Medicina riabilitativa
La medicina riabilititava, assurta a rango di disciplina specialistica solo negli anni Settanta del Novecento, è volta alla prevenzione e alla riduzione degli esiti invalidanti delle malattie e al raggiungimento o al mantenimento da parte del paziente del massimo di autonomia compatibile con le sue potenzialità residue fisiche, psicologiche, vocazionali e ricreative. I pazienti candidati alla riabilitazione sono quelli che, persa la loro abilità funzionale a seguito di un trauma o di un'altra malattia, mostrano una potenzialità di recupero, sia pure parziale, di tale abilità. Si tratta di pazienti con i postumi di un accidente cerebro-vascolare o di un trauma cranio-encefalico e/o vertebro-midollare, o affetti da disordini muscolo-scheletrici e neurologici degenerativi, o che presentano insufficienza cardiaca o respiratoria. Lo specialista di tale disciplina è il medico fisiatra, che viene consultato quando il paziente ha mostrato miglioramenti tali da non richiedere più un'attenzione medica costante, ma allo stesso tempo non ancora sufficienti a consentirgli di provvedere alle attività di self-care, né a restituirlo alle condizioni di salute precedenti l'evento morboso. Il fisiatra ricorre a tecniche di valutazione diagnostica specifiche e impiega le più svariate strategie di trattamento (di tipo farmacologico, fisico, educativo). La disabilità è raramente connotabile in modo esclusivo secondo la natura della patologia d'origine (per es., neurologica piuttosto che ortopedica), e altrettanto raramente è una sola funzione a presentarsi deficitaria (per es., quella motoria piuttosto che quella cognitiva). Al fisiatra è pertanto richiesto un intervento di tipo olistico, diversamente da quello essenzialmente meccanicistico, proprio della medicina più tradizionale.
Già dall'inizio degli anni Settanta era stata avvertita l'esigenza di un metodo oggettivo di valutazione della funzionalità residua di un individuo che avesse sofferto di una particolare malattia. I criteri sin lì adottati, meramente descrittivi ed empirici, di miglioramento di singole funzioni prima compromesse, difettavano chiaramente in affidabilità e riproducibilità, condizioni indispensabili per poter effettuare confronti tra pazienti e per tenere traccia dell'evoluzione clinica in modo da valutare il processo di riabilitazione nel tempo.
La 'valutazione funzionale oggettiva' ‒ secondo la locuzione coniata nel 1970 da Powell Lawton ‒ di un paziente affetto da una qualunque forma di disabilità indicava il tentativo di misurazione oggettiva del livello di funzionalità di una persona nei confronti di una notevole varietà di attività. Tuttavia a tale processo fu inizialmente riconosciuta con difficoltà dignità scientifica. L'epidemiologo e reumatologo inglese Phillip Wood è autore nel 1980 di un primo rapporto per l'Organizzazione Mondiale della Sanità sull'argomento. A lui si deve in effetti l'originario tentativo di identificare in modo organico le conseguenze invalidanti attese per ogni determinata malattia. La chiave per documentare il grado di disabilità consiste nella dettagliata descrizione di come vengono svolte da parte del paziente le proprie attività quotidiane, concetto sintetizzabile nell'aforisma: "As we function, so shall we live".
Dalla fine degli anni Ottanta i medici della riabilitazione diedero dunque inizio a un graduale processo di quantificazione dei risultati. Di qui anche la necessità di stabilire il rapporto costo-efficacia tra il livello di intensità terapeutica riabilitativa e la risposta del paziente.
La riabilitazione dei pazienti traumatizzati cranici merita attenzione particolare sia per la sua complessità che per le molte competenze disciplinari coinvolte. Oltre agli aspetti propriamente neurologici e neuropsicologici, propri delle funzioni motorie e intellettive quali la vigilanza, la coscienza, la memoria, la comprensione, il linguaggio, devono infatti essere affrontate le numerose patologie associate, prime tra tutte quelle provocate dal trauma anche in altri distretti e quelle infettive, soprattutto polmonari. Nonostante i diversi possano realizzare delle sindromi nosograficamente ben circoscritte, quali per esempio l'emiplegia corticale o sottocorticale, la riabilitazione non può essere in alcun caso circoscritta all'interno di schemi rigidamente preordinati. La riabilitazione deve intervenire in tutte le fasi del recupero funzionale, con lo scopo di ristabilire i vari livelli di integrazione motoria, e questo nella prospettiva di un possibile raggiungimento di un buon livello di indipendenza e di un soddisfacente adattamento del corpo alla vita di relazione. La reintegrazione progressiva degli schemi motori va infatti di pari passo con il ritorno a una , cioè dipendente dalle funzioni cerebrali superiori, con sede nella corteccia, e non più disarmonica e riflessa come nel coma.
