metempsicosi
Dal gr. μετεμψύχωσις, comp. da μετά (prep. che indica il trasferimento), ἐν («dentro») e ψυχή («anima»). Credenza propria di alcune dottrine religiose secondo cui, dopo la morte, l’anima trasmigra da un corpo all’altro, fin quando non si sia completamente affrancata dalla materia. Originaria dell’antica India e attestata già nelle Upaniṣad (in cui è connessa alla teoria del karma), questa dottrina fu accettata in parte e perfezionata dal buddismo (➔). In Occidente la dottrina della m. si ritrova nella religione mistica degli orfici (da cui è poi passata nella filosofia greca), per la quale la m. non termina, come nel buddismo, con l’annientamento dell’individualità umana, ma con il trionfo completo dello spirito – concepito come eterno – sulla materia, nella quale era stato imprigionato (σῶμα=σῆμα) e da cui riesce finalmente a liberarsi. Il termine m. è tardo e compare per la prima volta negli scrittori della prima età cristiana (per es., in Alessandro di Afrodisiade, De anima, 27, 18; Porfirio, De abstinentia, IV, 16; Proclo, In Platonis Rempublicam, ed. Kroll, II, 340); talvolta la credenza è indicata con il termine – ritenuto più corretto da Olimpiodoro (Commento al Fedone, 81, 2) – «metensomatosi», che si legge in Plotino (Enneadi, I, 1, 12; II, 9, 6; IV, 3, 9). La dottrina è comunque professata in ambito pitagorico, attestata in Empedocle, Platone, Plotino, in diversi neoplatonici e, in ambiente cristiano, sostenuta da gnostici, manichei e, nel Medioevo, dai catari; essa assume nei vari contesti sfumature diverse. Necessaria alla purificazione dell’anima e interpretata come punizione per una vita non vissuta come si addice all’uomo, la m. si inserisce nell’orfismo nel ciclo cosmico della generazione e del rinnovamento e in quello escatologico-soteriologico nella tradizione che va da Pitagora a Platone, passando per Empedocle (fr. 115, 117, 119). Nel Fedone (➔) (70 c) la dottrina della m. è attribuita a un’antica tradizione, mentre nel Fedro (➔) (248 c-d) la legge di Adrasteia, il Destino, vincola l’uomo al ciclo delle rinascite in corpi diversi, a seconda del grado di reminiscenza delle cose divine contemplate nel mondo delle idee; nella Repubblica (➔) (617 b) Platone sostiene la responsabilità dell’anima nella scelta del corpo in cui si incarnerà. Quanto al sostrato corporeo che accoglierà l’anima nel ciclo delle reincarnazioni, si possono rintracciare posizioni differenti. Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VIII, 4-5) ricorda come la tradizione insistesse sul fatto che Pitagora aveva attraversato più vite, di cui egli era eccezionalmente in grado di ricordarsi; la sua anima aveva peregrinato in piante e animali, oltre che nei corpi di altri esseri umani. Il principio secondo cui l’anima umana si incarna in realtà inferiori – come sostenuto negli Oracoli caldaici – sembra accettato anche da Empedocle (fr. 117, 127) e dallo stesso Platone (Fedone, 81 e-82 b; Repubblica, 620 d); ricordato in Plotino (Enneadi, III, 4, 2) viene però respinto da Porfirio (secondo una testimonianza di Agostino, De civitate Dei, X, 30), da Giamblico (De mysteriis Aegyptiorum, I, 8) e dalla maggior parte degli scrittori neoplatonici, nonché dall’autore del 10° trattato del Corpus hermeticum (19). Dall’ellenismo la m. è passata anche ad altre religioni, ha però trovato maggior favore soltanto presso qualche autore particolare o qualche ristretto circolo intellettuale, generalmente con tendenza ad accogliere piuttosto le concezioni indiane che quelle occidentali.