Mirone di Eleutere, maestro del rhythmos
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli scultori di età severa concentrano parte delle proprie ricerche formali ed espressive sul problema della resa del movimento delle figure nello spazio: tra questi, Mirone di Eleutere trova una soluzione nell’espressione del “movimento in potenza” ovvero nella rappresentazione della figura umana in pose transitorie e dinamiche, suscettibili di evoluzione, come nel suo celebre Discobolo.
Se la maggior parte degli scultori greci di età severa sono per noi poco più che fantasmi, a causa dell’oggettiva difficoltà di ricondurre alla loro attività i rari originali e le più numerose copie di età romana nei nostri musei, una situazione ben diversa è quella della personalità artistica più conosciuta dell’arte severa, Mirone: bronzista originario di Eleutere, piccola località al confine tra l’Attica e la Beozia, ma cresciuto professionalmente ad Atene, attivo tra il 480 e il 440 a.C. ca.
A questo artista è infatti attribuito con certezza uno dei tipi scultorei universalmente più celebri dell’arte antica, tanto da essere diventato una vera e propria icona della classicità: il Discobolo, noto grazie a copie romane, tra cui le due attualmente conservate a Roma, presso il Museo Nazionale Romano. Fondamentali per l’identificazione delle copie con l’originale bronzeo perduto, realizzato probabilmente intorno al 460 a.C., sono un passo di Quintiliano (L’educazione dell’oratore, II, 13, 8-10) e un brano di Luciano di Samosata (Il mentitore, 18); il confronto con le fonti letterarie è anzi talmente stringente che è proprio con la scoperta della copia nota come Discobolo Lancellotti che si assiste, alla fine del Settecento, ad una prima definizione del problema dell’identificazione degli originali greci perduti e noti tramite le testimonianze letterarie, attraverso il confronto con le copie di età romana. L’atleta è immortalato nel fuggevole momento che precede il lancio del disco; il piede destro, perno del movimento, è saldamente posato al suolo, mentre il sinistro è scartato all’indietro; la mano sinistra si appoggia sul ginocchio destro, mentre il braccio destro teso si solleva all’indietro sorreggendo il disco, nell’ultima della serie di oscillazioni che preludono al lancio; la testa segue il movimento del braccio con il disco e il torso si inclina in avanti. La muscolatura ben definita è contratta, il volto concentrato, la posa, di una estrema instabilità, non può durare più di un attimo; guardandolo, lo spettatore può ricostruire mentalmente il fluido movimento del discobolo prima e dopo quell’attimo, e ha davvero l’impressione di vedere un’istantanea, scattata nel momento di massimo accumulo dell’energia propulsiva dell’atleta. Questa statua costituisce la più eloquente illustrazione possibile di una dote che la critica d’arte greca riconosceva a Mirone, secondo la più convincente interpretazione, proposta da alcuni studiosi moderni (tra cui lo studioso americano Jerome J. Pollitt) di un controverso brano di Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXIV, 58) derivato, con ogni probabilità, dagli scritti di Senocrate di Atene, un artista greco vissuto nel III secolo a.C., autore di un trattato sulla scultura in bronzo e di un altro sulla pittura.
Nel passo citato Plinio confronta Mirone con Policleto di Argo, come lui allievo del bronzista argivo Agelada, sostenendo che il primo fosse numerosior in arte rispetto al secondo. L’interpretazione più banale dell’espressione pliniana vuole che Mirone fosse un artista “più prolifico”, cioè autore di un maggior numero di statue rispetto a Policleto. Ma Plinio, che non può certo vantare una conoscenza particolarmente approfondita nell’ambito delle arti figurative, solitamente utilizza per i propri giudizi sugli artisti e sulle loro opere i trattati greci di critica d’arte, tra cui appunto quelli di Senocrate, traducendo in latino la terminologia tecnica in essi utilizzata. Il latino numerus è una comune traduzione della parola greca rhythmos, come afferma Quintiliano (L’educazione dell’oratore, IX. 4, 45; 54); e rhythmos è un termine che, almeno nel greco di età classica, sta ad indicare la “forma”, il “modello”. L’associazione di questo termine con la musica (basti pensare all’italiano “ritmo”) deriva, con ogni probabilità, dalla sua originaria connessione con la danza: i rhythmoi, cioè, sarebbero le distinte pose (le “forme”, appunto) assunte da un danzatore nel corso di una danza, pose che si succedono rapidamente ed impercettibilmente l’una dietro l’altra all’interno di un unico, continuo movimento. Isolare, come in una fotografia, una di queste pose, significa rinviare anche ai movimenti che l’hanno preceduta e che la seguiranno; significa, in pratica, proporre una soluzione al problema della resa del movimento continuo nelle arti plastiche, problema particolarmente presente agli artisti di età severa. Uno dei capolavori della scultura severa conservati in originale, la statua marmorea di un giovane rinvenuta nel 1979 a Mozia, l’isola di fronte alla costa di Marsala, è un altro eloquente esempio di quanto il rhythmos, inteso nel senso testé illustrato di movimento “in potenza”, fosse al centro delle ricerche degli artisti del periodo.
