BONELLI, Michele
Nato a Bosco, presso Alessandria, il 25 nov. 1541 da Marco e Domenica Giberti, gli fu imposto il nome di Antonio, probabilmente in onore dello zio della madre, Antonio Ghislieri, più tardi fra' Michele e infine papa Pio V.
La figura e il modello del più illustre parente dominarono, la sua esistenza fin nei dettagli, suggerendo palesemente una serie di scelte che la incanalarono molto presto lungo la via già aperta dal Ghislieri. Questi aveva, è vero, esplicitamente scoraggiato qualunque speranza che i suoi consanguinei potevano nutrire di benefici riflessi della sua ascesa nella carriera ecclesiastica; ma ciò non impedì al B. di muoversi chiaramente nella sua scia. Dopo un breve periodo trascorso come apprendista sarto si dedicò agli studi, durante i quali fu mantenuto dal Ghislieri a Roma, presso il Collegio germanico. Intorno al 1560 fece professione nell'Ordine domenicano, col nome di Michele. Passato poi a Perugia, vi si trovava ancora all'epoca del conclave conclusosi con l'elezione di Pio V. La sua condotta privata si era fin allora ispirata ai rigorosi canoni morali imposti dal prozio, attento a seguire il principio che i "benefizi non si danno, e conferiscono alla carne, e al sangue, ma alla virtù, e al merito" (Maffei, p. 34). I primi dispacci da Roma sul nuovo papa segnalarono infatti nel B. un giovane che, per i suoi buoni costumi (e per la sua parentela con Pio V), si presentava come il più probabile successore del card. Borromeo nel ruolo di cardinal nipote. Il primo e decisivo atto in questo senso fu compiuto con la sua nomina cardinalizia, seguita il 6 marzo 1566; ebbe come titolo la chiesa domenicana di S. Maria sopra Minerva, lasciato vacante dal Ghislieri e, come lui, fu abitualmente chiamato il cardinal Alessandrino.
Sembra che la sua ascesa al ruolo di cardinal nipote sia stata dovuta, più che a una precisa volontà di Pio V, poco incline a delegare ad altri una qualunque autorità, alle pressioni dei cardinali stessi, e in particolare del cardinal Farnese, mal tollerante del rigido e sospettoso controllo personale del papa su tutti gli affari e della posizione privilegiata che stava assumendo in questo senso il cardinal Reumano (Serrano, I, p. 108). Si spiega in tal modo la supplica presentata in concistoro ai primi di marzo da molti cardinali "che volesse far il nepote cardinale" (dispaccio di P. Tiepolo del 9 marzo: Törne, pp. 241 s.), anche se non mancò una certa opposizione da parte di chi, come il cardinal di Trani, invitando all'osservanza dei decreti tridentini, fece rilevare che il B. non aveva l'età canonica. Fu comunque evidente per tutti che il neocardinale era completamente inesperto e non mancava poi chi gli associava lo stesso papa in questo giudizio d'inesperienza (Törne, pp. 241 ss.). La mancanza di pratica curiale del B. e la sua debole personalità furono probabilmente i fattori decisivi che spinsero il Farnese a raccomandarlo e Pio V ad associarselo, nella direzione degli affari. Nei brevi con cui gli venivano affidati i suoi compiti (Arch. Segr. Vat., Arm. XLII, 25, ff. 230, 461) si sottolineava molto chiaramente che tutte le decisioni da prendersi avrebbero dovuto esser ratificate dal papa, pena la nullità.
Nel periodo di apprendistato che seguì, i dispacci da Roma sono concordi nel segnalare l'attività del B. nelle varie congregazioni cardinalizie e la sua crescente sicurezza nel maneggio degli affari. "Le congregationi ... sono sopra le cose del Concilio de la Inquisitione et de lo Stato de la Chiesa et in questo comincia ad intravenire il Card. Alessandrino il qual comincia ad haver tutte le facende o poco manco", scriveva il Luzzara il 22 marzo 1566 (Arch. Gonzaga di Mantova, Esteri Roma 797). Anche Galeazzo Cusano, ambasciatore di Massimiliano II, si stupiva dell'insospettata abilità del B.: "...Pare s'accomoda molto meglio al negotiare di quello si aspettava, et si stima, che reuscirà et sodisferà assai più di quello non hanno fatto li nipoti di Pio IV" (Nuntiaturberichte, V, p. 164). In realtà, il confronto col Borromeo risulta nettamente sfavorevole al B., che conservò una posizione subordinata e completamente priva di autonomia nei confronti del papa. La tendenza fortemente accentratrice e autoritaria di questo favorì una riduzione dei compiti e delle attribuzioni della figura del cardinal nipote, accanto al quale venne prendendo sempre maggior rilievo l'ufficio del segretario domestico, ricoperto dal Rusticucci. Un processo analogo si era già andato delineando negli ultimi anni del pontificato di Pio IV. Il B. cercò fin dall'inizio di mantenersi all'altezza dei suoi compiti, quali gli venivano presentati da una tradizione particolarmente ricca e significativa. Ciò gli costò non pochi scontri col papa, le cui rigide concezioni in materia non consentivano molta libertà di movimenti. All'inizio, mentre la direzione degli affari diplomatici restava nelle mani del cardinal Reumano, il quale aveva la piena fiducia di Pio V, il B. fu assistito nel suo