Monopolii
Nel Regno normanno di Sicilia lo stato, per quanto conservasse il monopolio di alcune attività propriamente pubbliche (coniazione della moneta, amministrazione della giustizia), concedendo diritti fiscali soltanto ai baroni e ai conti, non pretendeva monopolii di tipo economico. Esercitò un controllo diretto solo su due tipi di attività economiche: per ragioni igieniche controllava la macellazione del bestiame, riscuotendo un diritto specifico (bucheria), che conosciamo perché numerose sedi vescovili godevano della decima dei diritti pubblici (baiulatio) comprendenti anche la bucheria. Lo stato controllava poi la tintura e la celandra (apprettatura dei tessuti) che, probabilmente poiché costituivano attività inquinanti, in un certo numero di città erano riservate agli ebrei (così in Puglia, a Taranto, Brindisi, Bari, Troia e forse Foggia). La sorveglianza di questo monopolio era spesso delegata dallo stato alla cattedrale locale, come a Taranto, dove, anche dopo che Federico II ebbe recuperato allo stato la tintura, la cattedrale riscuoteva la somma di 10 once annuali. Ma la macellazione e la tintura costituivano due attività particolari per ragioni tutt'altro che economiche.
L'estensione dei monopolii economici statali (in particolare sul sale) non fu, d'altra parte, una specificità del Regno di Sicilia nel XIII sec.: diritti sul sale furono istituiti a Venezia nel 1184 e in Provenza verso la stessa epoca. Sembra tuttavia che sia stata particolarmente importante nel Regno, sotto Federico II. Tale estensione ‒ nonché il parziale recupero dei monopolii di età normanna ‒ si inserisce nell'ambito dei nova statuta messi in pratica nel 1231. Si deve supporre che, in questo periodo di pace fra le sue due scomuniche, il sovrano abbia pensato che tali nuovi diritti indiretti sarebbero bastati a fornire allo stato l'aumento di risorse del quale aveva bisogno. Certo la subventio generalis (l'aiuto feudale esteso a tutto il Regno sotto la forma di un'imposta diretta), già riscossa a titolo eccezionale da Guglielmo II e da Enrico VI, e rievocata da Federico II nel 1221, fu da lui richiesta nel 1223, 1225, 1227 e 1231; ma non lo fu più fino al 1235, quando la ripresa delle ostilità la rese annuale, e si sa come nel suo testamento l'imperatore si fosse rammaricato della riscossione di questa tassa, considerata ancora per secoli irregolare (anche se non lo era). Invece le tasse indirette, e in particolare i monopolii e le tasse sull'esportazione, nella mentalità comune, facevano parte delle risorse naturali dello stato: costituivano la base legale del rafforzamento dello stato e dovevano bastare in tempi normali.
In primo luogo furono rinnovati i monopolii di età normanna. A fianco della vecchia bucheria, collegata alla baiulatio, ne fu creata una nuova, che non faceva parte della baiulatio e della quale non era corrisposta la decima alle chiese. La tintura fu ripresa in mano dallo stato, che corrispondeva una somma fissa alle cattedrali, alle quali era stata una volta sottoposta. Tali rimaneggiamenti furono oggetto di precise inchieste pubbliche, per esempio a Taranto.
I nuovi monopolii istituiti non toccavano la produzione delle derrate tassate, che restava privata, ma solo la loro vendita. Si trattava di prodotti di notevole valore, sia perché le quantità consumate erano rilevanti e non potevano essere diminuite (il sale), sia perché erano leggeri, ma costosi (la seta); inoltre erano prodotti in aree ben precise, il che permetteva un controllo più facile. Certo il sale era raccolto in molti punti del litorale, ma la zona di maggiore produzione era la costiera del Tavoliere (odierne saline di Margherita di Savoia); in Sicilia e in Calabria era estratto il salgemma, chiaramente in punti precisi. Lo stesso vale per la seta di Calabria, che proveniva da zone ben identificabili per la presenza del gelso. I monopolii colpivano infine prodotti per la maggior parte d'importazione e che avevano un valore strategico: il ferro (prodotto anche in Calabria, in particolare nella Sila), l'acciaio, il bronzo, la pece.
