MESSA
. È l'unico e supremo rito sacrificale del cristianesimo cattolico, e sino dai primi secoli è stata il centro della vita liturgica e mistica della Chiesa. La parola "messa" rimonta al sec. VI, e pare derivata dalla formula con cui il diacono, al termine del rito, congedava i fedeli: Ite, missa est ("potete andare, è l'uscita").
Le sue origini si riconnettono con la cristiana agape (v.) e in seguito acquistò una parte sempre più preponderante nello sviluppo di tutta la liturgia cattolica (v. liturgia). Nella liturgia romana, che vige al presente in tutta l'Italia (salvo alcuni paesi italo-greci e la zona del rito ambrosiano) e fra tutti gli altri cattolici, esclusi gli orientali e bizantini, la messa si può dire composta di due parti: la prima è costituita da letture intercalate da preci; la seconda dall'azione sacrificale propriamente detta. La prima è varia, a seconda dei tempi liturgici; fissa e stabile è la seconda, salvo mutamenti lievissimi. Il rito, minuziosamente studiato e fissato da Pio V col suo messale tipico, e cioè autorevole, del 1570, risulta d'un nucleo antichissimo, cioè la preghiera e "azione" eucaristica, e di tutto un millenario svolgimento: in prevalenza s'è formato, tra i secoli X e XIII, sopra la messa papale dei secoli anteriori, quale si ha nei diversi Sacramentarii e Ordines.
Per avere un'idea sommaria del come oggi si svolge il rito, bisogna tenere presente che la messa è sempre uno stesso e medesimo rito, quantunque diverso possa apparire. È cantata o solenne, allorché ne sono cantate certe parti e c'è l'assistenza del diacono e suddiacono: qualora tale assistenza manchi e tuttavia la messa sia cantata, si dice conventuale. È pontificale, se cantata da un vescovo; e a tale fine si adopera quest'aggettivo anche in forza di sostantivo. Messa papale è quella cantata dal vescovo di Roma, e ha un cerimoniale molto più solenne. Messa bassa o letta è quella comune. Non può dirla se non chi è sacerdote, né più di una volta al giorno, tranne il giorno dei Morti e il giorno di Natale (nei quali se ne possono celebrare tre da uno stesso sacerdote) e quando, per particolari necessità di ministero, urge celebrare due volte perché i fedeli soddisfino al precetto ecclesiastico che impone d'ascoltare la messa tutte le feste comandate, cioè le domeniche e alcuni giorni solenni, detti perciò di precetto. Nel celebrarlo, il sacerdote è rivestito di speciali indumenti.
Recitato ai piedi dell'altare il Salmo 42: Iudica me, Deus (l'uso ne risale al sec. IX, ma non si recita nelle messe dei defunti o del tempo di Passione), con il Gloria Patri e il Confiteor - la cui formula è del sec. XII - il sacerdote sale all'altare, e inizia quella che in antico era la messa dei catecumeni. Incensato (nelle messe solenni) l'altare, legge l'Introito, preci superstiti di cerimonia antica più lunga, il Kyrie, il Gloria, poi la Colletta, l'Epistola, il Graduale, l'Alleluia, il Tratto. Segue la lettura di un tratto del Vangelo e la recita del Credo, la cui introduzione nella messa è del sec. VI per l'Oriente, dell'XI per Roma. Tutta questa prima parte non è che una lettura o dell'Antico Testamento o degli scritti Apostolici, seguita da una lettura del Vangelo, e intramezzata da supplicazioni e preci.
Segue poi la vera e propria azione sacrificale, composta sostanzialmente dall'oblazione, dalla prece eucaristica, dalla consacrazione e dalla comunione. Al concetto naturale di sacrificio si aggiunge l'elemento tipicamente cristiano, mistico ed eucaristico.