apprendistato dai cardinali Farnese e Vitelli. Il Farnese sperava, per questa via, di ritagliarsi un'ampia fetta di potere personale che gli permettesse di preparare il futuro conclave in modo che non si ripetesse per lui il precedente fallimento. Il progetto andò presto frustrato; già il 30 marzo Luzzara scriveva: "Farnese non continua più tanto il Pallazzo come faceva già, né meno Vitelli, et il card. Alessandrino già quasi fa tutti i negotii" (Arch. Gonzaga di Mantova, Esteri Roma 897). Non si trattò d'uno svolgimento naturale e pacifico; è, anzi, significativo della ben scarsa autonomia di cui godeva il B. il fatto che l'allontanamento di Farnese e Vitelli fu imposto dal papa, il quale, nel caso del Vitelli, "prohibì quasi il trattar con detto Cardinale" quando venne a sapere che aveva consigliato al B. di chiedere per sé "certe spoglie di Spagna" (Ibid., dispaccio del Luzzara del 15 maggio). La scenata che ne seguì fu talmente violenta che il B. cadde ammalato. Comunque, con l'allontanamento dei due consiglieri e con la malattia e la morte del card. Reumano, il B. si trovò a dirigere personalmente tutti gli affari fin dall'aprile 1566. Il ritratto che ce ne hanno lasciato i contemporanei è quello di un giovane prelato, di media statura, "di faccia non troppo allegra, de costumi veramente buoni" (Dengel, V, p. 164), che godeva - e sia pure a prezzo di un rigido e intollerante controllo con frequenti episodi del tipo di quello citato - la piena fiducia di Pio V, per accedere al quale occorreva la sua intercessione.
Dopo la morte del Reumano il B. si trasferì nell'appartamento della torre Borgia, più adeguato alla nuova posizione. La sua "provisione" in un primo tempo era stata fissata in cento ducati al mese (Pastor, VIII, p. 55), ma nel giugno 1566 fu aumentata a cinquecento scudi (dispaccio del Luzzara, 1º giugno, Arch. Gonzaga, Esteri Roma 897). Per tutto quel che riguardava il tenore di vita, dovette però assoggettarsi al più rigido controllo di Pio V, che ritenne giusto esigere un comportamento tale da servire da modello a tutti gli altri cardinali; perciò, se con questi furono frequenti gli attriti per il tono eccessivamente mondano che il papa credette di constatare nei loro costumi, simili contrasti si produssero anche col morigerato ma non ascetico pronipote. Così, quando il card. Farnese offrì al B. un beneficio di duemila scudi sulla diocesi d'Avignone, Pio V gli proibì di accettarlo (Ibid., Luzzara, 3 aprile).
Ben più grave fu lo scontro fra i due in un episodio che mostrò quanto poco il B. condividesse la rigida concezione della vita sacerdotale propria del papa; verso la fine dell'agosto 1566 trapelarono nei dispacci in partenza da Roma alcuni dettagli di uno scandalo che aveva gravemente intaccato la fiducia di Pio V nel pronipote. Ne era protagonista, insieme al B., la figura di una nota cortigiana, la "Doralice", che era riuscita a eludere la custodia esercitata sul giovane cardinale - per incarico di Pio V - dal domenicano P. Locatelli. Accusato di "qualche piacer lascivo" davanti a un papa che aveva con le cortigiane aspra questione e che intendeva portare avanti risolutamente un ampio programma di restaurazione morale e disciplinare, il B. fu costretto a stare "un poco ritirato", senza per questo abbandonare la direzione degli affari: "ma con S.S.tà va più riservato che non soleva" (Luzzara, 20 ag. 1566: Arch. Gonzaga di Mantova, Esteri Roma 897). Lo scandalo fu soffocato e non incise durevolmente nei rapporti con Pio V; le stesse iniziali rigidezze del papa in materia di benefici e di entrate finirono col mitigarsi considerevolmente.
Il B. ebbe infatti, come testimonia la relazione dell'ambasciatore veneziano P. Tiepolo, "25.000 scudi d'entrata, computati li 3.000 di pensione che gli ha dato il re Cattolico" (Alberi, s. 2, IV, p. 177); nel novembre 1567 ebbe una pensione di tremila scudi su di una abbazia del Commendone, altri mille su un'altra del Cornaro e una prepositura in diocesi di Milano. La concessione di un priorato vacante nell'Ordine dei cavalieri di Malta provocò l'irritata reazione del gran maestro (lettera a Pio V del 1º luglio 1568: copia in Arch. Segr. Vaticano, Misc. Arm. II, 63, f. 73rv), preoccupato che per quella via si ledessero i privilegi dell'Ordine. Una così inusitata larghezza non mancò di stupire chi aveva imparato a conoscere Pio V. Di fatto sembra che il B., per volontà del papa, si servisse delle sue ricchezze per aiutare i parenti che studiavano, seguendo il suo esempio, al Collegio germanico. Alla fine del novembre 1568, resosi vacante l'ufficio di camerlengo in seguito alla morte del card. Vitelli, Pio V decise di assegnarlo al pronipote (dispaccio di C. Capilupi del 5 dic. 1568, Arch. Gonzaga, Esteri Roma 900); questi dovette rinunziarvi nel maggio 1570 a favore di L. Cornaro. Dall'operazione furono ricavati 70.000 scudi, che furono destinati alla guerra contro i Turchi, mentre il B. venne indennizzato con la commenda dell'abbazia di S. Michele di Chiusi.