Per questa ragione la riabilitazione dovrebbe iniziare quanto più precocemente possibile, da quando il paziente è ancora in coma sino all'auspicato ritorno alla vita familiare o professionale. Il primo obiettivo terapeutico del trattamento riabilitativo precoce di un traumatizzato cranico consiste nel mantenimento delle funzioni vitali, cercando di ottenere prima possibile un'autonomia da mezzi esterni, soprattutto la . Il secondo obiettivo è quello di prevenire le complicanze di interesse ortopedico (anchilosi, retrazioni tendinee), conseguenti alle alterazioni posturali secondarie ai disturbi permanenti o parossistici del tono muscolare, tanto più minacciose quanto più il coma si prolunga. L'ultimo obiettivo da raggiungere in questa fase della riabilitazione è quello di favorire il risveglio, il rapporto con il mondo esterno, il ripristino del comportamento.
I limiti della riabilitazione del paziente traumatizzato cranico grave derivano essenzialmente da tre fattori. In primo luogo la gravità dello stato neurologico, intimamente legato alla quantità del danno neuronale, che nonostante i progressi diagnostici (immagini, ), rimane il problema principale, con una prognosi che a lungo rimane aleatoria. L'altro fattore riguarda gli aspetti neuropsicologici. Più di ogni altro insulto somatico, il trauma cranico è caratterizzato da gravi conseguenze di ordine psicologico derivanti dall'aggressione, la quale, unitamente alla subitaneità dell'evento e al suo potenziale di annichilimento, è probabilmente all'origine della residua angoscia di morte spesso propria di questi pazienti, che finisce talora per condizionare non poco il risultato riabilitativo. Il trauma cranico si configura dunque come un vero cataclisma esistenziale, dove anche l'ambiente terapeutico e i rimaneggiamenti psico-fisiopatologici possono contribuire a sconvolgere l'eventuale personalità premorbosa di un individuo.
Il terzo fattore che limita il successo della riabilitazione, di importanza non inferiore rispetto ai due precedenti, è rappresentato infine dalle complicanze sistemiche, di varia natura, che costellano l'evoluzione e modificano continuamente il progetto riabilitativo richiedendo il massimo coinvolgimento degli infermieri e dei medici delle diverse specialità. I problemi maggiori sono legati alle infezioni respiratorie, in quanto la gran parte dei comi post-traumatici richiede una ventilazione meccanica particolarmente prolungata. La fisioterapia respiratoria è pertanto critica per un rapido svezzamento del paziente dal ventilatore automatico, in quanto ha il fine di continuare ad assicurare un adeguato drenaggio bronchiale, contenendo così il rischio di complicazioni polmonari. È inoltre indispensabile mettere in atto da subito ogni misura di prevenzione delle pericolose retrazioni tendinee, delle anchilosi articolari, infine delle cosiddette 'osteo-artopatie neurogene'. I comi traumatici si accompagnano infatti in modo pressoché costante a un'importante permanente, talora con rinforzi parossistici in o decorticazione.
La è una terapia fisica che consiste nella mobilizzazione passiva delle singole parti del corpo e ha come scopo, opponendosi alle posture patologiche stereotipate provocate dall'ipertonia e attenuandone le conseguenze, la prevenzione delle deformità e la rieducazione motoria. Diversi sono i concetti ispiratori e le metodiche applicate; sono in ogni caso proscritti sistemi di contenzione quali docce, tutori di mantenimento, tavolette antiequinismo, perché perpetuano la spasticità e sono sorgente di scariche di impulsi nocicettivi dannosi. Utile è infine l'ausilio, quando somministrati per tempo, di farmaci antispastici, sia quelli che agiscono per via sistemica, quali il baclofen, sia quelli ad azione locale, quale la tossina botulinica.