Preceduto da un richiamo a pregare, oremus, che, rimasto isolato, non si sa bene oggi che cosa importasse, viene l'offertorio, momento in cui sino al sec. XI i fedeli offrivano essi il pane e il vino del sacrificio. Il pane azimo, cioè non fermentato, non è anteriore all'800 in Roma; dal sec. XII in poi prese la forma dell'ostia attuale. ll vino dev'essere di uva, e puro. I fedeli non soltanto portavano, in questo momento, il necessario per il sacrificio, ma anche il necessario per i sacerdoti: tracce ne rimangono nell'offerta dei ceri e soprattutto nella cosiddetta "elemosina" della messa. L'offertorio è una reliquia di quei canti che si solevano fare durante la cerimonia e la raccolta delle offerte: canto che risale al tempo di S. Agostino in Africa, e di S. Gregorio Magno in Roma. Seguono preghiere, dette anche "piccolo canone" che a Roma non sono più antiche del sec. XIV: Suscipe, Sancte Pater (sec. IX; gallicana?), Deus qui humanae substantiae (antica preghiera della liturgia romana del Natale), ecc. Nel frattempo, il sacerdote offre l'ostia e il vino versato nel calice con poche stille d'acqua. Segue una nuova incensazione, il Lavabo (lavanda delle mani), l'oratio super oblata o secreta, e quindi il Prefazio, che è l'introduzione solenne alla parte più sacra della messa, al cosiddetto "canone", o canon actionis.
Il Prefazio, detto variamente in altre liturgie (prologo, illazione, ecc.), comincia con un dialogo tra celebrante e fedeli, consiste in una prece di ringraziamento e si conchiude con il trisagio, o Sanctus. Così ha inizio il "canone", o formula da seguire nella consacrazione delle sante specie: formula che, com'è oggi recitata, esisteva parola per parola già all'inizio del sec. VII: l'ultimo a ritoccarla fu S. Gregorio Magno. L. Duchesne lo data dal 400 circa: e molto si è studiato e si studia sopra la sua formazione. Qui basterà dire che è tutta una preghiera, risultante di 5 brani (Te igitur, Memento, Communicantes, Hanc igitur, Quam oblationem); di un brano storico (Qui pridie), in cui sono incastonate le due formule consacratorie rispettivamente per il pane e per il vino (appena pronunziate le quali, avvengono le due elevazioni, dal tempo dell'eresia di Berengario: v. eucaristia); di tre brani conclusi da un unico explicit (Unde et memores; Supra quae; Supplices), e del Memento dei morti (forse, molto più recente), del Nobis quoque, del Per quem haec omnia di difficilissima interpretazione, e della dossologia Per ipsum. Con il Pater, che S. Gregorio pose "mox post precem", cioè dopo il canone, s'inizia la parte della comunione: frazione dell'ostia consacrata, l'Agnus Dei (molto antico), la preghiera innanzi al bacio di pace, due altre di poco posteriori al Mille, e la comunione del sacerdote, che secondo la teologia cattolica è parte integrante del sacrificio, ed è seguita da abluzioni. Durante la comunione dei fedeli si cantava un salmo: una traccia n'è restata nel Communio. Segue una preghiera con la quale si compiva e poneva fine: il cosiddetto Postcommunio (con, a volte, l'Oratio supra populum) e poi l'Ite missa est, che scioglieva, sino al sec. IX, l'assemblea. Il Placeat con la benedizione sono posteriori al Mille, e l'ultimo vangelo era di devozione privata sino al sec. XV, quando il popolo volle che i preti lo recitassero all'altaro. Grandissima era infatti la devozione popolare per l'inizio del Vangelo di Giovanni. Da questo rito romano della Messa gli altri riti differiscono in varî e importanti punti, per cui v. liturgia e le voci dei singoli riti.
Per la teologia della Messa vedi eucaristia; per la storia vedi anche messale.
Bibl.: Sul termine "missa", cfr. E. Vykoukal, in Buchberger, Kirchliches Handlexicon, II, col. 942; in genere, per tutta la trattazione, cfr. Dict. de théol. cathol., X, i, coll. 795-1316, e X, ii, coll. 1317-1403; Dict. d'archéol. chrét. et de lit., XI, i, coll. 513-774. Utile P. Batiffol, Leçons sur la Messe, Parigi 1919; molto diffusa la descrizione di E. Vandeur, La Sainte Messe, Parigi 1930. Per la recente teoria del De la Taille, v. la sua pubblicazione (venuta dopo il suo grosso volume Mysterium Fidei), Esquisse du Mystère de la Foi, Parigi 1924. Raccoglie i risultati degli studî fatti sinora, J. Brinktrine, Die heilige Messe in ihrem Werden und Wesen, Paderborn 1931. Sopra teorie recentissime circa il "mistero" della Messa, è da seguire il movimento dei benedettini di Maria Laach. Per la storia del precetto d'ascoltare la Messa, cfr. A. Villien, Histoire des commandements de l'Église, Parigi 1909, pp. 107-143. Sull'elemosina della Messa, cfr. V. Del Giudice, Stipendia missarum, Roma 1922.