Nonostante un trattamento così insolitamente largo, il B. era però tutt'altro che soddisfatto della propria posizione in Curia. Il fatto che il papa non gli lasciasse molta libertà di azione, lo portava a confrontare amaramente la sua posizione con quella di coloro che lo avevano preceduto nel ruolo di cardinal nipote: "gli altri havevano autorità dal Papa et io non n'ho alcuna". La reazione di dispetto del B. rivela la coscienza dell'importanza assunta dal cardinal nipote; per questa figura si doveva proporre in seguito come modello storico il "dittatore" di Roma repubblicana, intuendone esattamente il significato nella crisi del Senato cardinalizio e nello sviluppo dell'assolutismo nello Stato Pontificio (Instruttione,et avvertimenti all'Ill.mo CardinalMontalto sopra il modo,col quale si possa,et debba ben governarecome Cardinale,et Nipote di Papa, Parigi, Bibl. Nat., ms. It. 1177, ff. 277r-317v). Ma sotto Pio V la debole personalità del B. e la scarsa fiducia che il papa continuò a nutrire in lui fino agli ultimi anni del pontificato (cfr. Pastor, VIII, p. 103), pur senza apportare variazioni formali alle competenze del cardinal nipote, ne ridussero sostanzialmente le responsabilità a quelle di un esecutore.
Pur occupandosi della corrispondenza diplomatica, le sue cure furono rivolte inizialmente soprattutto allo Stato pontificio. Significativa del suo atteggiamento in proposito è la posizione da lui assunta di fronte alle questioni sollevate dall'arcivescovo di Bologna, card. Paleotti, a proposito dei rapporti tra vescovi e governatori nello Stato. Il problema, del quale il B. fu investito fin dal maggio 1567 tramite una lettera del Paleotti aveva avuto origine da un conflitto di giurisdizione tra questi ed il governatore, ma aveva implicazioni più vaste che concernevano la figura e l'autorità del vescovo in generale e l'applicazione dei decreti del concilio di Trento. Il B., in un colloquio (giugno 1568), con l'agente del Paleotti a Roma, Luigi Amorini, e in una lettera al governatore di Bologna, prese posizione a favore di quest'ultimo, approvandone completamente l'operato e contestando la liccità del ricorso fatto dal Paleotti alla Congregazione del concilio. Per la soluzione del problema Pio V istituì in seguito una commissione, formata dal medesimo Paleotti e dai cardinali Alciati e Chiesa, assumendo un atteggiamento di minor durezza ed intransigenza del pronipote il quale, seppur ispirato da lui, aveva però mostrato chiaramente in quale direzione lo portassero le sue personali tendenze.
Nella direzione degli affari diplomatici la sua posizione fu in realtà secondaria, anche per il peso che ebbe in tale materia il segretario personale del papa, Rusticucci; questi, soprattutto negli ultimi anni del pontificato di Pio V, in seguito anche alle forzate assenze del B., dovette occuparsi del disbrigo di tutta la corrispondenza diplomatica. Comunque, fra i due non si ebbero mai veri e propri conflitti di autorità, e il loro rapporto venne consolidato da un vincolo di parentela grazie al matrimonio di un fratello del B., Girolamo, con Adamante Peruzzi, nipote del Rusticucci. Quando si pose il problema della nomina cardinalizia del Rusticucci fu il B. a raccomandarlo. Tuttavia, anche se era chiaro per l'ambasciatore spagnolo a Roma Zuñiga che il papa "no comete al Card. Alexandrino negocios sino los del govierno del estado de la Yglesia" (Serrano, III, p. 199), si cercò comunque di conquistarne il favore da parte di chi, come Filippo II, era particolarmente interessato agli indirizzi della politica pontificia. I doni fatti a questo scopo, e soprattutto la pensione di tremila ducati destinata al B. nel 1568, furono da questo ben accettati, nonostante l'invito a rifiutarli che gli venne dallo stesso papa. Non se ne aveva però molta stima: lo Zuñiga parlava di lui come di un "buen moço", che però "no tiene muchas letras ni sufiçiençia" (ibid., III, p. 156), e ribadiva: "Es buena persona, pero vale muy poco" (ibid., IV, p. 377). Questo, e il peso del carattere ben altrimenti deciso e autoritario di Pio