La perdita della vita di relazione che il coma traumatico comporta richiede la messa in opera di stimoli che utilizzino i diversi canali percettivi, vie di ingresso delle informazioni. Le tecniche fisiche debbono perciò essere integrate da un rinforzo della relazione con i pazienti comatosi, e ogni stimolazione fisica dovrebbe al meglio poi essere verbalizzata in una prospettiva di reintegro della coscienza percettiva del paziente. L'ambiente a questo punto gioca un ruolo fondamentale, sia dal punto di vista sonoro che visivo, ed è bene pertanto che risulti quanto più calmo e rassicurante possibile, riducendo al minimo la presenza dei rumori ansiogeni, quali per esempio quelli degli allarmi degli strumenti di monitoraggio. Devono essere frequentemente utilizzati riferimenti temporali e ricercate le reazioni di piacere o dispiacere eventualmente prodotte dalle cure (igiene, mobilizzazione, cambiamenti di posizione). L'alzata precoce e i bagni fin da questo stadio costituiscono delle attività effettivamente in grado di migliorare il livello di vigilanza.
Talora è possibile far sedere il paziente ancora intubato, con i piedi a piatto sul suolo e il corpo e la testa entrambi eretti. È questo uno dei momenti privilegiati di osservazione delle reazioni di risveglio, consentendo di dare luogo a stimolazioni più complesse. Una volta che si siano risolti i problemi vitali, e il disturbo di vigilanza abbia iniziato a dissiparsi, l'obiettivo primario diviene quello di condurre il paziente verso una coscienza del proprio corpo e del mondo che lo circonda. La durata di questa fase è assai variabile. Periodi di scarsa vigilanza possono alternarsi a momenti fecondi di risveglio, e su questi è puntualmente necessario fare leva. In altri casi il paziente può continuare a presentare dei periodi di agitazione e disregolazione vegetativa difficilmente controllabili, intervallati da fasi di obnubilazione e ipocinesia. Altri pazienti manifestano infine un'ipersonnia continua, talora interrotta soltanto dall'intervento della terapia fisica e dal ritmo delle cure fisiche e dall'alimentazione.
Gli obiettivi della riabilitazione a questo stadio privilegiano lo stabilirsi di una relazione costante e di una presa di coscienza dei propri disturbi neurologici. La rieducazione muscolare attiva è cruciale, nonostante la limitatezza della partecipazione volontaria. È in ogni caso necessario facilitare la motilità spontanea in un ambiente rassicurante, senza contenzioni, per esempio su larghi materassi, così come l'adattamento dell'ambiente visivo e sonoro ai gusti, alle attitudini e alla personalità del paziente, il che richiederà la partecipazione diretta della famiglia, la disposizione di fotografie, di manifesti, e comunque di oggetti personali carichi di significato affettivo, nonché l'ascolto di musica. La cannula tracheostomica e la sonde gastriche vanno rimosse il prima possibile. Gli eventuali progressi nella riorganizzazione motoria vengono di continuo valutati ricorrendo ai riferimenti chiave propri dello sviluppo psicomotorio del bambino, procedendo quindi in sequenza dalla posizione supina a quella seduta, al controllo del capo, del tronco e degli arti inferiori, al decubito prono, allo strisciamento, al passaggio all'andatura a quattro zampe, alla protezione efficace nelle cadute e alla possibilità del cammino carponi.
La persistenza di disturbi della vigilanza e le alterazioni del ritmo sonno-veglia rendono i pazienti traumatizzati cranici particolarmente sensibili all'eventuale saturazione dell'informazione, il che spiega affaticabilità e reazioni di opposizione. Il programma riabilitativo viene dunque adattato quotidianamente, da ognuno dei membri dell'équipe curante, in base all'esperienza vissuta dal paziente. I bagni sistematici aiutano il risveglio e il ritorno a un comportamento sociale adatto; essi dovrebbero essere praticati tutti i giorni alla stessa ora, di preferenza al momento del risveglio. Si tratta di una delle attività privilegiate nel corso della quale il terapista cerca di stabilire un codice di comunicazione con il paziente quando questi è ancora . Le reazioni espressive del volto, gli aggrottamenti, il ridere e il piangere, i movimenti di negazione o di affermazione della testa, o semplicemente delle palpebre, sono avvenimenti significativi che hanno valore di comunicazione. Infine l'assunzione dei pasti, l'abbigliamento, la ricerca della continenza debbono essere inseriti in questo svolgimento temporale, come stima della successione, della durata e del ritmo delle attività elementari. Progressivamente l'alternanza delle diverse occupazioni accentuerà i contrasti tra le diverse esperienze, faciliterà il risveglio e il ritorno ad attività congrue, porterà infine alla ripresa dell'autonomia gestuale e della comunicazione verbale.