Musica.
La parte musicale più antica entrata a fare parte della Messa è una sorta di salmodia a tipo responsoriale, in cui s'alternavano un solista (praecentor) e il coro, e che s'inseriva tra le letture di brani del Vecchio e del Nuovo Testamento. Si originò da un'analoga pratica della Sinagoga ebraica. Le funzioni del coro, dapprima pertirienti alla comunità, andarono sempre più attribuite alle Scholae cantorum, la prima delle quali sorse in Roma sotto il pontificato di Celestino I (morto nel 432); mentre nei monasteri il canto a risposta era eseguito da due opposti cori di monaci.
Sotto l'impulso di tale pratica, si formò il Graduale o Responsorio graduale. Affine ad esso fu il canto dell'Alleluia, al quale, nelle messe celebrate in giorni di lutto o di passione, si sostituiva il Tratto. Graduale, Alleluia, o Tratto, avevano il loro posto in quella parte della messa più specialmente dedicata al Sacrificio. Più recente di questi è l'altro gruppo di canti della Messa che si chiamano antifonici e cioè: Antiphona ad Introitum, A. ad Offertorium, A. ad Communionem, tutti di origine salmodica. L'invocazione Kyrie eleison, tratta dalla liturgia greca, e posta a seguito dell'Introito, ebbe dalla riforma gregoriana l'aggiunta del Christe eleison. Nella Messa del sec. VII il Kyrie restò come canto di comunità, e fu avocato alla Schola cantorum solo dopo il sec. X.
ll canto del Gloria in excelsis, che nacque come inno mattutino nella chiesa greca, entrò a far parte della messa romana verso il sec. VI, ma solo nelle domeniche e nelle feste dei martiri, purché l'ufficio fosse celebrato dal vescovo. Dal sec. XI si cantò anche nella celebrazione dei preti. Il suo carattere festoso lo fece escludere dalle messe funebri e di passione. A differenza degli altri canti, il Gloria è intonato dal celebrante all'altare.
Segue il Credo in unum Deum, che è il più recente dei canti della messa. Entrò infatti nel rito romano solo nel corso del secolo XI, mentre era già in uso ufficiale fino dal sec. VI in Oriente e così anche in Spagna; forse nella Gallia e nel rito ambrosiano doveva essere già noto prima che a Roma.
Il Sanctus - tre volte ripetuto - col Benedictus appartiene alla più vetusta liturgia del cristianesimo. Nel testo e nella melodia appaiono come l'immediata continuazione del Prefazio. L'Agnus Dei deve la sua introduzione nella messa a papa Sergio I (morto nel 701). Tutti i canti sopra nominati, che hanno origine in parte salmodica, in parte innodica, costituiscono l'Ordinarium Missae.
Più recenti nella loro formazione poetica e musicale sono le Sequenze e i Tropi (v.), di tipo responsoriale. Le prime presero il posto degli Alleluia chiudenti il Graduale e furono poi abolite in massa (tranne 5) dal Concilio di Trento. I Tropi invece utilizzarono con l'abbondante sillabazione gli antichi melismi del Kyrie e dell'Introito. La tropizzazione si estese poi abusivamente a molte altre parti della messa. Affini, per l'uso, a Sequenze e Tropi furono nell'età dimezzo gli Uffici in rima, in cui erano raccolti e ordinati secondo le varie festività canti di libera invenzione, sì da formare cicli di canzoni in aggiunta alla Messa. Il progressivo decadere del loro contenuto poetico e l'infiltrazione in essi del popolare spirito parodistico e scurrile condussero alla loro esclusione.