V spiegano come sia difficile rintracciare nella corrispondenza ufficiale del B. di questi anni qualcosa di più di una trascrizione fedele delle direttive del papa; questi del resto giunse anche a prendere iniziative che tenne segrete al pronipote. L'unico affare in cui la posizione personale del B. sembra aver avuto una qualche importanza fu la concessione del titolo granducale a Cosimo I; fu nel suo appartamento che risiedette Cosimo a Roma nei mesi di febbraio-marzo 1570. La propensione mostrata dal B. per il neogranduca venne spiegata dall'irritato Zuñiga, colto di sorpresa dall'avvenimento, con l'amicizia che lo legava al card. Medici (ibid., IV, p. 377). Un ambito in cui il B. godette di una certa autonomia fu quello dei provvedimenti presi a favore dei suoi familiari. Le raccomandazioni per il padre Marco, ancora residente a Bosco, e per il fratello Girolamo, che si incontrano ripetutamente nei dispacci al nunzio di Savoia, mostrano che si tendeva per questa via a supplire alla mancanza di iniziative dirette del papa a favore dei parenti. Il nunzio stesso si fece un obbligo di recarsi in visita a Bosco; quanto fosse divenuta eccezionale, grazie a queste raccomandazioni, la posizione della famiglia Bonelli presso il duca di Savoia lo mostra il curioso episodio degli anonimi truffatori che, falsificando la firma di Marco B., riuscirono a farsi concedere dal duca "una tratta di 100 sacchi di grano et 25 di biada" (Nunz. di Savoia, I, 266). Anche Girolamo Bonelli dovette alle insistenti raccomandazioni del fratello la sua rapida carriera a corte. Al di là, però, di queste preoccupazioni familiari veniva meno per il B. ogni autonomia di movimenti, riducendosi a essere il fedele trascrittore delle direttive papali: questo vale per tutti i dispacci che dovette redigere per i nunzi in Germania ed in Spagna, nei quali è assai difficile rintracciare accenni personali. Quello che è forse il più ampio e diffuso di questi testi, l'unico in cui l'occasione immediata viene superata in un ampio discorso a carattere generale, che potrebbe esser rivelatore della cultura e delle idee del suo autore, non sfugge probabilmente alla regola. Nel marzo 1567, volendosi convincere Filippo II a recarsi personalmente nei Paesi Bassi per sedare le rivolte che vi erano scoppiate, gli fu fatto pervenire tramite il nunzio Castagna un documento che esprimeva con grande ricchezza di argomenti il punto di vista papale, favorevole ad un intervento massiccio e diretto in primo luogo a ristabilire l'ortodossia come unica fonte di "ferma pace et tranquillità de gli stati"; anche sulla base della "ragion politica" o "ragion di stato" si dimostrava la convenienza per il re di usare con decisione la forza e di rinunziare ad ogni forma di tolleranza, dissimulando tutt'al più le sue vere intenzioni "nel modo che tal hora fanno i medici, i quali mentre si approssimano all'infermo, et stanno apostando la radice della piaga et il luogo della percossa, dissimulano quello che intendono di fare per benefitio dell'infermo" (Serrano, II, p. 61). Ogni forma di tolleranza, scrive ancora il B., è sommamente deleteria, perché a causa di essa "turbato horamai ogni ordine, spento ogni dovere, vanno li principati christiani miseramente riducendosi à dimocratie, ò per dir meglio, à un horribile et universale anarchia" (ibid., II, p. 67). Si tratta di un documento significativo della concezione che si aveva sotto Pio V dei doveri dei principi cristiani e del modo in cui si dovevano trattare gli "eretici"; nello stesso tempo, lo stile in cui è redatto mostra nel B. gusto ed interesse non superficiali per la problematica della "ragion di stato". Del resto, i suoi interessi culturali sembrano essere stati meno ristretti di quelli del prozio, e il suo atteggiamento in materia non improntato ad altrettanto rigida chiusura.
La successiva carriera portò il B. direttamente a contatto con i principali tentativi di Pio V di dar corpo a queste sue idee, e cioè la organizzazione della lega contro i Turchi e la reazione contro il pericolo degli ugonotti in Francia.
