SPERIMENTALE, METODO
. È il metodo di tutte le moderne scienze della natura - per questo generalmente chiamate scienze sperimentali - con cui si procede per stabilire l'esistenza obiettiva dei fatti nel mondo fisico e formulare leggi che ancora non si conoscono; ovvero per dedurre, dal controllo con l'esperienza, i limiti entro cui valgono leggi già note. Ed è, nella sua pratica più immediata, ricerc. a ed effettiva realizzazione delle condizioni più semplici in cui è dato riprodurre un fenomeno che si vuole osservare.
1. Dunque il metodo sperimentale è, innanzi tutto, isolamento dei processi semplici, sempre ritornanti, nella complessità del divenire naturale: studio per arrivare alle proprietà elementari della materia (anche vivente, dei corpi organizzati). Di quelle proprietà che furono già dette, con termine aristotelico, forme e furono intese metafisicamente come essenze, distinte e immanenti nella materia, e cause dell'essere in atto delle cose; e che F. Bacone più positivamente chiamava naturae simplices e concepiva come un processus latens, nascosto perché ordinariamente sfugge alla nostra percezione, che si trova dinnanzi un'indifferenziata natura. Quella natura dove, finché non interviene la volontà discriminatrice dell'uomo, si svolgono a un tempo un'infinità di moti elementari.
In un secondo momento il metodo sperimentale è la verifica che quelle determinate circostanze antecedenti sono necessarie perché avvenga un fenomeno, nel senso che esse si presentano tutte invariabilmente concomitanti con quel fenomeno: che risulta variato, o più non ha luogo, quando si varino o si sopprimano tutte quelle circostanze antecedenti o un gruppo di esse.
Queste essenzialmente sono le regole dell'induzione vera, che F. Bacone, nella prima metà del Seicento, teorizzava dovessero seguirsi perché l'esperienza non sia puro caso, ma experientia quaesita, esperimento che conduca alla scoperta della verità attraverso un processo dal particolare all'universale. L'esperimento diventa così un metodo che permette di cogliere nella realtà l'atto elementare per cui la natura si conforma così com'è: quello che il filosofo inglese chiamava natura naturans e contrapponeva alla natura bruta, natura naturata.
2. Ma in queste regole soltanto non è tutto il metodo sperimentale; mancherebbe anzi un elemento fondamentale ed è la misura, l'operazione mediante la quale si fissano i rapporti quantitativi con cui i varî elementi dell'esperimento concorrono, separatamente, a produrre l'effetto osservato. Per essa diventa possibile definire concretamente, dalla particolare operazione che serve a misurarli, quegli enti concettuali astratti che si rendono necessarî per un'interpretazione della realtà naturale.
Così che l'arte dello sperimentare nasce con Galileo Galilei ed è subito l'arte della misura. È nell'avere scoperto quest'elemento caratteristico della ricerca scientifica - prima ancora che F. Bacone pensasse d'ordinare in un sistema logico quelle idee sull'esperienza che erano, del resto, nell'aria del tempo - la grandezza del genio di Galilei, e qui consiste la sua originalità rispetto a coloro che come lui sentirono l'insufficienza della scienza antica. Difatti egli, mentre disse esplicitamente di "voler misurare tutto il misurabile e render misurabile quello che ancora non lo è", era anche intimamerite convinto e consapevole che per una tal via si arriva a una conoscenza piena della verità; perché delle matematiche pure "la cognizione dell'intelletto umano uguaglia la divina nella certezza obiettiva, perché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non pare che possa essere sicurezza maggiore". Si può vedere in questo suo volersi tenere al lato quantitativo dei fenomeni un residuo delle idee pitagoriche sull'armonia della natura - idee che rivivevano nel Rinascimento con il neoplatonismo e di cui p. es. conserva un'eco il pensiero di Keplero - ma solo in Galilei queste idee diventano scientificamente efficaci e si spogliano di quell'astratto misticismo, che con esse andava sempre congiunto e che era un immobile vagheggiamento di pure forme geometriche indistruttibili nelle apparenze mutevoli della realtà.