Riassumendo, intorno al sec. viii la cornice liturgica delle Messe era composta dalle seguenti parti: 1. ingresso del celebrante col suo seguito, accompagnato dal canto dell'Introito (coro); 2. Confiteor detto dal celebrante, col Kyrie cantato dalla comunità; 3. il celebrante intona il Gloria, proseguito nei tempi più antichi dai chierici e più tardi dalla Schola cantorum; 4. preghiere e Collecta (lettura cioè delle Sacre Scritture), dopo di che il Praecentor canta, alternativamente alla Schola, il Graduale e l'Alleluia o il Tratto; 5. finite le letture, o c'è la predica o il celebrante intona subito il Credo (solo dal sec. XI) continuato dal canto degli assistenti o della Schola; 6. comincia il sacrificio propriamente detto: durante l'offerta del pane e del vino i cantori eseguiscono l'Offertorio; recitazione sommessa del ringraziamento e del Prefazio, dopo di che risuona tre volte il Sanctus, cui segue il Benedictus. Tale canto spettò anticamente alla comunità, poi alla Schola; 8. Canon Missae: consacrazione, preghiere a bassa voce, elevazione. Subito dopo clero e comunità (nei tempi più antichi, Schola) più tardi cantano l'Agnus Dei; 9. durante la consumazione la Schola eseguisce il Communio. Nell'ambito di tale disposizione liturgica - che dal sec. VIII variò pochissimo - avvenne l'intero e grandioso svolgimento stilistico della Messa in musica sino a tutto il sec. XVII e, in considerevole parte, sino ai tempi moderni.
La Messa perciò come forma musicale è "la serie dei pezzi costituenti l'Ordinario", e cioè per la Messa da vivo: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Benedictus, Agnus Dei; per la Messa da morto: Introito, Kyrie, Graduale, Tratto, Sequenza (Dies Irae), Offertorio, Sanctus, Agnus Dei, Communio (Lux aeterna), cui si aggiunse, per la benedizione della salma, il Libera me.
Dall'Ordinario, formato dalle parti fisse del testo, si distingue il Proprio, le parti mobili, totalmente o parzialmente musicate.
La Messa corale, cioè all'unisono sulle melodie tradizionali della Chiesa cristiana, occupò gran parte del Medioevo. I suoi stadî di sviluppo giungono sino al sec. XII. Tuttavia, dopo il periodo carolingio, si ha traccia dei primi tentativi di plurivocalismo nella Messa; essi coincidono col sorgere dell'organum e della diafonia (v.). Ciò pare sia avvenuto nei paesi romanzi e in Inghilterra prima che in Germania.
Tra le più antiche testimonianze di pratica polivoca nella Messa va annoverata la Missa aurea, istituita per la festa di Maria dall'abate Ildebrando del monastero di San Gottardo nel sec. XI, nella quale ai melismi detti caudae magnae si univa una parte di organum. Ma il più antico brano a due voci facente parte dell'Ordinario si trova in un manoscritto del sec. XI-XII pubblicato da H. de Coussemaker col titolo di Trattato Milanese. Alcuni esempî polivoci del Musica Enchiriadis e del Micrologo di Guido appartengono pur essi all'Ordinario. Del resto è naturale che, trovandosi il sacrificio della Messa al centro della liturgia cristiana, le varie tappe di evoluzione del canto sacro, attraverso la polifonia e il mensuralismo, si trovino tutte riflesse nei pezzi che compongono l'Ordinario. Per giungere dalla Messa corale a una voce a una vera Messa polifonica occorreranno quattro secoli; ma è anche da considerare che, almeno secondo i documenti in nostro possesso, nel sec. XIII la composizione a più voci si ritrasse di prevalenza nel Mottetto, il cui predominio dura anzi per buona parte del secolo seguente, finché nel '400 la Messa polifonica tornò come una novità a ravvivare l'interesse e la fantasia dei musicisti.
Tuttavia anche dei secoli XIII e XIV ci restano modelli di canti dell'Ordinario a piû voci. Tali alcuni Tropi a tre voci e tre testi diversi, come nel Mottetto francese antico. Il primo Ordinario completo a più voci, che sinora si conosca, è la Messa di Tournai della prima metà del Trecento, edita dal De Coussemaker. È a tre voci.
Un esemplare alquanto più giovane è la Messa di G. Machault (1300-1377), composta nel 1364 per l'incoronazione di Carlo V di Francia, e pubblicata modernamente, parte da J. Wolf, parte dal Wooldridge. Nelle crudezze dello stile è affine alla Messa di Tournal.
Ma soprattutto nel sec. XV si deve ricercare l'inizio di un periodo d'incremento, così tecnico come espressivo, per la Messa polifonica. A tale progressivo sviluppo non è estraneo il riconoscimento dato dalla Chiesa romana a questa forma; mentre il sorgere di cantorie bene addestrate e proporzionate negli elementi, presso le cattedrali e le chiese importanti, generò il clima adatto a una rigogliosa fioritura artistica.