Alle trattative per la lega il B. partecipò assiduamente, eccettuato il periodo fra il luglio e l'agosto 1570, durante il quale fu costretto a ritirarsi per una grave indisposizione. La conclusione delle trattative si ebbe con la firma dei capitoli, che egli poté annunziare come ormai definitiva il 18 maggio 1571; in forma solenne essa ebbe luogo la domenica 20 maggio, "in camera III.mi et R.mi Card. Alexandrini" (Serrano, IV, pp. 281-283). Subito dopo, e in stretto rapporto coi problemi della lega nacque il progetto di inviare il B. come legato presso Filippo II. La legazione, che costituì l'avvenimento più rilevante nell'ambito dell'attività politico-diplomatica del B., poté essere annunziata al re di Spagna dal suo ambasciatore a Roma Zuñiga fin dal 25 maggio 1571, ma il progetto era già vecchio di qualche mese; la scelta del B. fu dovuta al desiderio evidente che questi aveva mostrato di avere un tale incarico, che si preannunziava prestigioso ed esente da sostanziali difficoltà, ed alla volontà del papa di mostrare la propria predilezione per Filippo II inviandogli il cardinal nipote. Non venne richiesto invece in alcun modo il consenso del concistoro, ormai esautorato, perché - nota lo Zuñiga - "ni para esto ni para otras cosas no le [a Pio V] pareçe que ha menester el consejo de los Cardenales" (ibid., IV, p. 315). Da parte spagnola, però, non si era entusiasti dell'iniziativa, e l'ambasciatore tentò con tutti i mezzi di dilazionarla perché si sospettava a ragione che dietro il pretesto di una missione puramente gratulatoria per la conclusione della lega il B. avesse istruzione di trattare anche gli altri problemi che erano affiorati in tutti quegli anni nei rapporti tra Papato e Spagna; soprattutto, il titolo granducale concesso a Cosimo I e tutto il contenzioso giurisdizionale accumulatosi in quegli anni, in particolare quello relativo ai possedimenti spagnoli in Italia. Faceva parte del primitivo disegno della legazione anche l'andata del B. in Portogallo, sia per ottenerne l'adesione alla lega sia per la questione delle progettate nozze di quel re con Margherita di Valois. Superate le difficoltà opposte dallo Zuñiga, che sperava di poter rinviare la legazione fino a che non maturassero fatti nuovi che la impedissero del tutto, e respinte le obiezioni di parte francese, che cioè l'invio di un consanguineo del papa in Spagna fosse prova di una eccessiva e ingiusta predilezione per Filippo Il, i preparativi furono fatti velocemente; il 18 giugno fu cominciata la redazione delle istruzioni e dei privilegi per il legato (Bibl. Apost. Vat., Barb. lat. 2412, ff. 55r-62v). Lo Zuñiga, venuto a sapere che in esse si sarebbe trattato anche di questioni giurisdizionali, tentò di nuovo di convincere il B. "que procure de no encargarse de negocios tan fastidiosos" (Serrano, IV, p. 343). Una di queste istruzioni, fra le prime ad esser redatta, fu destinata da Pio V a regolare il comportamento del B. e del suo seguito con precetti minuziosi relativi anche al numero ed al tipo delle pratiche di pietà; si concludeva con l'invito a regolarsi "in modo che si dia essempio or sia edificatione per dove si andrà" (ibid., pp. 357 s.; le "scritture" in Arch. Segr. Vat., Misc. Arm. II, 82, ff. 385r-400r). La solenne "spedizione" del legato ebbe luogo il 29 giugno, ed il 30 la comitiva si mise in viaggio; ne facevano parte un numero cospicuo di personaggi notevoli, la cui presenza era destinata a sottolineare il carattere solenne della missione. Oltre al segretario G. B. Venturini da Fabriano, che lasciò un'ampia e gustosa relazione dei luoghi visitati, si ricordano: Ippolito Aldobrandini (poi Clemente VIII), Alessandro Riario, Ippolito Rossi, Cesare Speciano; si aggiunsero in seguito il domenicano Juan Gallo (Serrano, IV, 350 n.) e il generale della Compagnia di Gesù Francesco Borgia. La comitiva era a Torino il 31 luglio (lettera del B. a Rusticucci in tale data; copia in Bibl. d. Acc. d. Lincei, Corsin. 505), e a Madrid il 30 settembre (lettera al papa, ibid). Qui si era già diffusa la notizia della legazione, i cui scopi l'ambasciatore veneziano Leonardo Donà era in grado di indicare con precisione fin dall'agosto: "accender il re alli apparecchi della guerra, le difficoltà solite delle giurisdittioni ecclesiastice, l'accomodar, se si potrà, li romori del titolo di Fiorenza et sopra tutto procurar che, col mezzo di questa Maestà, l'imperator si risolva di entrar nella lega" (Brunetti-Vitale, I, pp. 350 s.). Su tutte queste materie il B. partiva con la speranza che "habbino a passar bene", come scriveva a Rusticucci il 30 settembre (Serrano, IV, p. 448), e il nunzio Castagna per parte sua assicurava che i suoi modi, la "mescolanza di humiltà, cortesia et insieme gravità" mostrata nell'incontro con Filippo II avevano fatto un'ottima impressione (ibid.). Le trattative si avviarono rapidamente: