BOIARDO, Matteo Maria
Nacque, nel 1440 o nel 1441, da Giovanni Boiardo e da Lucia Strozzi, a Scandiano in quel di Reggio, feudo comitale della sua famiglia. Con la madre si recò ancora bambino a Ferrara, dove crebbe agli studi e si addestrò alle lettere classiche, com'è probabile, dietro l'esempio dello zio Tito Vespasiano Strozzi, poeta e umanista dei più celebrati. Perduto il padre e il nonno Feltrino, noto e carissimo a molti scrittori d'allora, dovette ingolfarsi in litigi e controversie senza fine coi proprî parenti per la spartizione dei beni ereditarî, finché le divisioni si compirono nel 1474, per espresso ordine del duca Ercole I. Tenuto in grande onore alla corte estense, egli fu tra coloro che mossero a incontrare l'imperatore Federico III, ospite di Borso, nel 1469; e due anni dopo seguì a Roma lo stesso Borso, andatovi per ricevere titolo e investitura di duca da papa Paolo II.
Nel 1473 fece parte della solenne ambasceria inviata a Napoli a ricevere Eleonora d'Aragona, sposa ad Ercole I, succeduto al fratello Borso; e a Ercole, "suo signor gentile", fu stretto da calda amicizia, non solo da devozione di suddito. Presso di lui tenne alti uffici di corte, e in qualità di capitano ducale fu a Modena, dapprima, e, dal 1487 al 1494, al governo di Reggio. Fin dal 1479 aveva sposato Taddea dei conti Gonzaga di Novellara, che alla morte del marito, avvenuta a Reggio nel 1494, diede prova di abilità e fermezza nel difendere i diritti ereditari del figlio giovanetto e delle quattro figliuole.
Proverbiale la cortesia della sua gente: "Iddio vi mandi a casa i Boiardi", si diceva; e cavaliere nobile e cortese nel sentire e nei modi fu il conte Matteo Maria, e spirito di singolare dirittura, finanche nimia benignitate reprehendendus. Correva voce che all'ombra della rocca di Scandiano riparassero i banditi ed esercitassero al sicuro la loro industria alcuni falsi monetarî; e può darsi che il Boiardo fosse più adatto a far versi che a punire delitti. Egli aveva l'animo a tutt'altro che agli affari amministrativi e ai pubblici negozî: eppure da questi gli veniva la triste necessità di subire il contraccolpo delle vicende politiche del suo tempo. Nel 1482 è costretto a interrompere il suo poema al sessantesimo canto, causa la guerra tra Ercole I e i Veneziani: nel 1494, alla calata dei Francesi di Carlo VIII che gl'invadon le terre, e perché alleati al duca d'Este voglion0 esser provveduti di alloggiamenti e vettovaglie a carico dei suoi amministrati, depone ancora la penna e questa volta per non riprenderla più.
Non gli mancava però il tempo, fra l'una e l'altra faccenda, di rallietarsi in gite e dimore frequenti alla sua Scandiano e a Casalgrande; soprattutto nei riposi ameni della campagna, riprendeva lena all'opera e portava innanzi il suo Orlando innamorato cui lo sollecitava in particolare l'interesse benevolo del duca Ercole e della marchesa Isabella d'Este. Ad essa si riprometteva di farne dedica, a lavoro compiuto.
La vita di corte gli offriva, inoltre, non di rado occasione di mettere a frutto la sua abilità di scrittore e il suo gusto d'uomo di lettere. Già al ritorno di Ercole d'Este dalle guerre napoletane, tra il 1463 e il 1465, aveva atteso a comporre dieci egloghe latine (Reggio 1500, ultima ed. in Le Poesie volgari e latine di M.M.B., a cura di A. Solerti, Bologna 1894). Come le virgiliane, queste composizioni, che vorrebbero arieggiare i modi semplici dei pastori e della vita pastorale, sono complicate di allusioni allegoriche e mitologiche e sentono la lucerna: la materia vi si appesantisce di continuo nei luoghi comuni della più vieta retorica. C'è però qua e là una certa freschezza d'immagini, una leggiadria e grazia petrarchesca, sensibilissima persino di sotto le apparenze di maniera; una vena nascosta di poesia, prossima a sgorgare alla luce. Ma il Boiardo, è evidente, mira più che altro a dar saggio di bravura; preferisce riscuotere fama tra i dotti e stima dal principe, anziché cimentarsi in tentativi di poetica originalità. Così, in lode del suo signore, sono molt'altri carmi latini, di vario metro, nella citata edizione di A. Solerti. E una larga conoscenza del mondo classico, tale da non sfigurare accanto agli umanisti, maestri del suo tempo, egli dimostrava altresì con traduzioni frequenti, col volgarizzamento delle Storie di Erodoto (Venezia 1533), della Ciropedia di Senofonte (inedita), dell'Asino di Luciano (Venezia 1533); dell'Asino d'oro di Apuleio (Venezia 1508 e 1534); delle Vite di Cornelio Nepote (Bologna 1835 a cura di D. Guerrini e C. Ricci), sebbene la cultura umanistica non gli si esaurisse in sé stessa e solo gli servisse di disciplina intellettuale: non altrimenti che le meditazioni sui romanzi cavallereschi e gli spettacoli della bella natura.
Le occupazioni mondane e galanti attraggono il suo spirito. Per una festa di corte sceneggiò e ridusse a dramma, in terzine, il Timone di Luciano, aggiuntovi un quinto atto, natrativo e moraleggiante più che drammatico, a conclusione dell'opera. Similmente a sollazzo di cavalieri e di dame, illustrò in terzine il gioco dei tarocchi, miniando anche lui in poetici capitoli le figure simboliche di Amore, Speranza, Gelosia e Timore (il Timone e i Tarocchi nella citata edizione del Solerti).
