MERCATO.
– La visione egemone di mercato. Coordinamento, innovazione e crescita. Coordinamento e coesione sociale. Bibliografia
La visione egemone di mercato. – L’andamento dell’economia, avviata su un sentiero stabile o sottoposta a scosse dirompenti, dipende dal coordinamento dei comportamenti degli attori dell’economia stessa, in grado o meno di attivare processi economici coerenti e quindi positivi, risultato sempre di una riuscita mediazione tra interessi contrastanti. È quindi fondamentale il ruolo di istituzioni che conducano tale attività di coordinamento. Tra esse, com’è noto, è emerso – fin dal principio della storia e, molto più recentemente per quanto riguarda la sua teorizzazione, dagli albori della disciplina economica – il mercato. Forma ottima di m., secondo l’approccio teorico oggi largamente dominante, è un contesto che permetta il pieno operare della concorrenza, canale privilegiato di realizzazione degli sviluppi della tecnologia. Privatizzazioni, deregolamentazione di tutti i m. ed estrema flessibilità, è quanto richiesto per dare forma al contesto invocato. Mantenimento di bilanci pubblici in equilibrio e lotta senza quartiere al minimo segno di inflazione sono i comportamenti virtuosi richiesti per permettere e accompagnare l’operare di un’economia così caratterizzata. Riforme strutturali ritenute necessarie al manifestarsi della flessibilità richiesta e smantellamento delle istituzioni e delle regole ritenute intralcio al gioco della concorrenza sono le misure prioritarie cui fare ricorso. Un complesso di regole, questo, codificato con l’etichetta di Washington consensus.
Esisterebbe quindi una varietà ottima del capitalismo di m. cui tutti i sistemi dovrebbero conformarsi. E in questa luce il cattivo funzionamento dell’economia, a livello tanto microeconomico quanto macro, sarebbe da imputare soprattutto agli interventi discrezionali e dunque inappropriati dei governi, e a errori istituzionali quali in primo luogo il mantenimento delle rigidità dei m. dei beni e dei fattori produttivi. La mondializzazione degli scambi creerebbe invece l’opportunità di generalizzare il buon modello di funzionamento dell’economia di m., e i m. finanziari, disciplinando il comportamento delle imprese e dei governi, premetterebbero di cogliere tale opportunità.
La liberalizzazione finanziaria è stata quindi salutata come una riforma in grado di eliminare i maggiori ostacoli alla crescita dell’economia e in quest’ottica nei recenti decenni il sistema finanziario internazionale è stato trasformato progressivamente in un sistema di mercato.
Coordinamento, innovazione e crescita. – L’esplosione della crisi finanziaria globale del 2008 e la sua trasmissione alle economie reali della maggior parte dei Paesi del mondo occidentale hanno posto tuttavia in crisi tale ottimistica visione. Il crollo dei principali indicatori economici, dai saggi di crescita agli investimenti, ai consumi, negli Stati Uniti e in particolare nei Paesi della Unione Europea, dove tale tendenza è ancora in atto e la ripresa tarda a manifestarsi, e il dilagare della disoccupazione, con tassi che in alcune economie europee hanno superato il 20% e si prevede necessiteranno di più di un decennio per essere riassorbiti, sono la prova evidente di come la mondializzazione e le liberalizzazioni finanziarie non possano essere considerate la fine della storia. Il necessario ordine economico è sempre intrinsecamente fragile. L’instabilità, la disoccupazione di massa, i disequilibri internazionali non sono mai vinti definitivamente. Questi fenomeni non sono ‘cigni neri’, bensì il frutto di comportamenti individuali e collettivi il cui coordinamento è necessariamente rotto dall’irruzione del nuovo, i cui effetti, spesso magnificati da errate misure di carattere finanziario, spingono l’economia fuori dal proprio corridoio di stabilità.
Il problema allora – se non si vuole rinunciare all’innovazione e al cambiamento – è comprendere in qual modo i disequilibri e le conseguenze negative necessariamente legati all’irrompere del nuovo possano essere fronteggiati e minimizzati nel corso del processo che, correttamente coordinato, condurrà a poter godere dei vantaggi di cui il nuovo stesso è potenzialmente portatore.
Il vero nodo, per quanto concerne l’interpretazione della natura e del ruolo del m., sta quindi nella relazione fra innovazione e crescita, da cui in ultima analisi tale ruolo dipende. Un problema dal quale i modelli analitici dominanti essenzialmente prescindono, basati come sono sull’idea che sia sufficiente soddisfare certe condizioni per avere automaticamente certi risultati. In particolare che, dati gli sviluppi più o meno autonomi della tecnologia, la semplice adozione delle tecniche produttive più avanzate permetta di ottenere aumenti di produttività, e che la concorrenza, con il sistema di incentivi che essa comporta, rappresenti il contesto più favorevole a tale adozione.
Non può certo essere messo in dubbio che i progressi della tecnologia rappresentino un fattore essenziale di crescita, ma non è la tecnologia in sé stessa, vale a dire il semplice fatto di adottare certe tecniche produttive, ciò che determina la crescita. Non sono pochi gli esempi di invenzioni e innovazioni che avrebbero in teoria permesso sostanziali aumenti di produttività e che si sono invece risolti in perdite di risorse e impulsi negativi al funzionamento dell’economia.
Non esistono, né sono mai esistiti, risultati economici necessariamente conseguenti a innovazioni scientifiche o tecniche. Perché dalla tecnologia si passi a rendimenti economici effettivi, e quindi alla crescita, occorre un processo di carattere economico, che è essenzialmente un processo di coordinamento. Il progresso economico consiste, infatti, nella comparsa di nuovi beni e servizi a seguito di qualche forma di innovazione (di tipo tecnico, organizzativo, di m.). Nuovi beni richiedono nuovi processi produttivi, quindi nuove attività che a loro volta richiedono nuovi tipi di interazione fra gli attori e le istituzioni esistenti o anche la comparsa di nuovi attori e istituzioni.