nella prima udienza del 2 ottobre il B. chiese che i preparativi per la lega fossero portati avanti senza indugio e che si operasse per l'ingresso in essa dell'imperatore e del re di Francia. Le difficoltà che il card. Commendone incontrava intanto presso Massimiliano II consigliavano un sollecito intervento di Filippo II; si sperava inoltre che, tramite l'imperatore, si sarebbe potuto ottenere agevolmente il desiderato ingresso della Francia. Non avendo ottenuto risposta a questo secondo punto e avendo constatato un atteggiamento evasivo del re, il B. gli fece recapitare in proposito un memoriale. Nella seconda udienza, che ebbe luogo l'11 ottobre, furono affrontati i problemi giurisdizionali dei domini spagnoli in Italia e la questione del titolo granducale di Cosimo I; su questi punti il B. espose le motivazioni ufficiali e le richieste del papa, senza ottenere però nessuna risposta soddisfacente. Giunse intanto il 31 ottobre la notizia della vittoria di Lepanto, ed il giorno successivo fu dedicato ai festeggiamenti, che vennero resi particolarmente solenni dalla presenza del B.; la missione intanto volgeva al termine senza che si fosse ottenuto niente di tangibile, e con un sostanziale insuccesso nelle materie giurisdizionali; un nuovo tentativo di strappare qualche concessione fu fatto dal B. il 10 novembre nel corso di un nuovo incontro col re, da lui sollecitato, che si concluse però senza modificare l'impressione precedente, che cioè "con molte honorate parole in fine se negavano le cose più principali" (B. a Rusticucci, 17 nov.; Serrano, IV, p. 524). Alla vigilia della partenza da Madrid intanto la missione del B., lungi dall'avviarsi alla sua conclusione, si era andata complicando; il disegno originario prevedeva un prolungamento del viaggio fino in Portogallo, dove si dava per scontato il successo della richiesta da fare a quel re di accedere alla lega. Nel corso della legazione aveva però preso corpo l'idea di un prolungamento della medesima fino in Francia, perché solo là poteva essere risolta la spinosa questione del matrimonio di Margherita di Valois. Durante tutto il periodo della sua permanenza in Spagna il B. aveva tentato inutilmente per le normali vie diplomatiche di ottenere che Carlo IX rinunciasse al progetto di dar in sposa Margherita a Enrico di Borbone che aveva suscitato a Roma gravissime apprensioni. Si era concretato in tale situazione un disegno di cui si era parlato in maniera vaga anche nel mesi precedenti: inviare il B. in Francia. Il Rusticucci gliene dava avviso il 3 novembre, informandolo che si stavano preparando le istruzioni, e che comunque il papa era fermamente deciso a non concedere la dispensa per le nozze con un ugonotto "se prima non gli vedrà reconciliati con la Chiesa" (Serrano, IV, p. 509). L'urgenza della cosa si era comunque fatta evidente, tanto che ormai una ulteriore permanenza del B. in Spagna o una sua legazione troppo prolungata in Portogallo venivano avvertiti dal papa come intollerabili ritardi. Di tutto questo i primi a rallegrarsene furono gli Spagnoli; una partenza anticipata del B. permetteva di rinviare con risposte non impegnative una trattativa sui problemi giurisdizionali e quindi, come scriveva lo Zuñiga a Filippo II, "serà librar a V. M. de mucha pesadumbre" (ibid., p. 518). Il 16 novembre ne fu parlato in concistoro, dove tutti i cardinali furono d'accordo sull'urgenza dell'invio del B., per la cui condotta il cardinal Morone fu particolarmente prodigo di lodi. Il 17 furono redatti i brevi (Arch. Segr. Vat., Arm. 44, 19, f. 425), e nella stessa data il B. prendeva licenza da Filippo II; essa apparve "improvvisa" e precipitosa a chi, come l'ambasciatore veneziano a Madrid, conosceva il carattere provvisorio ed evasivo delle risposte che il B. aveva ottenuto dal re fino ad allora (Brunetti-Vitale, I, 385). Dopo aver rifiutato, secondo le istruzioni papali, un dono in denaro di Filippo II, il B. partì il 19 per il Portogallo. Come si prevedeva, non furono incontrate sostanziali difficoltà in questa parte della missione; il re del Portogallo si dichiarò pronto ad entrare nella lega e disposto a superare ogni ostacolo per il matrimonio con Margherita di Valois. Particolarmente strana apparve quindi la durata della permanenza del B. a Lisbona a quanti si aspettavano una sua sollecita partenza per la Francia. Per farlo partire occorse una sollecitazione esplicita del papa (Hirschauer, p. 83), ed il Rusticucci gli scrisse per rimproverarlo del suo "molto tardare" (Serrano, IV, p. 576). Solo il 28 dicembre il B. era di nuovo a Madrid, pronto a mettersi in viaggio per la Francia, dove intanto Pio V si era visto costretto a farlo precedere dal nunzio Salviati per bloccare la temuta riconciliazione con gli ugonotti. La spiegazione di questa lentezza stava probabilmente nella riluttanza del B. ad affrontare un viaggio i cui pericoli gli apparivano "grandissimi passando vicino alla Roscella, e per il stato di quell'empia femina di Bearne" (1º genn. 1572, ibid., IV, p. 604). Ma, più ancora, lo rendeva riluttante la prospettiva di un non facile negoziato che egli prevedeva destinato in partenza al fallimento (lettera al Rusticucci del 30 dic.; Bibl. d. Accad. d. Lincei, Corsin. 