PEZZA, Michele
Nacque nel 1771 a Itri, piccolo centro arroccato lungo la via Appia tra Fondi e Formia, da Francesco e Arcangela Matrullo.
La modesta ascesa sociale del nucleo familiare, composto da altri tre maschi e otto femminile, ebbe inizio dopo la morte dell’avo Giuseppe Matrullo, quando, con l’assegnazione dei beni avuti in eredità, il padre divenne un piccolo imprenditore, che commerciava derrate agricole. Pezza, di carattere vivace e impulsivo manifestò da subito un temperamento violento e insofferente alla disciplina. A questi anni risalirebbe l’appellativo attribuitogli di Fra’ Diavolo, oggetto di varie interpretazioni da parte degli studiosi; la più accreditata è quella di aver vestito a lungo un saio nero per un voto fatto in seguito a una guarigione.
Lasciata la scuola, si impiegò come garzone presso i fratelli Eleuterio e Francesco Agresti, che lavoravano basti e finimenti. Nel 1796 per ignoti dissapori uccise entrambi e si diede alla macchia. La latitanza durò poco tempo: approfittando del reclutamento dell’esercito borbonico alla vigilia della Repubblica Romana, nel 1797 presentò domanda di commutare la pena per il reato commesso nel servizio militare e nell’ottobre ottenne parere favorevole per l’iscrizione in un reggimento siciliano per tredici anni. Si ignora se abbia preso parte alla marcia verso lo Stato pontificio e alla catastrofica ritirata.
Nel 1798 raccolse l’invito emanato da Ferdinando IV nel proclama del 15 dicembre di resistere all’invasore. Organizzate le truppe da utilizzare in rapide azioni di guerriglia, non si sa se contumace o disertore, si presentò il 17 dicembre al comandante del fortino di S. Andrea presso Itri, offrendosi insieme con i suoi uomini di resistere al nemico. Caduto il forte nelle mani dei franco-polacchi dopo undici giorni di combattimenti e arresosi il 30 dicembre quello di Gaeta, Itri divenne luogo di ripetuti saccheggi. Gli insorgenti, passate le truppe repubblicane, ripresero la guerriglia: il 7 gennaio 1799 attaccarono la guarnigione francese, rioccupata poi il 16 dal nemico, che massacrò la popolazione rimasta. Pezza, nascostosi sulle montagne, tornò di notte per curare il padre e poi dargli sepoltura in chiesa. Si rifugiò poi a Maranola, presso Formia, dove diffuse il proclama apocrifo di Ferdinando IV. Riorganizzatosi, ai primi di aprile avviò contatti con gli inglesi, che con una squadra navale pattugliavano Procida. Ricevuti cannoni e rifornimenti dal capitano Thomas Troubridge, radunò a maggio quasi 2000 massisti, che controllarono le vie di comunicazione sull’Appia, intercettando corrieri e documenti, inviati poi a Procida. Ai primi di giugno ebbe inizio l’assalto per terra e per mare al forte di Gaeta: Pezza concentrò gli uomini alla foce del Garigliano per interrompere ogni comunicazione con Capua, mentre navi inglesi bombardavano la fortezza. Dopo la resa dei giacobini napoletani, anche Gaeta si arrese il 30 luglio. Il cardinale Fabrizio Ruffo, preoccupato dell’indisciplina e delle violenze delle masse, composte soprattutto da fuorusciti e rei, nonché degli stretti rapporti del capomassa con gli inglesi, affidò il comando della piazza al colonnello siciliano Bernardo Beccadelli Bologna e vietò a Pezza di entrare nella città.