3. Così Galilei fu il primo a istituire misure sistematiche di tempo e di spazio per determinare le leggi del moto naturalmente accelerato, con che ottenne anche gli elementi per stabilire il principio di inerzia. Nella sua opera si può dire si veda, già nel suo pieno sviluppo, quello che sarebbe stato il metodo sperimentale: le misure sono necessarie, e si può da esse esser condotti a definire nuove grandezze meccaniche - come accadde a Galilei per l'accelerazione e per l'impulso - ma intanto le misure non hanno valore se non se ne conosce il grado di esattezza e questo non è adeguato al fenomeno da analizzare. Perciò Galilei, nelle sue esperienze sulla caduta dei gravi, da prima prolungava il tempo di caduta, facendo scorrere il corpo lungo piani inclinati, e poi perché anche così, con i mezzi a disposizione, non riusciva a misurare con sufficiente precisione questi tempi, ricorse ad un artificio: pesava la quantità d'acqua, che fluiva, in quegli stessi intervalli di tempo, attraverso un foro praticato nel fondo di un grosso recipiente ricolmo. Poiché il livello del liquido non variava sensibilmente, la velocità d'efflusso era costante e quindi la quantità d'acqua caduta proporzionale al tempo.
Si possono citare tanti altri esempî della genialità di Galilei nel servirsi delle leggi fisiche per misurare quello che direttamente non è misurabile - ricordiamo l'invenzione del termometro - o per creare strumenti di misura più perfetti - come l'uso del pendolo consigliato per misure esatte di tempo nelle osservazioni astronomiche.
Pertanto la sua "sensata esperienza" si manifesta concretamente come un progressivo familiarizzarsi dello spirito con i varî modi e risultati dell'esperienza, e svolgerli con il ragionamento matematico, con il "discorso".
Nel concetto di Galilei questi due elementi distinti "discorso" ed "esperienza" non sono scissi, come invece saranno in Cartesio, che astrattamente concepiva una "matematizzata natura", l'ideale di tutti i fisici matematici dopo di lui.
4. Ma l'ulteriore sviluppo della scienza non pare abbia convalidato del tutto il punto di vista cartesiano. Difatti con il progresso delle conoscenze scientifiche si è enormemente perfezionata la tecnica delle misure (v. misura), e ciò è avvenuto perché una più fine comprensione dei fenomeni naturali rende possibile isolare e controllare processi sempre più minuti. Con questo, mentre si è avuta una sempre più stretta compenetrazione della teoria con i criterî e i mezzi di ricerca, nel medesimo tempo dalla stessa necessità di adeguare ogni volta la teoria ai risultati dell'esperienza - o meglio di trovare in questa gli elementi logici per una teoria - è emerso e diventato sempre più chiaro un altro fatto, che cioè il metodo sperimentale in una data scienza non sia tanto quel certo numero di norme da seguire, quanto faccia piuttosto tutto un corpo con il processo costruttivo di tale scienza e finisca, in conclusione, per coincidere con quella scienza - in quello per lo meno che in essa v'è di più vivo e capace di produrre nuove conoscenze.
Che questa non sia un'affermazione arbitraria si vede anche da alcune conclusioni generali a cui hanno condotto le molte discussioni che vi sono state sul valore della scienza. Così è stata riconosciuta da tutti la funzione essenziale che ha l'ipotesi, sia per interpretare un fatto nuovo, sia per immaginare le condizioni sperimentali opportune per osservare un secondo fenomeno che si accordi all'intuizione fisica suggerita da un primo. E, d'altra parte, le stesse teorie scientifiche sembrano avere la stessa funzione dell'ipotesi - come già da tanti è stato rilevato (C. Besnard, H. Poincaré, E. Mach). Sono esse come l'aria che circola in un organismo: lo mantiene in vita ma intanto deve cedere il posto ad altra aria.
