MEZZANI, Menghino
– Domenico, più noto con l’ipocoristico Menghino (o Minghino), nacque presumibilmente durante l’ultimo decennio del XIII secolo a Ravenna, dove il padre Ugolino, originario della località di Mezzano (Ferrara) da cui la famiglia prendeva il nome, si era da poco stabilito prendendo casa nella «guaita» di S. Maria Maggiore.
Avviato alla professione di notaio, il M. praticava già nel 1317, anno al quale risale il suo primo rogito, sicché a questa data doveva avere compiuto almeno il diciottesimo anno di età, condizione necessaria per l’esercizio del notariato, testimoniato poi da altri rogiti a sua firma datati 1324 e da uno dell’11 febbr. 1326.
Poiché Ravenna in quegli anni fu «l’ultimo rifugio» di Dante Alighieri, pare verosimile la notizia riferita da Coluccio Salutati, in una lettera del 2 ott. 1399 a Niccolò da Tuderano, cancelliere dei Polentani, che il M. fosse «familiaris et socius Dantis nostri».
Tale dimestichezza con il poeta, o la presunzione della stessa, gli meritò una fama certo non immeritata, ma forse un poco sopravvalutata. Attorno a Dante, negli ultimi anni di relativa tranquillità, si dovette raccogliere un gruppo di intellettuali, dei quali ci informa Boccaccio, probabilmente con qualche illazione circa una presunta attività di insegnamento dell’Alighieri. E sempre a Boccaccio dobbiamo la proposta di riconoscere, sotto le mentite spoglie bucoliche dei personaggi della II Egloga dantesca, i compagni del poeta a Ravenna. Tra i componenti di tale gruppo si annoverano Fiduccio Milotti, Guido Vacchetta, Dino Perini, Piero Giardini e lo stesso Mezzani. La biografia del M. esibisce almeno una sicura tangenza con Pietro Giardini, che Boccaccio riteneva essere uno dei più intimi amici di Dante a Ravenna, in un atto del 3 apr. 1346, nel quale sono accomunati nel compito di sostituire il procuratore del vescovado di Faenza. Un altro documento del 1° dic. 1325 vede il M. rogare un atto testamentario in cui compare come teste Tura Giardini, fratello di Pietro.
Accanto alla professione notarile il M. svolse un’intensa attività amministrativa al servizio di Ostasio da Polenta, signore di Ravenna. Il 21 maggio 1325 fu nominato dal Comune notaio ai Malefici e nel 1328 alle Riformazioni, nel quale ruolo, il 4 luglio, firmò un trattato commerciale tra Ravenna e Venezia. Nel 1330 fece parte della commissione per la revisione degli statuti. Il 2 sett. 1334 era procuratore del vescovo di Faenza. Nel 1343 sottoscrisse l’atto con il quale Ravenna e Cervia giurarono ubbidienza al papa, mettendo fine alle tensioni che perduravano tra Ostasio da Polenta e la S. Sede dai tempi della legazione di Bertrand du Poujet. Nel 1348 si trovava a Pisa tra i notai del podestà Tanuccio degli Ubaldini. Frattanto, come rivelano documenti datati tra il 1352 e il 1354 e un primo testamento del 16 ott. 1362, si era sposato con una Giovanna di cui è ignota la famiglia, già morta nel 1352, da cui ebbe due figli maschi (Antonio e Ugolino) e quattro femmine (Clara, Lucia, Margherita e Caterina).
Il silenzio dei documenti dal 1354 al 1360 è probabilmente dovuto a una carcerazione subita dal M., alla quale allude la corrispondenza poetica intercorsa con Antonio Beccari. Le ragioni della prigionia potrebbero essere individuabili nella serie di arresti ordinati da Bernardino da Polenta a seguito del tumulto dei Ravennati contro di lui del 28 maggio 1357.
Ci rimangono quattro componimenti del M. responsivi di altrettanti del Beccari. Oltre al tema della prigionia (sonetti XLVIIIa - XLVIIIb e XLIXa - XLIXb dell’ed. Bellucci), si dibatte quello del duello annunciato nel 1354 tra Galeotto Malatesta e Francesco degli Ordelaffi, che il Beccari (nella canzone XXXVI e poi nella replica al sonetto dell’amico XXXVIIb) aveva cercato di scongiurare, mentre il M. lo giudicava opportuno. In un altro sonetto di proposta, steso poco dopo il 1355 (XLVIa), il Beccari inveisce contro l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo, deluso per la sua breve e inutile discesa in Italia, e il M. risponde con pari sdegno, con toni e citazioni danteschi (XLVIb). Infine è da ricordare un ennesimo sonetto (n. LXVI) del Beccari responsivo di uno perduto, forse ancora del M., che lo invitava a ritornare a Ravenna.