Il 5 agosto 1799, accompagnato da Troubridge, Pezza incontrò Ferdinando IV a bordo di una nave inglese e ricevette l’ordine di marciare su Roma. Secondo le direttive datogli da Ruffo, avanzò sull’Appia al comando di una divisione, in parallelo con quella del capomassa calabrese Giovan Battista Rodio, che, sconfitto, dovette ripiegare da Frascati. Pezza, invece, si assestò a Velletri ed emanò un proclama in cui invitava la popolazione a sottomettersi ai Borbone. Occupata Albano il 15 settembre, i suoi uomini si diedero a eccessi di ogni genere, saccheggi, rapine e omicidi. Per gli orrori commessi, all’arrivo delle formazioni regolari Pezza fu convocato insieme con alcuni suoi seguaci e imprigionato in Castel Sant’Angelo. Fuggì ai primi di dicembre e trovò rifugio ancora una volta tra i monti; fu quindi chiamato a Palermo da Ferdinando IV, che, volendo dopo il colpo del 28 Brumaio in Francia inquadrare le masse turbolente in una milizia regolare, gli condonò la fuga e la latitanza, gratificandolo di una rendita di 2500 ducati annui e del grado di colonnello.
Nel 1806, mentre l’armata francese invadeva nuovamente il Regno e inseguiva l’esercito borbonico fino in Calabria, Pezza fu incaricato da Ferdinando IV di costituire le masse degli irregolari e coprire il confine tra Itri e Cassino. A causa della soverchiante milizia nemica si rifugiò nel forte di Gaeta, da dove fu espulso per sospetta collaborazione con il ministro francese Antoine Christophe Saliceti. Inviato a fine aprile a Palermo, si legò al contrammiraglio inglese William Sidney Smith, che progettava la riconquista della parte continentale del Regno con strategiche incursioni sulle coste. Pezza sbarcò ai primi di luglio presso Amantea e ravvivò l’insurrezione in Calabria sbaragliando i francesi a Maida, borgo arroccato, sito nell’istmo più stretto della penisola.
Caduta però Gaeta l’8 luglio, mentre il maresciallo Massena soffocava la rivolta, che proseguiva lungo le coste del basso Cilento, Pezza si sposta a Sora dove inutilmente le forze nemiche cercarono di catturarlo con una strategia di accerchiamento. Inseguito dal reggimento di fanteria leggera guidato dal comandante Lèopold Sigisbert Hugo, decise di dividere le masse e, nel tentativo di arrivare alla costa e ricongiungersi con gli inglesi, passò con i suoi seguaci gli Appennini, per affacciarsi sull’Adriatico e contattare la flotta inglese presso le Tremiti. Sorpreso il 14 ottobre a Miranda, in Abruzzo, dal Matese si spostò con pochi compagni sui Monti Lattari presso Salerno, dove non poté imbarcarsi a causa della stretta sorveglianza della costa. Segnalato alle spie di Saliceti dalla guardia civica di Agerola, Pezza proseguì con pochi uomini la ritirata verso Scala e Montecorvino, dove il 27 ottobre fu ferito al petto da alcuni cacciatori che li avevano scambiati per disertori. Assaliti sui monti presso Eboli, tra la notte del 28 e 29 ottobre fu catturato, ma, non riconosciuto, fu rilasciato. Mentre i compagni furono fatti prigionieri dalle pattuglie di Campagna, Pezza, identificato, invece, da altri, fu accompagnato a un pagliaio in montagna a cinque chilometri da Eboli, dove fu rifocillato e curato. Consegnò ai suoi soccorritori diamanti in cambio di un imbarco e promise anche ricompense e gradi militari. Invece fu denunciato al commissario di polizia, nella speranza dell’immunità e della taglia posta sulla sua testa. Durante una lite scoppiata tra i soccorritori e coloro che lo avevano denunciato, riuscì a fuggire, cercando di raggiungere Napoli. Ferito, superò Fratte, presso Salerno, e il primo novembre si fermò, stremato, a Baronissi. Qui, entrato in una spezieria, fu riconosciuto dal titolare. Arrestato, condotto a Salerno e identificato, il 3 novembre fu portato nella capitale in una vettura circondata da lancieri polacchi. Il 10 novembre fu giudicato dal Tribunale straordinario riunito a Castel Capuano. Alla richiesta di declinare le generalità dichiarò di essere colonnello dell’esercito borbonico.
La sentenza di morte mediante impiccagione fu eseguita l'11 novembre a Castel Capuano in piazza del Mercato. Il corpo, sospeso fino a sera, fu sepolto nella chiesa degli Incurabili.
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