Queste generali condizioni di fatto, se da un lato portano a distinguere tante tecniche e criterî metodologici diversi, quanti sono i particolari campi di ricerca nelle scienze, fanno sì che il problema del metodo sperimentale si converta in un problema filosofico, che è, in sostanza, quello delle relazioni tra pensiero ed esperienza.
Converrà precisare questo punto, e ne saranno così chiariti anche i motivi di pensiero, che storicamente hanno trovato la loro espressione nel metodo sperimentale.
5. È stato molto discusso perché il metodo sperimentale non sia sorto già presso i Greci, e se veramente possa affermarsi che mancasse ad essi una scienza sperimentale. Ora se è vero che i Greci furono degli attenti osservatori della natura - e ne sono prova, p. es., i geniali criteri scientifici, a cui si ispirarono, nello studio del corpo umano, le due scuole mediche di Coo e di Cnido - è anche vero che Aristotele riconosceva la funzione logica dell'induzione e che quella stessa contrapposizione che F. Bacone faceva del sillogismo all'induzione - in essa sola vedendo il mezzo logico per creare conoscenze nuove - risulta, in un certo senso, erronea per il fatto che, nel metodo sperimentale, sono essenziali sia il momento induttivo sia il momento deduttivo del pensiero.
Non si può quindi invocare, per spiegare questa apparente incapacità dei Greci ad avere una scienza sperimentale, una insufficienza di mezzi logici o una sottovalutazione di quel che può dare l'esperienza. Essi avevano in qualche modo superato quella diffidenza verso la soggettività delle sensazioni con la formula, che si trova nel Teeteto di Platone, che scienza, opinione vera sia δόξα ἀληϑὴς μετὰ λόγου opinione che si riflette su sé stessa e si riconosce vera attraverso l'atto logico. Già da questa formula però si riconosce che l'opinione, la sensazione, era per i Greci un dato primitivo superabile attraverso la mediazione del pensiero, non quindi perfezionabile in sé come sensazione. Così l'osservazione della realtà si esauriva e si concludeva in valori geometrici, ma, così operante, entrava nella formazione della loro scienza - che solo in quei valori riconosceva il suo oggetto.
Perciò accade che l'ottica di Euclide e l'idrostatica di Archimede abbiano per noi più il valore di speculazioni geometriche che non quello di teorie fisiche, vere e proprie.
Da tutto ciò dobbiamo concludere che non si può dare alcuna seria ragione perché i Greci non abbiano avuto una scienza sperimentale, come oggi la concepiamo, finché si pensi l'esperienza solo come quella funzione che fornisce un certo numero di dati, punto di partenza per la teoria che verrà. Ma quando si riconoscano immanenti nell'esperienza gli stessi motivi che sono quelli della teoria e ne formano, come si dice, la filosofia, allora quella ragione diventa evidente. Le scienze della natura si cristallizzarono presso i Greci in quelle forme, perché mancò in essi l'attenzione all'uomo come attività pensante; e non videro che le stesse sensazioni hanno, alla loro radice, un valore spirituale, come l'idea, e quindi viene trasceso l'apparente salto da queste a quelle nell'atto concreto dell'esperienza.
In altre parole manca nei Greci il senso del progresso, della conoscenza come storia, e la loro natura riflette la stessa immobilità delle idee di Platone, l'una e le altre rimanendo concepite nella loro astratta, indipendente oggettività.
6. Questa coscienza che il pensiero prende di sé stesso è un motivo etico schiettamente cristiano, in quanto restituisce all'uomo la fiducia in sé stesso e nelle proprie idee. Ma bisogna arrivare al Rinascimento perché da questo nuovo spirito sia rinnovato anche il problema della scienza.
Risorto con l'umanesimo e la lettura dei testi greci il concetto stesso d'una scienza dell'uomo, si risvegliò nelle menti l'interesse per la natura, in cui dapprima si guardò per vedere quello che già vi avevano visto gli antichi. Tuttavia un interesse così circoscritto poteva essere solo in coloro che avevano la possibilità d'un confronto diretto con gli antichi testi, non in quel più vasto ambiente di artisti che si era formato intorno ai primi umanisti, e in cui l'osservazione della natura, come un gusto del tempo, si sviluppava di per sé stessa e si esplicava nel realismo delle arti figurative.