Apprezzare il limite che separa la fine del risveglio e l'inizio della rieducazione attiva può essere delicato. Si può affermare che la fase realmente attiva presuppone la presa di coscienza dello stato morboso e della sua origine traumatica, il riconoscimento dei membri dell'équipe curante, una motricità residua e un comportamento sociale nell'insieme idoneo. Questa fase può durare mesi o anni, e il recupero non sempre segue una progressione continua lineare. Scopo della rieducazione attiva a questo punto diventa il miglioramento delle possibilità motorie e funzionali. Il paziente traumatizzato è invitato a passare da attività automatiche riflesse a un lavoro attivo e gestuale, in una progressione che deve condurre all'autonomia gestuale e all'indipendenza. Così, grazie a molto tempo, molte risorse e molta tenacia, molti traumatizzati cranici gravi ottengono un recupero funzionale insperato all'inizio della terapia.
I recenti progressi in campo traumatologico, protesico e ricostruttivo, ma anche in quello delle diverse patologie degenerative dell'osso e delle articolazioni, hanno connotato la riabilitazione ortopedica quale superspecialità a sé stante, collocandola più propriamente nell'ambito della disciplina ortopedica piuttosto che in quello della medicina riabilitativa. Gli obiettivi primari della riabilitazione ortopedica sono costituiti dal recupero funzionale del segmento muscolo-scheletrico interessato, in genere dopo la chirurgia, e delle funzioni specifiche dei pazienti affetti da malattie invalidanti del sistema osteoarticolare. La riabilitazione ortopedica viene spesso intrapresa a partire già dall'immediato periodo postchirurgico, inizialmente avvalendosi di tutta una serie di dispositivi ausiliari, che consentono al paziente di eseguire un determinato movimento, come flettere un arto o camminare. La scelta corretta di dispositivi di trazione e immobilizzazione si presenta critica per il trattamento dei diversi disordini di natura biomeccanica conseguenti alle fratture e alle patologie osteoarticolari.
Nel mondo industrializzato le malattie degenerative della colonna lombare e cervicale rappresentano praticamente la causa più comune di disabilità permanente e di assenza dal lavoro. Rilevanza sociale presentano inoltre le malattie infiammatorie acute e croniche, settiche e asettiche delle articolazioni, così come le artropatie da microtrauma ripetuto. Sono inoltre di interesse riabilitatorio alcune più rare condizioni morbose, quali le osteonecrosi, le osteocondriti, le condromatosi e le malattie articolari su base neuropatica. In aggiunta, la riabilitazione ortopedica si occupa del recupero funzionale di disabilità legate a malformazioni e dimorfismi congeniti, così come delle alterazioni muscolo-scheletriche conseguenti a gravi ustioni. Non da ultimo è necessario sottolineare la profonda diversità dei rispettivi percorsi riabilitativi propri dei pazienti pediatrici, adulti e anziani, legata al ruolo giocato dall'invecchiamento del sistema osteoarticolare.
La base scientifica della riabilitazione ortopedica risiede nell'approfondita conoscenza dell'anatomia del segmento osteoarticolare interessato e dell'alterazione biomeccanica che ha prodotto la disabilità, così come della biologia del processo di guarigione dell'osso e dei tessuti molli a esso collegati quali muscoli, nervi e legamenti. Tuttavia la complessità di alcune strutture e il continuo progresso delle conoscenze fanno sì che la riabilitazione ortopedica assuma ulteriori connotati super-specialistici, come per esempio nel caso di quella dei pazienti politraumatizzati in cui sia presente una frattura del bacino, o di quelli con fratture ossee secondarie all'osteoporosi. Recentemente stanno assumendo un ruolo sempre più importante e autonomo la riabilitazione dopo ricostruzione artroscopica e quella dopo posizionamento di protesi.
In generale, la riabilitazione ortopedica si fonda essenzialmente sull'impiego della cinesiterapia e sulla terapia fisica. Il movimento rappresenta lo scopo finale della cinesiterapia. L'assenza o la riduzione di movimento comportano infatti alterazioni qualitative e quantitative del tessuto muscolare e del tessuto connettivo delle strutture articolari e periarticolari. L'immobilità è conseguente a traumi, apparecchi gessati, stati algici articolari o muscolari. Il dolore osteo-artro-muscolare dà luogo a una scorretta esecuzione dei movimenti e all'instaurazione di meccanismi adattativi di compenso. Tutto questo si traduce frequentemente nell'esecuzione abituale di movimenti anomali che alterano la fisiologica dinamica dell'apparato locomotore e che diventano a loro volta causa di malattia, concorrendo a mantenere o a peggiorare l'iniziale condizione patologica.