L’Efebo di Mozia è un giovane uomo dal corpo vigoroso coperto da una sottile e lunga tunica finemente pieghettata, stretta sul busto da un’alta cintura; il peso del corpo grava sulla gamba sinistra tesa, mentre la destra, piegata, imprime al corpo un movimento di rotazione accentuato dallo scarto della testa verso sinistra. L’effetto è quello di un andamento spiraliforme e ascensionale, fortemente instabile, il fotogramma di un movimento che non può non avere un seguito, nel tempo e nello spazio; una delle interpretazioni più interessanti di questa figura, che la stessa attitudine e l’abbigliamento rendono piuttosto enigmatica, vi riconosce l’immagine di un danzatore. L’opera è stata ipoteticamente ricondotta a Pitagora di Reggio, forse il primo scultore a concentrare la propria ricerca formale sul rhythmos, secondo la testimonianza di Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, 7, 46). Come a Pitagora, a Mirone la critica d’arte greca attribuiva un ruolo significativo nella progressiva conquista della resa naturalistica della figura umana nel campo delle arti plastiche: Plinio il Vecchio (sempre sulla base dei giudizi professionistici di Senocrate) lo definisce in symmetria diligentior, ancora nel confronto proposto con Policleto, riconoscendogli quindi una particolare scrupolosità nell’applicazione delle proporzioni. È probabile, però, che in questo giudizio possa anche essere letta una critica negativa nei confronti di una eccessiva “macchinosità” dello stile di Mirone, di una sua mancanza di versatilità e di disinvoltura nel tentativo di riprodurre i volumi e i movimenti del corpo umano; né le figure del bronzista di Eleutere risultavano sufficientemente soddisfacenti, perché poco “naturali”, nella resa di alcuni particolari, come le capigliature, e, soprattutto, nell’introspezione psicologica (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXIV, 58). Del resto, in una critica d’arte come quella inaugurata da Senocrate, Mirone doveva fare la parte di iniziatore di un movimento evolutivo, tutto teso alla conquista dell’assoluto naturalismo nella riproduzione della figura umana, che era ritenuto aver raggiunto il proprio apice, assoluto ed insuperabile, solo nel IV secolo a.C. avanzato, grazie alle innovazioni formali e stilistiche di Lisippo di Sicione.
Tornando al problema del rhythmos, la poetica mironiana del “momento fecondo”, cioè gravido di sviluppi successivi, doveva trovare un’altra straordinaria concretizzazione nel gruppo bronzeo del Satyrum admirantem tibias et Minervam citato da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXIV, 57), che Pausania ricorda sull’acropoli di Atene, senza però menzionare il nome dell’artefice (Periegesi della Grecia, I, 24, I).
Riflessi della composizione si hanno su alcune monete, su un vaso a figure rosse oggi a Berlino e su un vaso marmoreo a rilievo conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene: sulla base di queste testimonianze è stato possibile ricomporre ipoteticamente il gruppo accostando un torso di satiro dei Musei Vaticani, una testa di Marsia oggi al Museo Barracco di Roma e un tipo statuario di Atena noto in più repliche, di cui la migliore, completa della testa, è oggi conservata a Francoforte. Grazie a Pausania conosciamo il soggetto del gruppo: Atena ha gettato a terra l’aulos, il doppio flauto, che ha inventato, dopo essersi con dispetto resa conto che suonarlo le gonfia le guance deformandole i lineamenti; il satiro Marsia, irresistibilmente attratto dallo strumento, si avvicina per raccoglierlo, ma la dea lo blocca. Il satiro resta sospeso tra il desiderio e il timore, congelato in una posa di assoluta instabilità, con la gamba destra avanzata e la sinistra scartata all’indietro, come se fosse pronto alla fuga, il torso contratto, che spinge all’indietro il braccio sinistro, mentre il destro è rimasto sospeso a mezz’aria; eloquente l’espressione di perplessità e di indecisione che si legge sul volto di Marsia. Atena è calma e solenne, ma anche la sua posa è complessa: frontale, volge decisamente la testa alla propria sinistra, un piede spinto in avanti, l’altro scartato all’indietro; è probabile che nella mano destra originariamente stringesse la lancia, mentre è possibile prestare alla mano sinistra un gesto imperioso in direzione del satiro. L’episodio anticipa la ben nota, tragica fine di Marsia: il satiro si impadronirà del flauto e imparerà a suonarlo così bene da osare sfidare Apollo in una gara di musica; la sua hybris e la sua disobbedienza al volere degli dèi necessitano di una punizione, e Marsia finirà scuoiato. L’occasione per la realizzazione del gruppo statuario, che è certamente una dedica pubblica a carattere politico-allegorico, come tutte quelle che sorgono sull’acropoli in questo periodo, è da identificare, a causa della probabile origine beotica del mito dell’invenzione del flauto ad opera di Atena, con gli scontri tra Atene e la Beozia, conclusisi nel 457 a.C. con la vittoria della polis sulla Lega beotica.