Non tutti i monopolii avevano la stessa importanza e non sempre erano gestiti nello stesso modo. Su quello della seta di Calabria non possediamo molte informazioni: si sa che nel 1231 fu appaltato a ebrei di Trani, nel 1240 a uomini di Scala (cioè ravellesi), e che produceva la somma non trascurabile di 170 once d'oro. Sappiamo ancora meno sul ferro, l'acciaio e la pece. Normalmente lo stato doveva moltiplicare il prezzo del ferro per uno e mezzo: vale a dire, in linea di massima, che il terzo del prezzo era riscosso dallo stato (cioè, in realtà, dagli appaltatori); il tasso non era diverso da quello delle tasse all'esportazione.
Il problema del sale era più complesso in quanto si trattava di un prodotto di grande consumo il cui commercio, qui come ovunque, poteva essere oggetto di frodi, tanto più che si prevedeva che il prezzo di vendita sarebbe stato quattro volte quello della produzione per il sale grosso, sei volte per il sale fino. Con tali tassi si capisce come, nel 1239, Tomaso da Brindisi, magister procurator di Puglia e successore del logotheta Andrea, stimasse che non fosse possibile vendere il sale al prezzo ufficiale, segno chiaro dell'esistenza di un importante mercato nero. Però il prezzo ufficiale non cambiava, probabilmente perché, a dispetto della frode, dava un reddito sufficiente. In Abruzzo nel 1235 un mercato fu chiuso dal giustiziere perché vi si vendeva sale, ma l'imperatore finì con l'ammettere questo commercio, a condizione che i nova statuta fossero rispettati.
L'esistenza dei monopolii necessitava la creazione di magazzini specifici, i fundica. Necessitava pure di nuovi agenti. Così come l'insieme dei nova statuta, i monopolii furono impostati dai capi della nuova amministrazione fiscale regionale insediatasi nel 1231. Dopo la fase costitutiva, sembra che l'imperatore avesse voluto creare un'amministrazione particolare incaricata dei monopolii, diretta in ogni regione da un magister fundicarius: secondo la costituzione I, 86, il magister fundicarius era equiparato al magister procurator. In realtà, sembra che fosse stato sottoposto a quest'ultimo, a cui toccava la direzione generale dei fundica.
Al livello locale esistevano i fundicarii, probabilmente già appaltatori. La costituzione I, 89 (De fundicariis) disciplinava la loro attività. In primo luogo, non dovevano comprare derrate né depositarle nel fundicum se non in presenza del baiulus e del giudice locali e con la stesura di una publica scriptura. Gestivano i fundica destinati al sale, al ferro, all'acciaio e alle merci da esportare. La costituzione vietava ai fundicarii di obbligare la gente a comprare quantità eccessive di sale, ma essi dovevano anche verificare che gli uomini della provincia (il territorio a loro affidato) non ne comprassero fuori, sia in grande che in piccola quantità, pena la confisca dei beni. Tutto il sale importato dall'estero doveva essere consegnato ai rappresentanti della Curia; invece i negozianti che avevano comprato sale e corrisposto le tasse avrebbero potuto venderlo in tutta la provincia al prezzo voluto (il che significava che potevano aumentarlo), a condizione di non obbligare nessuno a comprare. D'altra parte, i mercanti che trasportavano i prodotti controllati dovevano depositarli nel fundicum, ma non potevano depositarvi altro.
Il sistema dei monopolii ebbe importanti incidenze sociali. Esso portava naturalmente alla frode, prevista dai testi normativi e descritta dai documenti della pratica, e non facilitava i rapporti tra la popolazione e gli agenti fiscali del potere: lo stesso valse per tutto l'Occidente tardomedievale e moderno. Inoltre finì per moltiplicare gli agenti fiscali dello stato: nel 1281 il fundicum di Napoli occupava trentatré persone, quello di Gaeta quarantaquattro. Sembra che, già sotto Federico II, questi agenti fossero in realtà appaltatori; spesso erano ravellesi, uomini d'affari in grado di anticipare le importanti somme da riscuotere prima di rifarsi sui clienti, cioè i mercanti.
Certo i monopolii furono, alla fine del Medioevo, comuni a tutti gli stati occidentali. Furono però particolarmente sviluppati nel Regno di Sicilia, dove costituirono una delle principali attività finanziarie degli uomini d'affari. Ma non bastarono a coprire le esigenze finanziarie dello stato: da qui, nel 1235, l'imposizione dell'imposta diretta regolare.
fonti e bibliografia
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