Frequentava Ravenna anche Boccaccio, che probabilmente conobbe personalmente il M., al quale fece assumere, secondo un’ipotesi di Torraca, i panni di Dorilo, secondo interlocutore dell’Egloga X del Buccolicum carmen (G. Boccaccio, Tutte le opere, V, 2, Milano 1994, pp. 804-815) che, nell’epistola di Boccaccio a Martino da Signa, si dice essere «quidam captivus» (ibid., V, 1, ibid. 1992, p. 716), alludendo, se l’identificazione è corretta, alla prigionia subita dal Mezzani.
Fu Boccaccio verosimilmente ad acquisirlo alla familiarità di Petrarca, il quale nella Senile V 2, inviata allo stesso Boccaccio probabilmente nel 1364, faceva riferimento, con certa deferenza, a «quel vecchio da Ravenna», identificato da Ricci appunto con il M., competente giudice in materia di poesia, che, nel suo giudizio, avrebbe collocato Dante al primo posto tra i poeti contemporanei, seguito da Petrarca e Boccaccio. Altre due schede completano il quadro dei rapporti con il poeta: la prima è la Metrica I 11 (Poesie minori del Petrarca, a cura di D. Rossetti, Milano 1829-34, I, p. 98) che, secondo l’indicazione di un manoscritto (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozziano, 141), sarebbe indirizzata al M.; la seconda è uno scambio di sonetti, ove alla proposta petrarchesca Aman la madre e ’l padre il caro figlio (Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, a cura di A. Solerti, Firenze 1909, p. 106: invero di dubbia autenticità, nonostante l’attribuzione di quattro manoscritti), rispose il M. con Io fui fatto da Dio a suo simiglio, in cui fin dall’incipit è scoperta l’influenza dantesca.
Al 4 giugno 1360 risale un rogito che mostra il M. tornato alla sua attività di notaio. Si conservano vari documenti successivi in cui è menzionato (datati 5 settembre e 21 ott. 1361, 1362, 13 dic. 1363, 1365, 23 nov. 1366, 9 febbraio e 12 luglio 1367, febbraio e 17 sett. 1368, tre documenti 1369, quattro documenti 1370, 9 marzo 1371, 1375), da alcuni dei quali si apprende che, oltre al notariato, esercitava una attività commerciale di prodotti alimentari. Compare come teste per l’ultima volta il 17 giugno 1376.
Oltre alle rime ricordate, gli viene attribuito il sonetto Stassi il tuo Nino e va qua co i compagni, piuttosto sospetto perché testimoniato solamente dalla stampa settecentesca di P.P. Ginanni (Rime scelte de’ poeti ravennati, Ravenna 1739, p. 6), la quale gli assegna anche una canzone de Fortuna, che va restituita a Gano da Colle. Parimenti il sonetto Vostro sì pio officio offerto a Dante, di lode a Bernardo Scannabecchi di Canaccio per aver compiuto il restauro della tomba di Dante a Ravenna, va sottratto alla sua paternità e restituito a quella di Guglielmo Maramauro. Concorde è invece l’attribuzione al M. dell’epitafio dantesco Inclita fama cuius universum penetrat orbem, in sei esametri ritmici, conservato in almeno 36 manoscritti, che pare sia stato posto sulla tomba del poeta tra il 1373 e il 1374.
La tradizione, pur con qualche titubanza dovuta all’intitolazione del ms. Rimini, Biblioteca civica Gambalunga, SC-MS. 1162, in cui il M. parrebbe il dedicatario, gli assegna un capitolo ternario sulla Commedia, sul modello di quelli di Iacopo Alighieri, Guido da Pisa, Bosone da Gubbio, e molto vicino, per il carattere riassuntivo e non critico, agli Argomenti di Boccaccio, con cui condivide l’idea di riprendere gli incipit danteschi, non solo a inizio del capitolo dedicato a ciascuna cantica, ma a ogni verso che introduce un canto, per solito riassunto in due terzine. Manca il ternario relativo al Paradiso, che forse non fu mai composto.
Probabilmente a tale testo si riferiva Salutati nel lodare le competenze circa la Commedia del M., dicendo che «fuit huius libri doctissimus et studiosus et quod super ipso scripserit curiose». Tuttavia si pensò che potesse alludere a un vero e proprio commento che alcuni vollero identificare, senza alcuna prova concreta, con le cosiddette Chiose ambrosiane prodotte in area romagnola e conservate nel ms. della Biblioteca Ambrosiana, Sala prefetto, 5 (C.198 inf.). Più recentemente è stata proposta l’attribuzione delle chiose latine ai margini del ms. Phillipps 8881, dato per disperso da più di vent’anni e riemerso ad Austin (University of Texas Library Chronicle, H.R.C.35), contenente la Commedia preceduta dal capitolo in terzine, e steso nel 1363 da una mano nella quale Augusto Campana ha ritenuto di riconoscere quella del Mezzani. L’autografia tuttavia pare insostenibile, sia a un ulteriore esame paleografico, sia per la presenza di errori di tradizione nei ternari.
Il M. morì a Ravenna il 9 nov. 1376. Il giorno prima aveva fatto testamento (secondo dopo quello del 1362), rogato dal notaio Vitale «quondam ser Johannis Tabellionis», cui pervennero i suoi protocolli (con atto del 24 agosto), evidentemente in mancanza di figli che esercitassero il notariato (restava Ugolino, in quanto Antonio era già morto). In tale testamento il M. chiedeva di essere sepolto presso la chiesa di S. Vitale.