La mancanza di movimento o/e la sua scorretta esecuzione sono inoltre causa di una graduale perdita degli schemi motori o dell'instaurarsi di schemi errati. Il ripristino o la prevenzione della perdita del normale tono-trofismo e della coordinazione muscolare sono tra gli obiettivi fondamentali della cinesiterapia. La mobilità delle articolazioni, l'estensibilità dei tessuti molli e il loro trofismo sono infatti mantenuti dal fisiologico movimento delle parti del corpo. Un corretto intervento cinesiterapico è in grado di opporsi ai processi di ipotrofia e di degenerazione tessutale e alle produzioni abnormi di tessuto connettivo, mantenendo o recuperando la funzione delle strutture interessate direttamente o indirettamente dal processo patologico.
La locuzione 'terapia fisica' definisce l'insieme delle metodologie terapeutiche che utilizzano agenti fisici quali l'aria, l'acqua, la luce, l'elettricità, il calore, le onde sonore ed elettromagnetiche. Per esempio, l'elettroterapia si basa sull'utilizzo di correnti elettriche che, a seconda del tipo di intensità e frequenza utilizzate, possono determinare un effetto antalgico e antinfiammatorio, oppure veicolare farmaci ionizzati, in modo da aumentare il potere di penetrazione locale del prodotto o indurre e potenziare la contrazione di selezionati gruppi muscolari. A questo gruppo di terapie appartengono la e l'elettroanalgesia, più conosciuta come TENS (Transcutaneous electrical nerve stimulator), la quale prevede l'utilizzo di correnti diadinamiche, interferenziali e rettangolari a bassa frequenza.
L'ultrasuonoterapia utilizza onde di ultrasuoni per esercitare una sorta di massaggio sui tessuti, allo scopo di diminuire le infiammazioni di tendini, muscoli e articolazioni, nonché di ridurre l'edema sottocutaneo. La laserterapia si basa sull'utilizzo del fascio di luce invisibile prodotto da un apparecchio laser, il quale determina sui tessuti un effetto antinfiammatorio, oltre che antalgico e di rigenerazione tessutale. L'idrocinesiterapia, combina le tecniche di movimento con un mezzo fisico, vale a dire l'acqua. In sostanza, in una vasca di adeguate dimensioni e con una temperatura dell'acqua vicina a quella del corpo umano, si possono eseguire diversi movimenti sfruttando gli effetti benefici determinati dalla spinta idrostatica sulla diminuzione del peso corporeo, dall'effetto antalgico e decontratturante del calore e dalla resistenza passiva che l'acqua offre ai movimenti. La cinesiterapia in acqua permette infine l'esecuzione di movimenti controllati e in condizioni di minimo carico, riducendo il dolore e il tempo di recupero, nonché il trauma riabilitativo, talora fonte a sua volta di possibile aggravamento della lesione di partenza.
Le malattie cardiovascolari sono la causa più frequente di mortalità e morbilità nel mondo industrializzato, essendo responsabili ogni anno di circa il 50% delle morti. Tradizionalmente la riabilitazione cardiaca veniva concepita per un determinato gruppo di pazienti cosiddetti a basso rischio e in grado di compiere un'attività fisica, sia pure minima, senza particolari problemi. Tuttavia, negli ultimi due decenni, la rapida evoluzione nel trattamento delle cardiopatie ischemiche ha completamente modificato l'andamento demografico della riabilitazione cardiaca, la quale si è dimostrata capace di migliorare la tolleranza all'esercizio fisico e lo stato psicologico di benessere senza aumentare i rischi di complicanze significative. Al momento, negli Stati Uniti, quasi il 40% dei pazienti che manifestano un evento coronarico acuto partecipa sistematicamente a un programma di riabilitazione.
