MISILMERI, Emanuele, duca di
MISILMERI (Bonanno Filingeri), Emanuele, duca di. – Nacque a Palermo nel novembre 1734, dal principe Francesco e da Anna Maria Filingeri.
Fratello minore di Giuseppe, erede del casato e protagonista di una brillante carriera nell’entourage del ministro Bernardo Tanucci, il M., che in gioventù aveva intrapreso e poi lasciato la carriera ecclesiastica, fu investito del Ducato di Misilmeri il 17 febbr. 1758, con atto stipulato presso il notaio Domenico Salvatore Bruno di Palermo, alla vigilia della partenza del fratello per la corte napoletana e a suggello della sua intensa attività di governo delle Baronie e degli Stati del fratello stesso, di cui era procuratore generale.
Fu una gestione accorta, ma non riuscì a evitare la progressiva erosione del vasto patrimonio se il 31 dic. 1780, appena un mese dopo la morte del principe, l'erede, Francesco, all’apertura del testamento scoprì lo stato disastrato delle finanze familiari, che appena cinque anni dopo, probabilmente a causa degli oneri finanziari connessi al mantenimento delle attività presso e per le corti di Madrid e Napoli, lo portò alla bancarotta. Un evento disastroso nel quale, tuttavia, non appaiono responsabilità imputabili alla gestione del Misilmeri. Di lui si diceva, anzi, che fosse uno dei più savi cavalieri della città, e di tali qualità egli dette prova allorché nel corso della rivolta palermitana del 1773 spronò il riluttante arcivescovo Serafino Filangieri a parlare alla popolazione come richiesto dai consoli della città.
L'episodio è ampiamente riportato dalla storiografia ottocentesca e in realtà diminuisce il contributo dell’arcivescovo filo-giansenista nella rivolta politica e sociale del 1773 e nel partito trasversale che legò la nobiltà alla popolazione, esasperata dalla pessima gestione del mercato dei grani, pervasa da istanze di emancipazione e riforma, e ostile alla simpatie gesuite del viceré Giovanni Fogliani Sforza d'Aragona. In tale contesto al M. va, invece, riconosciuta l’appartenenza al cenacolo di religiosi e intellettuali vicini a Filangieri – F. Cordova, i fratelli Di Blasi, Isidoro Bianchi – e al gruppo di nobili e ministri che chiesero l’allontanamento del viceré.
È in ragione di ciò che alla partenza di Fogliani, l’arcivescovo, ormai nei fatti presidente del Regno, nominò il M., assieme ad altri importanti protagonisti del blocco nobiliare che aveva affermato la linea napoletana di Tanucci – i principi di Carini, Lampedusa, Pantelleria e Partanna – membro della Giunta pretoria istituita per assistere il Senato nell’amministrazione dell’Annona.
Di fatto quell'organo collaborò strettamente con la Giunta di Sicilia e con il partito filo-austriaco che avrebbe portato al potere il ministro Giuseppe Beccadelli, marchese della Sambuca, acquisendone in cambio il governo del Regno.
Si consolidava così la carriera politica del M., nominato nel 1774 deputato del Regno e quattro anni dopo membro della Deputazione dei regi studi con gli arcivescovi Salvatore Ventimiglia e Alfonso Airoldi, il principe di Torremuzza, Gabriello Lancillotto Castello, e il principe di Trabia, Giuseppe Lanza.
Istituita all’interno del più vasto disegno regio diretto a sostituire l’insegnamento gesuita nell’isola, la Deputazione avrebbe dovuto provvedere all’erezione di un seminario per nobili, il Collegio real Ferdinando, da mantenere con 5000 scudi annui sopra l’azienda gesuitica e alla direzione delle pubbliche scuole del Regno. In altri termini, un processo di riappropriazione secolare della cultura che avrebbe portato di lì a qualche decennio all'erezione della Real accademia e, infine, della Regia università di Palermo.
Tale succedersi di incarichi testimoniano il ruolo di rilievo del M. in quel «partito siculo» che il viceré Domenico Caracciolo al suo arrivo nell'isola avrebbe dichiarato ostile ai suoi propositi di riforma. La febbrile attività di Caracciolo e dei suoi ministri per attuare una diversa perequazione tributaria, fu infatti duramente contestata nel Parlamento del 1782. La preoccupazione per quanto il viceré organizzava nell’isola condusse inoltre i suoi avversari a disporre una missione del M., del principe di Trabia e del principe di Partanna presso la corte napoletana per dichiarare le contravvenzioni viceregie alle disposizioni parlamentari. In particolare, il M. fu definito da Caracciolo in una lettera a John Acton, «uno spirito torbido e sottile» che confidava nella sua amicizia con il marchese della Sambuca per ottenere la presidenza della Giunta di Sicilia.