Fonte principale per la conoscenza delle forme polivoche di tale periodo sono i codici di Trento, che contengono grande numero di pezzi dell'Ordinario. Di questi, parte sono scritti su melodie gregoriane; parte recano la melodia corale nel Tenor; parte hanno un tenor tratto da canzoni profane, specialmente francesi; parte infine fanno a meno di qualsiasi canovaccio preso da melodie già note.
Non minore importanza come fonte - specie per la seconda metà del Quattrocento - hanno le raccolte Old-Hall-Manuscript pubblicate dal Barclay e alcune pubblicazioni a stampa di O. Petrucci (Venezia 1502 e 1503) contenenti Messe di Josquin des Prés e di J. Obrecht. In parecchi esempî dei codici trentini vediamo lo stile corale alternato al polifonico così da trovare perfino versetti musicati coralmente seguiti subito da altri composti polifonicamente. Altre volte, quando il pezzo è proposto in modo corale, il suo seguito è svolto in modo polifonico.
Giunse poi il momento nel quale la Messa si liberò del tutto dalla soggezione all'Ordinario corale e si svolse sul terreno dell'invenzione tematica. Ebbe allora l'unità di un'idea artistica, conduttrice nello stile e nel sentimento. La Messa polifonica così costituita, essendo la forma musicale più elevata, in cui un compositore potesse provarsi, signoreggia l'arte di due secoli, il XV e il XVI. Lo rivelano i molti libri di messe di maestri fiamminghi pubblicati sino dagli albori della stampa musicale.
Per gran parte del Quattrocento, i musicisti che diedero più notevole contributo alla letteratura della Messa polifonica furono senza dubbio inglesi e fiamminghi; assai meno italiani e tedeschi. S'inizia qui il primo periodo fiammingo (v. fiamminga, musica) della Messa, rappresentato dall'inglese J. Dunstable (morto nel 1453) che fu l'iniziatore dei fiamminghi, da G. Dufay (morto nel 1474) e dai continuatori di questo maestro, G. Binchois, J. Busnois, Fagues, Ph. Caron, Vincenet, le cui composizioni appaiono già nelle prime stampe del Petrucci.
La Messa di questo periodo, nella maggioranza degli esemplari, è legata a un cantus firmus, che signoreggia più o meno tutte le sue parti, e dal quale essa prende nome. Tra le forme di canto fermo più usate ricordiamo quelle tratte da antifone della Vergine, e tra i motivi di canzoni profane, usati per lo stesso ufficio, la canzone divenuta famosa dell'Homme armé, preferita da numerosi compositori, da Busnois (seconda metà del Quattrocento) fino a G. Carissimi (sec. XVII). Compito del cantus firmus, affidato in note lunghe al tenor, era quello di sorreggere l'intera trama della polifonia e quasi di guidare la fantasia del musicista mediante un piano armonico prestabilito.
Tuttavia non mancarono Messe prive di una tale intelaiatura, e però interamente formate da temi di libera invenzione, che si chiamavano Missae sine nomine o che prendevano titolo dal tono gregoriano in cui erano composte, "Missa primi, secundi toni", ecc.
Nelle Messe del primo periodo fiammingo l'imitazione tematica è ancora molto libera e anche, talora, assente. Essa ebbe grande sviluppo nelle Messe del secondo periodo, creando le più complicate possibilità dell'arte canonica.
Le figure più eminenti di questo tempo, che occupa l'intera seconda metà del Quattrocento, sono, non soltanto per la formidabile tecnica. contrappuntistica, ma anche per la forza dell'espressione e per l'originalità, J. Ockeghem (morto nel 1495) e J. Obrecht (morto nel 1505). Del primo si ricordano, tra le messe con tenor, quelle dell'Homme armé e De plus en plus; mentre nella M. cuiusvis toni egli diede esempio di libera invenzione tematica, come nelle seguenti battute del Kyrie:
Lo sviluppo stilistico del secondo, dalle Messe che ne hanno pubblicate O. Petrucci a Venezia e il Mewes a Basilea nei Concentus harmonici, riunisce la pienezza della fattura e l'altezza dell'ispirazione; sebbene anche l'Obrecht ceda al gusto del tempo con esagerazioni nell'artificio canonico.