Presso questi artisti, che hanno in Brunelleschi il loro primo, grande rappresentante, l'opera scientifica degli antichi agì, più che altro, come un esempio, per stimolarli a ordinare in forma sistematica le conoscenze tecniche raccolte nella loro multiforme attività di architetti, pittori e decoratori. In tal modo nacquero i trattati scientifici di L. Battista Alberti, del Ghiberti, di Piero della Francesca, ecc. Come scolaro di quest'ultimo pittore, si ricollega direttamente al medesimo movimento di artisti il più grande matematico del Quattrocento Luca Pacioli, autore d'una Summa de Arithmetica, Geometria, ecc.
Anche Leonardo da Vinci venne su e maturò la sua ispirazione in quell'ambiente artistico, così pervaso da aspirazioni scientifiche, che caratterizza la Firenze della fine del Quattrocento. Ma in lui, a differenza degli altri, c'è già potentissima la coscienza della propria indipendenza rispetto agli antichi e fu uno che ebbe in gran dispetto la scienza libresca: "diranno che per non avere io lettere non potrei ben dire quello che voglio trattare. Ora non sanno questi che le mie cose son più da trattare dalla esperienza che d'altra parola,...". Troppo forte il suo temperamento d'artista e l'amore del particolare, perché possa guardare nel vasto campo della sua visione con l'occhio del teorizzatore; anzi si sente addirittura istintiva nel suo carattere la diffidenza per ogni interpretazione generale, di cui doveva intuire il pericolo come del resto prova la sua posizione, quasi agnostica, di fronte alla religione.
7. La nuova scienza invece doveva nascere attraverso la polemica con l'antica, perché nel dibattito contro i principî già stabiliti i nuovi potessero essere messi a fuoco, nei loro precisi lineamenti. Quindi solo dopo che nelle scuole si fecero vive le dispute (come quella sulla prima metà del Cinquecento intorno al libero arbitrio), il nuovo spirito critico cominciò a penetrare la filosofia, per passare con questa a meditare sulla natura delle cose, dando luogo dapprima soltanto a filosofie della natura (B. Telesio, Patrizi, ecc.).
Intanto se pure l'osservazione diretta della realtà aveva già portato nelle scuole a risultati nuovi - nell'anatomia per merito di Vesalio, in botanica con Cesalpino ecc. - e se dibattiti su questioni particolari avevano, in certo modo, scosso l'autorità di Aristotele, di Galeno e degli altri antichi maestri, i principî nelle scienze erano rimasti quelli tradizionali della scolastica - perché troppo si imponeva alle menti la logica perfezione della sistematica aristotelica. Lo stesso Copernico, che si era formato nelle università italiane, aveva sentito il bisogno di rendere omaggio alle vecchie abitudini mentali, in quanto nell'esporre i principî della sua teoria, si era affannato a raccogliere le testimonianze degli antichi scrittori in favore della sua concezione del sistema del mondo.
Così fu solo attraverso l'opera d'un filosofo della tempra di Giordano Bruno che il pensiero, rigettando ogni principio di autorità, conquistò finalmente per sé il diritto di costruire tutta la sua scienza. Egli enuncia per la prima volta il concetto del progresso, della Veritas filia temporis, concetto che poi diventerà tradizionale nelle letterature attraverso Galilei, Bacone, Cartesio e Pascal.
In Galilei, che viene subito dopo Bruno, sono ancora tutti vivi i motivi della polemica bruniana, ma la crisi è già superata, lo stile della discussione assume una serenità e chiarezza quasi manzoniane, ed è come se la certezza che i fatti parlino da loro, lo distacchi e gli permetta di disinteressarsi dal suo contraddittore: "perché mille Demosteni e mille Aristoteli resterebbero a piedi contro a ogni mediocre ingegno che abbia avuta la ventura di apprendersi al vero".