Coordinamento e coesione sociale. – Le società capitalistiche contemporanee sono segnate da continue rotture, disequilibri, crisi, che rappresentano il motore del cambiamento e della crescita. Il disequilibrio è l’habitat naturale del cambiamento, dell’innovazione, della crescita.
Un processo di cambiamento qualitativo, cioè del modo di funzionare di un sistema, consiste nella destrutturazione di ciò che esiste e nella strutturazione di ciò che sarà. Il modo di funzionare di un’economia dipende in primo luogo dal modo di funzionare del suo apparato produttivo, caratterizzato da una data capacità produttiva (risorse fisiche, umane, quadro di relazioni fra soggetti e istituzioni economiche ecc.) e da certi risultati, in termini di produttività e di occupazione. Il cambiamento necessario per uscire da una crisi come quella attuale implica pertanto in primo luogo una ristrutturazione dell’apparato produttivo il cui funzionamento ha condotto a tale crisi.
Occorre, in altre parole, un processo che da una decisione basata su una qualche idea, su un qualche principio scientifico o progetto qualsiasi, permetta di dar vita a una capacità produttiva il cui concreto e stabile operare produca i risultati economici ricercati.
Il problema che effettivamente si pone, allora, non è quello di una scelta che determina già automaticamente tutto, bensì quello del processo che bisogna affrontare per giungere ai risultati voluti (aumenti di produttività, comparsa di nuovi beni). La politica da perseguire, quindi, non consiste nel creare gli incentivi per una scelta tecnologica ottima, ma nell’effettuare gli interventi che permettano di rendere fattibile il processo di ristrutturazione della capacità produttiva in questione. Il successo di tale processo, volto a ristabilire un’evoluzione sostenibile dell’economia, dipende peraltro dal riuscito coordinamento di quanto esso coinvolge, che va ben al di là di un coordinamento produttivo in senso stretto. La ristrutturazione dell’apparato produttivo di un’economia implica infatti allo stesso tempo un cambiamento degli attori, o delle relazioni fra gli attori che esistevano prima, e cioè la comparsa di diversi tipi di rapporti non solo fra imprenditori, lavoratori, capitalisti, ma tra organi pubblici, istituzioni e così via. Vi è tutta una costellazione di relazioni che deve essere modificata perché il processo di cambiamento possa essere portato a termine, ristabilendo quel coordinamento che è stato rotto dal disequilibrio creato dal cambiamento.
Da questa diversa prospettiva consegue in primo luogo che il coordinamento ottimo non è affatto privilegio di una forma specifica di m., in particolare la concorrenza indicata quale forma ideale. Se infatti è vero che la rivalità, al cuore della concorrenza, è fattore essenziale per scelte innovative, nei processi di innovazione le strutture di m. che massimizzano la crescita della produttività emergono quale risultato dell’operare di meccanismi di coordinamento che non sono altro che connessioni di m. che spesso richiedono vere e proprie pratiche monopolistiche.
Accordi collusivi, oligopoli, concentrazioni di m., politiche discriminatorie di prezzi e altre forme usualmente considerate come di imperfezioni di m. possono invece risultare più efficaci ai fini della fattibilità di processi innovativi e dell’ottenimento di quei rendimenti che permettono un effettivo accrescimento del benessere generale. Così come l’intervento pubblico, visto di recente sempre più come ostacolo al libero gioco della concorrenza piuttosto che fattore di inefficienza e di intralcio all’innovazione e alla crescita, può svolgere invece un ruolo positivo nello stimolare e guidare tali processi. Del resto lo stesso Adam Smith, ritenuto il primo paladino dell’idea del m. quale deus ex machina dell’andamento dell’economia, riconosceva che la libera concorrenza ammette numerose eccezioni, perché il libero gioco degli interessi può condurre a conseguenze negative, e sottolineava in molti casi l’importanza dell’intervento dello Stato e il ricorso a politiche di regolamentazione.
La ragione principale di simili considerazioni va vista nel fatto che il funzionamento dell’economia, e in particolare il tentativo di modificarne il modo, implica interessi contrastanti. Ogni tipo di cambiamento danneggia o favorisce selettivamente; la rottura dello status quo è per definizione caratterizzata da contrasti di interessi fra individui, fra individui e organizzazioni, fra organizzazioni, fra Paesi. Non è quindi soltanto necessario ristabilire il coordinamento dell’attività produttiva in senso stretto, ma è importante riuscire a mediare, a creare compromessi, a effettuare arbitraggi che permettano il non precipitare degli interessi contrapposti, ma il renderli entro certi limiti compatibili. Un sistema avviato su un sentiero di stabilità è un sistema che riesce a mantenere equilibri che non favoriscono né danneggiano qualcuno in particolare ma che vengono accettati da tutti non come un ottimo ma come una condizione necessaria. Questo compito di coesione sociale non può evidentemente essere demandato a scelte individuali, ma richiede interventi condotti nella prospettiva più generale di garantire il funzionamento del sistema nel suo complesso.
Bibliografia: B. Ingrao, F. Ranchetti, Il mercato nel pensiero economico, Milano 1996; J. Stiglitz, Globalization and its discontents, Londra 2002 (trad. it. La globalizzazione ed i suoi oppositori, Torino 2002); M. Amendola, J.-L.Gaffard, The market way to riches: behind the myth, Cheltenham 2006.