I sonetti scambiati con Antonio Beccari sono leggibili in Le rime di maestro Antonio da Ferrara (Antonio Beccari), a cura di L. Bellucci, Bologna 1972; il sonetto responsivo ad Aman la madre è pubblicato da B.C. Cestaro, Rimatori padovani del sec. XV, Venezia 1914, p. 147 (attribuito a Domizio Brocardo) e P. Vecchi Galli, Cultura di corte, in Storia di Ravenna, III, Dal Mille alla fine della signoria polentana, a cura di A. Vasina, Venezia 1993, p. 627; l’epitafio per Dante Inclita fama è edito, tra l’altro, da L. Mazzoni, Per il testo dell’epitafio dantesco «Inclita fama», in Italia medioevale e umanistica, XLII (2001), pp. 339-350; il capitolo in terzine (conservato, oltre che dai mss. indicati, da Oxford, Bodleian Library, Can. It., 115) è pubblicato sotto il nome di Iacopo Gradenigo da L. Frati, in Miscellanea dantesca, Firenze 1884, pp. 33-45 e da C. Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri, II, Roma 1890, pp. 543-560.
Fonti e Bibl.: F. Novati, Epistolario di Coluccio Salutati, III, Roma 1904, p. 374; O. Montenevosi, Documenti pergamenacei di Romagna nell’Archivio di Stato di Roma, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria delle provincie di Romagna, s. 4, XVI (1926), p. 79; C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, a cura di E. Chiarini, Ravenna 1965, ad ind. (bisogna ricorrere alla prima edizione Milano 1891 per l’edizione delle rime, pp. 391-408, e per i documenti principali, App. II, pp. 413-454); D. Berardi, Un notaio ravennate e la «Commedia», in Romagna arte e storia, IX (1989), 25, pp. 5-10; F. Petrarca, Senile V 2, a cura di M. Berté, Firenze 1998, p. 77; F. Roediger, Dichiarazione poetica dell’«Inferno» dantesco di frate Guido da Pisa, in Il Propugnatore, n.s., I (1888), parte I, p. 353; E. Levi, Antonio e Nicolò da Ferrara, poeti e rimatori di corte del Trecento, in Atti e memorie della Deputazione ferrarese di storia patria, XIX (1909), pp. 212-220, 229-233, 303; F. Torraca, Per la biografia di Giovanni Boccaccio, Milano-Roma 1912, pp. 179-186; E. Carrara, rec. a A.F. Massera, Il preteso epicedio bucolico dantesco, in Bullettino della Società dantesca italiana, XX (1913), pp. 197 s.; G. Lidonnici, rec. a F. Torraca, Per la biografia di Giovanni Boccaccio, in Rassegna bibliografica della letteratura italiana, XXI (1913), pp. 81-93; T. Casini, Scritti danteschi, Città di Castello 1914, pp. 154, 171-174; V. Zabughin, Quattro «geroglifici» danteschi, in Giornale storico della letteratura italiana, suppl. 19-21 (1921), pp. 540, 557; Id., L’oltretomba classico e medievale dantesco nel Rinascimento, in L’Arcadia, IV (1919 [ma 1923]), p. 119; G. Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, p. 186; B. Sandkühler, Die frühen Dantekommentare und ihr Verhältnis zur mittelalterlichen Kommentartradition, München 1967, p. 239; A. Campana, M. M., in Enc. dantesca, III, Roma 1971, pp. 937-939; L.C. Rossi, Introduzione a Le chiose ambrosiane alla «Commedia», Pisa 1990, pp. XXXVII-XLIV; G. Petrocchi, La tradizione settentrionale della «Commedia» dall’età del Boccaccio a quella del Villani, in Id., Itinerari danteschi, Premessa, a cura di C. Ossola, Milano 1994, pp. 171-190; V. Branca, Giovanni Boccaccio, profilo biografico, Firenze 1997, pp. 74, 95, 125-127; S. Bellomo, «Parvi Florentia mater amoris». Gli epitafi sul sepolcro di Dante, in Vetustatis indagator. Scritti offerti a Filippo Di Benedetto, a cura di V. Fera - A. Guida, Messina 1999, pp. 19-33; Id., Prime vicende del sepolcro di Dante, in Letture classensi, XXVIII (1999), pp. 55-71; L.C. Rossi, Problemi filologici dei commenti antichi a Dante, in ACME - Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli studi di Milano, LIV (2001), 3, pp. 125 s.; S. Bellomo, Dizionario dei commentatori danteschi, Firenze 2004, pp. 330-338; C.M. Sanfilippo, Primi appunti sul volgare di Ravenna nel secondo Trecento, in Nuove prospettive sulla tradizione della «Comedia». Una guida filologico-linguistica al poema dantesco, a cura di P. Trovato, Firenze 2007, pp. 411-456.
S. Bellomo