8. Perciò mentre è caratteristico per la rottura definitiva con la scienza scolastica, che Galilei e Bruno siano stati i primi nella letteratura mondiale a scrivere in volgare trattati scientifici, diventa anche comprensibile che, risoltosi nel metodo sperimentale l'elemento nuovo, che il Rinascimento portava nella concezione dei rapporti tra uomo e natura, la scienza si separi dalla filosofia.
Tuttavia sempre resta implicita nella concreta opera scientifica dei varî ricercatori una valutazione filosofica delle relazioni tra pensiero ed esperienza - cioè del metodo sperimentale - anche se per essi si tratti semplicemente di porre una esatta corrispondenza tra la realtà oggettiva dei principî e la realtà oggettiva dei fenomeni (dove tra questi vengono, in generale, compresi anche i processi reali delle misure).
Le interpretazioni che vennero date di queste relazioni oscillano, con infinite variazioni, tra la soluzione idealistica di Cartesio e quella dell'empirismo di Bacone. Così è diventato comune nel pensiero scientifico il concetto espresso con la formula: Veritum et factum convertuntur, ora nel senso che si ammette che il fatto è il criterio della verità; ora nel senso che, con Cartesio, si veda, piuttosto, immanente nella stessa razionalità dell'idea la ragion sufficiente per il suo concretarsi nella realtà.
Ma poiché nel riconoscimento del fatto come fatto c'è già un elemento nostro di giudizio, e non è possibile trascendere questa soggettività che è all'origine di ogni realtà, puramente illusoria è quell'assoluta oggettività dei fatti su cui si dovrebbero accordare le nostre teorie. Tutte quelle sottilizzazioni che vorrebbero portare a distinguere tra pensiero ed esperienza non hanno quindi ragion d'essere, e, in particolare, si deve concludere, come dicemmo, che il contenuto sperimentale in una certa scienza sia concretamente una cosa sola con i motivi spirituali che sorgono dall'interno di quella scienza e che si controllano con l'atto dell'esperienza. La quale può essere anche soltanto un'esperienza concettuale, com'è l'operare con i simboli e le regole della matematica. Che quest'ultimo sia stato il metodo di ricerca dei Greci abbiamo già avuto occasione di dire, e una conferma ne possiamo avere dal riaffiorare a cui si assiste, nelle matematiche moderne, di elementi speculativi che già furono della più schietta filosofia greca.
D'altra parte la storia della fisica è tutta una prova della verità della nostra conclusione: si veda p. es. con quale immediatezza, nell'opera di Fresnel, segua alla nuova concezione dei fenomeni luminosi la pratica realizzazione delle esperienze che la confermarono.
Inoltre, se si può dire che la fortuna delle filosofie illuministiche sia una naturale conseguenza dei successi della meccanica di Newton che per tre secoli dimostrò la sua inesausta capacità a render conto di tutti i fenomeni naturali, si può anche affermare che con l'allargarsi dei campi di ricerca e la revisione critica dei principî, che ne è seguita, gli scienziati sono stati messi nella necessità di riconoscere sempre più esplicitamente che la fisica, come filosoficamente Kant aveva dimostrato, non è scienza di concetti a priori.
Anzi l'unico principio che si è dimostrato efficiente per la comprensione dei processi fisici microscopici è proprio quello schiettamente kantiano, che non è lecito un uso trascendentale dei concetti nella fisica; e ciò nel senso che ogni concetto fisico in tanto può essere adoperato nell'interpretazione d'un fenomeno in quanto può diventare l'oggetto di una esperienza possibile.
Bibl.: F. Fiorentino, B. Telesio, Firenze 1872; G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, 2ª ed., ivi 1925; J. S. Mill, System of Logic, Londra 1843; E. Mach, Mechanich in ihrer Entwickl., Lipsia 1901; L. Olschki, Geschichte der neusprachlichen wissenschaftlichen Literatur, Firenze 1922; H. Weil, Philosophie der Mathematik und Naturwissenschaft, Oldemburgo 1927; F. Enriques e Santillana, Storia del pensiero scientifico, Milano 1932.