La ricostruzione del gruppo è stata contestata da alcuni studiosi (B. Sismondo Ridgway, attenta conoscitrice dell’arte severa), che vedono nel Marsia dei Musei Vaticani una copia da un originale della fine del V secolo a.C. piuttosto che di età severa, e che sottolineano il fatto che le copie note delle due statue non sono mai state ritrovate insieme: elemento questo che può però essere spiegato con il particolare fascino dell’Atena tipo Francoforte, svelta e graziosa adolescente dal volto ombroso, che giustifica l’esistenza di una tradizione copistica autonoma. Ma è solo all’interno di una composizione che i due tipi iconografici trovano piena ragione dei loro precari e dinamici atteggiamenti: anche in virtù di tale considerazione, la ricomposizione del gruppo continua ad essere generalmente accettata ed ascritta a Mirone.
La virtuosistica sperimentazione mironiana legata al rhythmos doveva trovare un’altra fortunata applicazione nella statua che celebrava la vittoria del corridore Ladas ai giochi olimpici del 457 a.C., nota soltanto dalle fonti letterarie: si trattava, come si apprende dalla descrizione presente in due epigrammi dell’Antologia Palatina (IV, 185; 318), di una rappresentazione dell’atleta colto nel momento più arduo della gara, ansimante, con i muscoli tesi in uno slancio che era quasi un volo: chi vedeva la statua sapeva che Ladas aveva poi vinto la gara, ed era invitato a ripercorrere idealmente l’intera corsa e a condividere con l’atleta la sua fatica e la sua ansia di vittoria.
Le fonti letterarie ricordano il nome di altri atleti vincitori ad Olimpia effigiati da Mirone, come il pancraziaste Timante di Cleone e Licinio spartano, vittorioso nella corsa dei carri: ma di queste statue nulla è noto. Poco o nulla si può dire anche delle statue di divinità e di figure mitologiche realizzate dallo scultore di Eleutere: uno xoanon in legno di Ecate ad Egina, un Dioniso a Orcomeno in Beozia, un Apollo con iscritto il nome di Mirone in piccole lettere d’argento, passato dal santuario di Asclepio ad Agrigento alle avide mani di Verre (Cicerone, Verrine, 2, 4, 43, 93), un altro Apollo ad Efeso, statue di Eracle, un Eretteo, ricordato da Pausania, e un Perseo, raffigurato dopo l’impresa di Medusa. Un celebre gruppo statuario di Zeus, Era ed Eracle realizzato da Mirone per il santuario di Era a Samo giunge a Roma per volontà di Marco Antonio; l’imperatore Augusto, con un atto di pietas, restituisce all’Heraion l’Atena e l’Eracle, ma dedica lo Zeus sul Campidoglio: è stato proposto di riconoscere una copia ridotta di quest’ultimo in un bronzetto con occhi in argento, di notevole fattura, del Museo Archeologico di Firenze. I tentativi di attribuire a Mirone, sulla base di considerazioni di carattere stilistico, opere conosciute in copie romane, riconoscendovi quelle citate dalle fonti, sono stati numerosi, ma assai problematici e non accettati unanimemente in ambito scientifico; basti ricordare la proposta di identificare una delle statue mironiane di Apollo in un tipo statuario noto in più repliche da un originale creato probabilmente intorno al 460 a.C., il cosiddetto Apollo dall’omphalos, sulla base di tangenze stilistiche con il Discobolo nella resa della muscolatura e dell’arcata toracica, e di una certa dinamica instabilità di posa. Ma, come già detto, l’arte severa è caratterizzata da una notevole omogeneità nella ricerca stilistica e formale e questo tipo scultoreo è stato ipoteticamente ricondotto anche ad altri artisti del periodo, tra cui Calamide. Altrettanto insoddisfacenti (nonché di scarsa utilità ai fini della ricostruzione della personalità artistica di Mirone) i tentativi di ricostruire un’eventuale tradizione copistica dell’opera di Mirone in assoluto più popolare nell’antichità: una vacca di bronzo, probabilmente un monumento votivo, in origine sull’acropoli di Atene e da qui giunta a Roma, dove era esposta nel Tempio della Pace di Vespasiano.
In una serie di epigrammi dell’Antologia Palatina si insiste sul suo straordinario naturalismo, tale da trarre in inganno un toro, convinto che si trattasse di una mucca in carne e ossa, o da suscitare negli spettatori l’attesa di un sonoro muggito. Questo genere di aneddotica, basata sulle qualità “magiche” dell’opera d’arte, talmente naturalistica da sembrare dotata di vita propria, ritorna frequentemente nelle fonti letterarie antiche che descrivono opere dei più celebri artisti greci (spesso si tratta di opere di pittori notissimi, come Apelle o Zeusi, e deriva probabilmente dalla banalizzazione di uno dei concetti chiave della critica d’arte antica a carattere professionistico, la mimesis (cioè la fedele imitazione, nelle arti figurative, della realtà di natura), attraverso le considerazioni di ciceroni improvvisati di fronte a originali greci che, per il fatto stesso di essere esposti al pubblico in luoghi di grande frequentazione (come, appunto, il Tempio della Pace a Roma), dovevano essere assai noti.