo virtù in vita perfetta ' (I VIII 7, III XV 11-18, IV XVII 8, Mn III XVI 7-11). Anzi, con l'esercizio stesso della virtù, come ricorderà il poeta nel Paradiso, cresce il diletto: per sentir più dilettanza / bene operando, l'uom di giorno in giorno / s'accorge che la sua virtute avanza (XVIII 58-60).
Inoltre, non solo l'individuo, ma tutto il genere umano tende alla felicità. Di conseguenza, tutta la società deve condursi alla felicità terrena, ciò che richiede un'autorità capace di assicurare al mondo la pace, che ne è la condizione indispensabile (Cv IV IV 1-7, Mn III XV).
Tuttavia la felicità perfetta, piena, che qui si ha solo oscuramente, si avrà apertamente nella visione intuitiva di Dio, nel Paradiso, premio concesso a chi in questa vita avrà operato non solo secondo le virtù morali, ma anche secondo le teologali (Cv II VIII 14, IV XXII 18, Mn III XV 8).
Nell'Inferno la felicità è presente come ricordo, come nostalgia della vita serena (VI 51), della vita bella (XV 57), del dolce lume (X 69), del dolce mondo (VI 88, X 82) e quindi come tormento spirituale: nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria (V 121-123; cfr. anche XXX 64-69). E a tormentare maggiormente i fiorentini Ciacco, Farinata, Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci contribuisce anche la notizia delle condizioni miserevoli di Firenze (VI 49-93, X 76-78, XVI 64-78; il tema dell'infelicità di Firenze e dell'Italia ricorrerà, del resto, anche nelle altre cantiche; cfr. pure Ep VI 3).
Nel Purgatorio le anime, totalmente assorte nell'opera di purificazione, provano ciononostante, in forza della solidarietà del corpo mistico, un attimo di gioia ogni qual volta una di loro termina la sua lunga fatica (XXI 34-78), e il Paradiso terrestre ci è presentato, da Matelda prima e da Beatrice poi, come il luogo della felicità temporale (XXVIII 139-141, XXX 75; cfr. anche Mn III XV 7 beatitudinem... huius vitae, quae ...per terrestrem paradisum figuratur).
Il Paradiso è essenzialmente il regno della felicità, il beato regno (I 23), il gaudio miro (XXIV 26); le anime sono chiamate abitualmente ‛ beati ' (si veda anche If I 120 le beate genti). Tale felicità, dice D., deriva alle anime sia dalla loro completa uniformità con la volontà di Dio (III 64-90, XX 137-138), sia dalla corrispondenza esatta del premio col merito (VI 118-126; si veda anche Cv III XV 10). D. stesso, nel suo viaggio attraverso i cieli, esperimenta in sé una felicità sempre maggiore, ora ascoltando avidamente la soluzione di tanti dubbi (ma il tema della sete del sapere - nel sapere sta la nostra ultima felicitade, Cv I I 1 - è presente già nell'Inferno e, con insistenza assai maggiore, nel Purgatorio), ora contemplando Beatrice, ora conversando con le anime. Anche le anime godono di stare insieme tra di loro e con il poeta (cfr. III 16, V 103-105, XVIII 112-113); gioiscono in modo particolare Adamo e s. Pietro per esser propinquissimi ad Agusta (Pd XXXII 118-120). Ma la felicità piena, somma, consiste, per gli uomini e per gli angeli (per la beatitudine angelica si veda anche Cv II IV 9-13, III XV 10), nella visione immediata di Dio. D., fedele alla tradizione scolastica, fa consistere questa nella ‛ visio ' (Pd XXVIII 106-114 si fonda / l'esser beato ne l'atto che vede, / non in quel ch'ama, che poscia seconda; cfr. Ep XIII 89), ma in Pd XXX 38-42 ci presenta in mirabile sintesi le tre tesi rivali della ‛ visio ' (s. Tommaso), della ‛ dilectio ' (s. Bonaventura e Scoto) e della ‛ fruitio ' (Pietro Aureolo): luce intellettüal, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore.
Bibl. - G. Busnelli, L'Etica Nicomachea e l'ordinamento morale dell'Inferno di D., Bologna 1907; ID., L'ordinamento morale del Purgatorio dantesco, Roma 1908; ID., Il concetto e l'ordine del Paradiso dantesco, Città di Castello 1911; M. Barbi, Razionalismo e Misticismo in D., in " Studi d. " XVII (1933) 5-44; G. Busnelli, Il ‛ Convivio ' di D. e un suo nuovo commento, in " Civiltà Cattolica " I (1935) 125-137; É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1953², 100-113 (‛ Le primat de la morale '); A. Di Giovanni, La filosofia dell'amore nelle opere di D., Roma 1967.