505, ff. 44v-45r). Durante il viaggio, le difficoltà iniziarono fin dalla frontiera francese, dove l'inviato del re Saint-Sulpice (di cui erano, fra l'altro, note le simpatie per gli ugonotti) si fece attendere per sei giorni, ignorando tutte le sollecitazioni; il viaggio sotto la guida di un simile accompagnatore si svolse poi, come scriveva l'Aldobrandini, "facendo la strada della serpe, guidandoci à dextra et à sinistra" (al Castagna, da Blois, 22 febbr. 1572; Arch. Segr. Vat., Nunz. Sp. reg. 6, f. 392; Hirschauer, p. 87 n.). Lo scopo di tutti questi ritardi era evidente; essendo imminente l'andata a corte di Jeanne d'Albret per concludere il matrimonio, si desiderava che il B. arrivasse a cose fatte. Ma questi, accelerando i tempi nell'ultimo tratto del viaggio, riuscì a precedere la regina di Navarra che seguiva la medesima strada. Accolto a Blois con grandi onori il 7 febbraio, si rese però conto molto presto di doversi contentare della soddisfazione di aver tolto "a queste Maestà una risposta: voi sete giunto tardi" (lettera al Rusticucci del 9 febbr.; Corsin. 505, f. 59). Il primo incontro con Carlo IX, infatti, non approdò a niente di concreto; intanto a Chenonceaux, dove la regina di Navarra era stata costretta a fermarsi, si ebbe tra questa e Caterina de' Medici un incontro, il cui esito poco felice risollevò in parte le speranze del Bonelli. Ma il decorso successivo dei colloqui, cui prese parte sostanziale anche il generale dei gesuiti, Francesco Borgia, inviato da Filippo II in appoggio al B., fu fallimentare: il re rifiutava l'accesso alla lega e la pubblicazione in Francia dei decreti del concilio di Trento, oltre a mantenersi fermo nella sua decisione di dar Margherita in moglie a Enrico di Borbone. Di conseguenza, il B. abbandonò la corte il 24 febbraio, irritato per "tanta mala dispositione" (lettera al Castagna del 22 febbr.; Serrano, IV, p. 673). Da Lione il 6 marzo inviò al Rusticucci un dispaccio nel quale, pur dichiarando di non aver ottenuto "conclusione alcuna conforme al desiderio di Sua Beatitudine" per quanto riguardava le questioni della lega e del matrimonio portoghese, concludeva però con una frase che ha dato occasione a congetture e discussioni infinite: "non dimeno, con alcuni particulari ch'io porto, dei quali raguaglierò Nostro Signore à bocca, posso dir di non partirmi à fatto mal espedito" (Corsin. 505, ff. 63v-64r; Hirschauer, p. 183).
Quali fossero questi "particulari", nessun documento contemporaneo permette di accertarlo. Ma la frase è stata caricata di implicazioni gravissime nel corso di una lunga polemica iniziata dal Ranke e sviluppatasi soprattutto intorno al concilio vaticano I; essa è stata considerata come la prova principale di una "premeditazione" della strage della notte di S. Bartolomeo. Tale strage sarebbe stata quindi decisa molto tempo prima da Carlo IX e Caterina de' Medici, che si sarebbero serviti del B. per mettere al corrente del loro progetto il papa. Perdurando l'impossibilità di stabilire come di fatto le cose si siano svolte, si può osservare che l'accenno del B. può tranquillamente riferirsi a un qualunque dettaglio dei suoi colloqui col re, ed è chiaramente motivato dal desiderio di non far apparire come del tutto inutile e fallimentare una legazione, il cui esito poteva incidere sul suo personale prestigio. Occorre, però, ricordare che l'idea di una "premeditazione" della strage, prima ancora di venir sostenuta come accusa contro Pio V (e respinta con indignazione da parte cattolica) nell'Ottocento, godette di una certa fortuna proprio nella cerchia del B.; anzi, sull'onda dell'entusiasmo suscitato a Roma dalla notizia della strage, si volle presentare come titolo di merito per il cardinal nipote l'aver egli partecipato appieno agli "stratagemmi" di Carlo IX. Nelle biografie di Pio V del Gabuzio e del Catena si riportano anche le frasi con cui il re di Francia avrebbe comunicato al B. di volersi servire dell'occasione del matrimonio per "assicurare in Parigi l'Ammiraglio Coligni... soggiungendo, o io voglio punir questi malvagi, et felloni, facendogli tagliar tutti a pezzi, o non esser Re, perdendo affatto la corona" (Catena, p. 197). Le idee di Pio V sui doveri dei principi cristiani, sul modo di trattar con gli eretici e sulla "dissimulazione" da usare in certe circostanze - tutte, come si è visto accettate dal B. - avevano creato il terreno adatto per la fioritura di questa ricostruzione dei fatti, la cui veridicità resta però da provare.