«Questo Duca Musulmene, uomo scaltro assai, intrigante al sommo – basta che sia stato frate – si spiega bene e parla con autorità, per cui fa impressione agli ignoranti; egli è a Palermo il Dottor delle Genti, in sostanza uomo mediocre ma astuto al sommo. Il divisato Signore zio della Cattolica, è l’anima della Deputazione, il Capo del Partito Repubblicano, l’uomo sempre opposto al Governo ed ha tirato varie volte ad ingannarmi. Egli è grande amico del Ministro e della Principessa di Jaci, legherebbe certo un forte partito in Corte, la qual cosa potrebbe produrre nuovi motivi di cabale e di raggiro ai Siciliani, e prevengo V.E. che sicuramente l’idea del Ministro sudetto è di farlo eliggere Presidente della Giunta di Sicilia, ed allora non vi sarà forza bastante a combattere, ne Hercules contra Deos» (Pontieri).
L’insofferenza di Caracciolo per il M. prendeva di mira più che l’uomo, il modello di aristocrazia che il viceré aveva combattuto nel suo mandato e di cui aveva cercato di limitare funzioni e potere. Meno ostile ma altrettanto efficace sarebbe stata, invece, l’azione del principe di Caramanico, Francesco Maria Venanzio d'Aquino, giunto a Palermo nell’aprile del 1786, che nel Parlamento del luglio successivo ottenne quanto richiesto in materia finanziaria dal suo predecessore. Un successo imputabile al cambiamento di prospettiva politica della nobiltà, partecipe alla temperie politica e sociale del tempo e interessata al mantenimento delle prerogative istituzionali al punto da riunire la questione feudale a quella siciliana, che Caramanico accompagnò con riforme sociali e con il riordino delle finanze coadiuvato dagli illuministi Paolo Balsamo, Francesco Paolo Di Blasi, Giovanni Agostino De Cosmi, Tommaso Natale.
Meno favorevole gli fu, invece, il Parlamento del 1790, in cui il suo agire fu apparentemente ostacolato dal braccio militare ed ecclesiastico.
Di fatto vi fu una nascosta alleanza tra baroni e demaniali, i primi disposti a rivedere la loro politica sui contributi ordinari pur di ostacolare la realizzazione del catasto; e i secondi pronti ad assurgere a un ruolo di maggior rilievo. Non stupisce quindi di ritrovare il M. tra gli strenui sostenitori delle richieste di Caramanico, per quanto dispiaciuto dal non essere stato scelto dal viceré quale deputato del Regno e, nondimeno, deciso a mantenere il suo primato all’interno del braccio demaniale.
Per tale ragione egli non esitò a denunciare i malumori della nobiltà nella corrispondenza a un suo intermediario presso il ministro Acton, a cui scriverà della sua proposta di un’inchiesta per mettere fine agli abusi praticati nel Regno da quanti avrebbero dovuto applicare le disposizioni parlamentari. Scriveva anche degli scontri tra i demaniali e il braccio militare riguardo la nomina del rappresentante siciliano nel Supremo consiglio delle finanze che il M. riteneva dovesse essere uno dei consultori del Regno di Sicilia già in carica a Napoli, malgrado le proteste di quanti gli facevano osservare «la preponderanza e autorità, che in questo secolo si sono arrogati i Paglietti ed i Ministri togati» (Pontieri) e la poca esperienza di costoro nell'agricoltura, nelle arti e nei commerci. Nella scena politica di fine secolo aumentava dunque il peso politico di quella nobiltà provinciale che spesso aveva saputo tessere alleanze con il grande baronaggio, come testimoniato dalla vicenda del Misilmeri.
Sopravvissuto al nipote ed erede del casato, il M. morì a Palermo il 2 apr. 1800.
Fonti e Bibl.: G.E. Di Blasi, Storia civile del regno di Sicilia, IX, Palermo 1819, pp. 116; 165; F.M. Villabianca - E. Gaetani, Diario palermitano, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, XVII, Palermo 1874, pp. 219-220; D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Palermo, 1827, p. 5; I. La Lumia, Domenico Caracciolo o un riformatore del secolo XVIII, in Nuova Antologia, 1868, vol. 7, n. 2, p. 233; L. Sampaolo, La R. Accademia degli studi di Palermo: narrazione storica, Palermo 1878 passim; E. Pontieri, Il marchese Caracciolo viceré di Sicilia ed il ministro Acton. Lettere inedite sul governo di Sicilia (1782-1786) con Appendice, Napoli 1932, pp. 243, 249-50, 263, 267, 277; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, V, Palermo 1932 passim; C. Spoto, Il vicerè Caramanico e il Parlamento del 1790, Acireale 1986, ad ind.; S. Laudani, Quegli strani accadimenti: la rivolta palermitana del 1773, Roma 2004, pp. 92; 165-166; A. Palazzolo, Le dimore turrite a Palermo tra ‘400 e d‘500 e la Domus Magna dei Principi della Cattolica, in Rassegna Siciliana di Storia e Cultura, 2005, n. 26; O. Cancila, Storia dell’Università di Palermo: dalle origini al 1860, Roma-Bari 2006, pp. 45, 178; N. Giordano, La pubblica istruzione in Monreale dal sec. XVI all'unificazione del Regno, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale, s. 3, 1961, n. 12, pp. 245-7; R. Grillo, Erudito e arabista siciliano, ibid.,1969, n. 19, p. 375.