Contemporanei, ma più giovani di questi, figurano compositori di cui l'archivio della Cappella pontificia possiede parecchie Messe manoscritte, come L. Compère, J. Regis, Ph. Basiron, G. van Werbecke. Di quest'ultimo riportiamo come esempio di vivace ritmica il Quoniam tu solus sanctus della Messa N'as-tu pas:
Ma gli esponenti maggiori del terzo periodo fiammingo, derivato dall'insegnamento di Ockeghem, furono, per la sapienza tecnica, P. De La Rue, di cui si ricorda la famosa Fuga quattuor (sic) vocum ex unica nell'Agnus della Messa O salutaris hostia; e per la genialità e la ricchezza dell'ispirazione, congiunte anch'esse all'alto magistero, Josquin des Prés (1450-1521). Una trentina di Messe si conosconoo di lui in edizioni antiche del Petrucci (1502 e 1516), del Giunta (1520), del Graphaeus di Norimberga (1529), e molte manoscritte si conservano nell'archivio della Sistina. Le edizioni moderne più note sono quelle della Messa L'homme armé super vous musicales e Pange lingua.
Tra i fiamminghi che fecero dell'Italia la loro patria d'arte, e che soprattutto dell'ambiente artistico veneziano sentirono potentemente l'influsso, ricordiamo come autori di Messe, A. Willaert e C. de Rore, ambedue maestri della Cappella di San Marco. Di quest'ultimo riportiamo un brano del Credo di una Messa del 1563, animato da caldo entusiasmo:
Il periodo in cui la Messa polifonica assurse ai più alti fastigi, fu senza dubbio la seconda metà del Cinquecento, per opera di Giovanni Pierluigi da Palestrina e di altri eminenti compositori di scuola romana. Del Palestrina si conoscono sei libri di Messe; più quattro Messe stampate postume dal figlio Iginio. Nel primo, pubblicato dal Dorico a Roma nel 1554 e dedicato al papa Giulio III, il maestro, giovane d'anni e fresco di studî, volle dimostrare la sua perizia nel contrappunto e la profonda conoscenza nelle arti canoniche franco-fiamminghe; onde, sotto i canti fermi presi a ossatura delle composizioni, egli imbastì complicati canoni e risolse ingegnosi problemi di notazione.
Ancora nel Secondo Libro di Messe (Eredi del Dorico, Roma 1567) il Palestrina, pur effondendo la soavità della sua ispirazione nella Missa sine nomine a 4 voci e la potenza del suo genio nella famosa Missa Papae Marcelli a sei voci (ultima del volume), fa concessioni al gusto fiammingo, compiacendosi dei più ardui canoni.
È noto che alla Missa Papae Marcelli va unita la tradizione, che attribuisce a tale componimento il merito d'avere salvato la musica sacra dal bando, a cui avrebbero voluto condannarla - per gli abusi invalsi durante il predominio franco-olandese - alcuni pontefici e il Concilio tridentino. Sta il fatto che tre Messe del Palestrina, tra le quali quella di papa Marcello, furono eseguite il 28 aprile 1565 in casa del cardinale Vitelli, per provare se la musica polifonica permettesse la chiara intelligibilità del testo sacro, secondo la condizione imposta dal Concilio al canto liturgico, e che la prova riuscì trionfale per lo stile del Palestrina.
Il Terzo Libro delle Messe (Eredi del Dorico, Roma 1570) è dedicato a Filippo II di Spagna e contiene otto Messe, di cui quattro a 4 voci, due a 5 e due a 6, che il maestro stesso definì "opera d'ingegno e d'arte". Vi sono comprese: la Messa dell'Homme armé, che, malgrado la sua complicata fattura, è per chiarezza e genialità d'invenzione superiore alla omonima di Josquin; e la Missa brevis, che pure godette, per la sua facile vaghezza, di grande fortuna.