Di ritorno dalla Francia, il B. giunse a Torino il 12 marzo 1572 e, dopo una sosta a Bosco, proseguì per Roma, dove giunse il 4 aprile, in tempo per assistere Pio V nel suo ultimo mese di vita. Nel conclave che seguì, "per esser egli fresco Nipote di Papa era potentissimo ne' suffragj" (Maffei, I, p. 16); il card. Farnese, per non esserselo saputo cattivare, vide così compromessa l'ambita elezione. Il B., come capo dei cardinali di Pio V, sollevò qualche difficoltà all'elezione di Boncompagni (poi Gregorio XIII), creatura di Pio IV, ricordando i contrasti che lo avevano opposto al defunto pontefice. A elezione avvenuta, cercò di riguadagnarsene il favore segnalandosi in concistoro per il suo contegno remissivo e obbediente. Di fatto, pur non conservando la posizione eminente di cui aveva goduto fino ad allora, mantenne ugualmente compiti e poteri rilevanti; membro della Congregazione dell'Indice, si occupò, assieme al Sirleto, al Paleotti e ad altri, della revisione e della nuova edizione dell'Indice. Fu anche membro della Congregazione del concilio. Ma le sue cure principali andarono in questi anni all'Ordine domenicano; quale cardinal protettore, è facile intuire come il suo mai smentito attaccamento all'Ordine lo spingesse a operare nella direzione - già delineatasi con Pio V - del rafforzamento e dell'ampliamento dei privilegi dei religiosi. In questa azione ebbe come collaboratori figure di religiosi legati a lui anche da vincoli personali, come fu il caso del p. Agostino de Castiglione Fusco, incaricato della riforma a Napoli nel 1583, il quale era stato maestro del B. all'epoca del suo noviziato. Continuò anche a occuparsi delle private fortune dei suoi familiari: il fratello Girolamo fu da lui fatto nominare comandante delle milizie papali per la difesa di Roma subito dopo la morte di Pio V; si preoccupò anche dell'ampliamento dei possessi della famiglia. Dopo la morte di Gregorio XIII, nel conclave del 1585, la scelta fatta dal B. di appoggiare il card. Peretti risultò determinante per l'esito finale; ma i rapporti col nuovo papa non furono così felici come sarebbe stato lecito attendersi. Alla fine del 1585 il B. era caduto in disgrazia perché, ingannato come molti altri dalle apparenze, aveva creduto che il nuovo eletto fosse un uomo di scarsa energia, dietro la cui nominale autorità poter esercitare indisturbato il potere. Così, dopo un primo momento nel quale erano tornati alla ribalta gli uomini di Pio V con le loro antiche attribuzioni (il card. Rusticucci come segretario ed il B. come capo della Consulta per gli affari dello Stato pontificio), nel gennaio 1586 quest'ultimo fu sostituito dal card. Peretti e, dietro speciosi motivi di salute, si ritirò completamente dagli incarichi precedenti. Oggetto delle sue cure rimase l'Ordine domenicano e, quale riconoscimento dell'attività svolta in questo campo, fu nominato prefetto della Congregazione dei regolari, istituita nel 1586. Nel conclave del 1590 il B., per il quale non si pose nemmeno il problema di una eventuale candidatura, portò avanti senza successo il nome di Aldobrandini, suo antico compagno nella legazione del 1571 (il quale, divenuto più tardi col suo appoggio papa Clemente VIII, gli fece erigere nel 1611 un monumento sepolcrale nella chiesa di S. Maria sopra Minerva). Si oppose invece fino in fondo alla candidatura del card. Castagna, il quale peraltro fu eletto - col nome di Urbano VII - e tenne anzi a mostrarsi magnanimo verso l'antico avversario concedendogli vari favori.
La sua posizione in Curia nel corso degli anni si era sempre più nettamente caratterizzata in senso rigidamente filospagnolo, tanto che in occasione del conclave da cui uscì papa Urbano VII egli si oppose a che si invitassero i cardinali francesi; quando poi l'ambasciatore francese Du Perron nel 1595 si recò a visitare i cardinali per caldeggiare la causa dell'assoluzione di Enrico IV, il B. fu l'unico al quale egli giudicò inutile rivolgersi. Sopravvivevano in lui certe chiusure e rigidezze di Pio V, anche se le sue personali tendenze contrastavano con l'ascetismo rigoroso ed intransigente del suo più illustre parente; il fatto che la sua collezione di quadri fosse una delle più importanti in quel periodo è un indizio significativo di tale discordanza di fondo.
Anche se occasionalmente si fece ricorso alla sua esperienza dei problemi dello Stato pontificio - come quando, nel 1591, si trattò di esaminare il problema di Ferrara - l'oggetto principale delle sue cure restò fino alla fine l'Ordine domenicano. Il suo epistolario di questi anni è largamente dedicato ai vari problemi dell'Ordine, che venivano sottoposti a lui quale cardinal protettore. In tal veste il B. ebbe anche modo di occuparsi della controversia "de auxiliis", che vedeva opposti domenicani e gesuiti, e nel 1597 trasmise al papa Clemente VIII il memoriale dei domenicani spagnoli su tale materia.
Morì a Roma il 1º apr. 1598.
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