Scopo della medicina riabilitativa cardiaca è dunque quello di far fronte alle limitazioni funzionali che si sono sviluppate a seguito delle conseguenze fisiopatologiche e psicologiche scatenate dalla malattia cardiaca. Il primo passo consiste nell'identificazione dei pazienti a minor rischio di recidiva e nell'immissione di questi in un programma riabilitativo quanto più possibile precoce. Gli obiettivi principali sono: ridurre il più possibile gli effetti fisiopatologici e psicologici della cardiopatia; limitare il rischio di reinfarto o morte improvvisa; alleviare i sintomi cardiaci; ritardare o invertire i processi arteriosclerotici istituendo specifici programmi per l'esercizio fisico e per il controllo dei fattori di rischio. Il fine ultimo della riabilitazione consiste in ogni caso nel reinserimento dei pazienti nelle loro famiglie e nella resto della società.
L'esercizio fisico, in particolare, costituisce un potenziale catalizzatore della promozione di altri aspetti della riabilitazione, quali la riduzione di molti fattori di rischio mediante il complessivo miglioramento dello stile di vita e l'ottimizzazione del supporto psico-sociale. Esercizio fisico e stile di vita ottimale costituiscono in effetti gli aspetti determinanti della riabilitazione cardiaca. È tuttavia difficile poter assegnare alla riabilitazione un significativo contributo alla recente riduzione della mortalità e morbilità cardiaca, in realtà ascrivibile ai soli progressi del trattamento acuto e alla precocità con la quale questo viene oggi messo in atto.
Ciò nonostante, la valutazione dell'efficacia della riabilitazione cardiaca in un paziente adulto oggi deve tener conto non solo del miglioramento della qualità della vita, cioè la percezione propria del paziente di un migliore stato fisico, ma anche degli aspetti psicosociali e delle relazioni interpersonali. Per esempio, deve essere soprattutto preso in considerazione il potenziale progresso nel lavoro, quello basato sulle abilità della persona, e non il semplice ritorno al lavoro. Similmente, quando si tratti di pazienti anziani, la valutazione del risultato della riabilitazione include il raggiungimento di un'indipendenza funzionale, la prevenzione di una disabilità prematura e la riduzione del bisogno di essere accuditi. L'età si è in realtà rivelata meno critica di quanto si potesse supporre. Nonostante i dati in merito non risultino conclusivi, i pochi studi osservazionali disponibili hanno infatti mostrato che i pazienti anziani di ambo i sessi hanno migliorato la loro tolleranza all'esercizio fisico in maniera del tutto comparabile a quella dei soggetti più giovani.
La riabilitazione polmonare è parte integrante della gestione clinica complessiva dei pazienti affetti da malattia respiratoria cronica, i quali permangono sintomatici o continuano a manifestare una riduzione funzionale nonostante la conclusione del trattamento medico standard. Molto della disabilità e handicap deriva tuttavia non dalla malattia respiratoria in quanto tale, ma dalla morbilità secondaria. Le conseguenze principali delle malattie respiratorie sono soprattutto la disfunzione muscolare, le anomalie nutrizionali, le anomalie della funzionalità cardiaca, la depressione, l'ansia, i disturbi del sonno, le frequenti ospedalizzazioni, gli squilibri psicosociali.
La riabilitazione polmonare è indicata per i pazienti che, nonostante l'iniziale trattamento proprio della fase acuta si sia rivelato ottimale, rimangono dispnoici, hanno una ridotta tolleranza all'esercizio fisico o mostrano una restrizione delle attività quotidiane. L'indicazione non è basata sulla gravità del deficit polmonare, piuttosto sul persistere dei sintomi, sulla disabilità e sull'handicap. Nonostante la broncopneumopatia cronica ostruttiva rimanga la principale condizione che richiede la riabilitazione polmonare, altre malattie sono in causa, tra queste l'asma, le malformazioni della gabbia toracica, la fibrosi cistica, le bronchiectasie, le malattie interstiziali polmonari, le neoplasie polmonari, alcune malattie neuromuscolari, le sindromi postpoliomielite, oltre a tutta una serie di diverse condizioni postchirurgiche. Nonostante il livello di ostruzione delle vie aeree o di iperinflazione causato dalle broncopneumopatie croniche ostruttive non si modifichi sensibilmente dopo riabilitazione polmonare, il cronico adattamento muscolare al deficit di ossigenazione, unitamente all'apprendimento di una adatta andatura, finiscono per permettere una maggiore autonomia di marcia e un miglioramento della dispnea. Tra le controindicazioni alla riabilitazione polmonare vanno considerati i gravi deficit cognitivo-comportamentali, una grave ipertensione polmonare, l'angina instabile o un recente infarto del miocardio.
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