Sette Messe scritte per incarico del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga formano un volume a parte, composto nel 1578 con feconda rapidità. Con dedica a Gregorio XIII uscì per i tipi del Gargano nel 1582 il Quarto Libro, comprendente sette Messe a 4 e a 5 voci, tra cui notissima per commovente espressività quella O magnum mysterium. Il Quinto Libro, uscito nel 1590 a stampa di grande formato (Coattino, Roma) e dedicato al duca di Baviera, contiene otto Messe (a 4, 5 e 6 voci) tra cui godettero di grande fortuna l'Iste Confessor e l'Aeterna Christi munera, melodicissima nel suo trasparente tessuto polifonico. L'anno stesso della sua morte (1594) il Palestrina pubblicò il Sesto (ultimo) Libro delle Messe, per i tipi del Coattino. Sono cinque Messe di cui l'ultima, Dilexi quoniam, a 5 voci, rimase a lungo nel repertorio liturgico per la nobiltà dell'ispirazione congiunta a una relativa facilità.
La fioritura di Messe polifoniche ebbe grande rigoglio nella scuola romana per opera dei continuatori del Palestrina, tra i quali sono da ricordare con onore i due Nanini, gli Anerio, F. Suriano, lo spagnolo L. da Victoria, R. Giovanelli, A. Zoilo. Il maestoso stile palestriniano a sole voci si perpetuò poi nella musica sacra in genere e nella Messa in specie, attraverso una tradizione gelosamente custodita, e i cui rappresentanti più cospicui furono: nel sec. XVII, A. Cifra, G. Allegri, Paolo Agostini, i due Mazzocchi, F. Bernabei, O. Benevoli; nel sec. XVIII P. Pisari e G. O. Pitoni; nell'Ottocento P. Raimondi, G. Capocci, D. Mustafà.
Nel campo della polifonia vocale pura gareggiò d'importanza con la scuola romana, nel sec. XVI, la scuola veneta, sebbene i meriti di questa rifulgano piuttosto nel genere madrigalesco e nella creazione di uno stile strumentale. Autori di Messe polifoniche furono Andrea Gabrieli, G. Zarlino, G. Croce, M. A. Ingegneri, V. Ruffo, e sul finire del sec. XVII, sommo, per calore d'ispirazione e arditezza di tecnica, Antonio Lotti. Del grande compositore per organo, G. Frescobaldi, R. Casimiri ha testé scoperto nell'Archivio Lateranense due Messe a otto voci una Sopra l'Aria della Monicha, l'altra Sopra l'Aria di Fiorenza, entrambe di robusta fattura, a due cori, dialogati e in puro stile romano.
La polifonia vocale fiamminga dopo Josquin si riassume tutta nel nome di Orlando di Lasso, il quale, belga di nascita, compì la sua educazione musicale in Italia e alcuni lo dicono compositore di scuola romana per la severa magniloquenza della sua musica. Secondo il catalogo dell'Eitner, il Lasso compose 46 Messe, di cui diciotto a 4 voci, quindici a 5, dieci a 6 e tre a 8.
Nel secolo aureo della polifonia la Messa è rappresentata: in Francia da C. Janequin, P. Certon, C. de Sermisy, C. Goudimel; in Germania da Adamo di Fulda, A. Agricola, H. Finck, H. Isaak, L. Senfl, per la liturgia cattolica, da H. L. Hasler e G. Rhaw per la protestante.
L'avvento della monodia accompagnata introdusse lo stile concertante anche nella Messa. Iniziò la trasformazione l'autore stesso dei Concerti Ecclesiastici, Ludovico Grossi da Viadana, con la Missa Dominicalis del 1607.
Da allora, pur restando salda in taluni ambienti la tradizione del puro stile vocale polifonico, si ebbe una larga fioritura di Messe con accompagnamento d'organo o d'orchestra. Ultima conseguenza di un tale indirizzo fu un tipo di Messa che, per lo stile e per le proporzioni, non si poteva più considerare come composizione liturgica, ma da concerto. Tali sono le Messe per cori, soli e orchestra di Haydn, di Mozart, di Cherubini, quella monumentale in si minore di J. S. Bach, il Requiem di Berlioz, la Messa Solenne in re maggiore di Beethoven, le due Messe del Rossini, la Messa da Requiem di G. Verdi, le 20 Messe di S. Mercadante, le 5 Messe di A. Bruckner, le 4 Messe solenni di C. Gounod, la M. solennis e la Ungarische Krönung-Messe di Liszt, ecc.
Alla restaurazione della musica sacra in genere e della Messa in specie, concretata nel motu proprio di Pio X, (1903), condusse quel vasto movimento che, appoggiatosi alle rigorose tradizioni romane, vissute sempre di vita propria nelle Cappelle Sistina e Giulia, si è chiamato ceciliano.