Dedito da lungo tempo all'amorosa disciplina e sperimentatissimo nelle cose d'amore, egli ne parlò ben più altamente nelle egloghe composte tra il 1478 e il 1483. A parte le fredde allegorie che occupano una buona metà del libro, cioè le cinque egloghe contenenti chiare allusioni alla guerra veneto-ferrarese, le altre cinque sono tutte d'ispirazione amorosa e chiudono nella cornice e sotto la specie rustica dell'idillio vaghissime storie d'amore. Due, la quinta e la sesta, si riferiscono al vagheggiamento della Gonzaga e al matrimonio con lei; le altre ad altri amori e probabilmente a quello per Antonia Caprara, la bellissima giovane che il poeta aveva conosciuto a Reggio nella corte del governatore Sigismondo d'Este, e ardentemente amata tra il 1469 e il 1471.
Alla Caprara è dedicato il Canzoniere; che, messo insieme tra il 1472 e il 1476, è il più bello e importante fra quanti n'ebbe il Quattrocento, e tra le opere del Boiardo, la più vicina per schiettezza e magistero d'arte all'Innamorato (prima ed. del Canzoniere, Reggio 1499; cfr. quella a cura di C. Steiner, Torino 1927).
Questo canzoniere reca il titolo di Amorum libri tres, ed è costruito secondo un disegno unitario che gli conferisce il carattere d'un vero e proprio poema lirico: ha cinquanta sonetti e dieci componimenti di metro diverso alternati ad essi, per ciascun libro; tutti ordinati secondo una accorta disposizione della materia, che corrisponde di volta in volta a un particolare atteggiamento dell'animo e ad un particolare momento della vicenda amorosa. Se anche, come qualcuno ha creduto, non tutte le rime qui riunite sono state suggerite dall'affetto per la Caprara, e insieme con quello vi hanno parte altri affetti, ciò in ogni modo non rompe l'unità psicologica ed estetica della raccolta. Il primo libro ha un'andatura festosa, come di chi si desti la prima volta alla gioia di vivere, nel primo nascere di un sentimento profondo; percorso, invece, da tristezza e sconforto il secondo, pieno di rimproveri e di sarcasmi fierissimi all'amica infedele, che ha donato a un altro il suo amore e tuttavia lo lusinga; di contrastante ispirazione l'ultimo, in cui speranze e timori si affernano, finché lasciano posto, da ultimo, all'abbattimento della delusione e alla rassegnazione della rinuncia. Pare che durante il viaggio del poeta a Roma, nel 1471, Antonia Caprara andasse sposa a un altro; e non è improbabile che di qui, da una propria esperienza sofferta, gli venisse la triste opinione sulle donne di cui vediamo nel poema tanta copia di esempî. Ad ogni modo, quello che c'importa notare, è che la poesia del Boiardo raggiunge in questa operetta la pienezza del canto, e che egli ci si manifesta la prima volta vero e squisito poeta, in qualità di poeta d'amore.
Tema dominante della sua poesia sarà difatti l'amore, cui avrà mente anche quando si farà a comporre l'Orlando Innamorato del quale i primi due libri (sessanta canti) erano già compiuti nel 1482, e furono messi a stampa nel 1484 in un'edizione ormai irreperibile, mentre il terzo, rimasto interrotto alla 26ª stanza del nono canto, fu stampato, insieme coi due primi, nel 1495 a Scandiano, in un'edizione della quale finora non s'è trovato esemplare (le più antiche edizioni di cui si conoscano copie, sono la veneziana del 1486-87 per i primi due libri, e quella pur veneziana del 1506 per tutto il poema, ed. critica condotta sul codice trivulziano e sulle antiche stampe, per cura di F. Foffano, Bologna 1906-07 in 3 voll.; altra ed. annotata, per cura dello stesso, Torino 1926, in 3 voll.).
Duelli e cavalcate, torneamenti e strane avventure non sono per il B. un semplice svago dell'immaginazione; sono le sue nostalgie di poeta e cavaliere; gli stanno in cima d'ogni pensiero e lo colmano di desiderî e sogni d'altri tempi, perché costituiscono il suo ideale di vita. Crede alla realtà dei sentimenti cavallereschi, alle grandi imprese, agli ardimenti mirabili, ai quali l'animo non vede limite né ostacoli; e solo non crede alla realtà del mondo cavalleresco, che volge in ridicolo ogni volta che accenna a farsene storico. L'intonazione seria del suo poema procede dal fatto che egli mette l'accento non già sugli aspetti esterni del mondo cavalleresco, ma nell'intimità che lo muove, nel valore morale e attuale che quel mondo ancora serba per lui, specchio fedele della sua più profonda realtà fantastica non per altro che per questo solo, che ha esistenza nella pura sera del sentimento.
È poi naturale che un poeta d'amore quale essenzialmente è il Boiardo, trattasse la materia epica a modo di romanzo. Solo il volgo poteva prendere sul serio i vecchi cantari, passati nei secoli precedenti dalla Francia nella valle del Po e nella Marca gioiosa e più tardi in Toscana, a portargli l'eco di un passato al quale esso credeva come a una storia attendibile e vera. Per il Boiardo, per i letterati e le dame della società in cui egli viveva, i campioni della fede non sono altro che degli eroi interessanti, e le loro gesta in difesa della civiltà cristiana contro l'invasione araba non hanno altro valore che di avventure. Non la pietà, né la dedizione a ideali patrî e religiosi commuovono il poeta e i suoi lettori, bensì il maraviglioso, lo straordinario dei sentimenti e delle opere. Non è perciò il caso di attribuire a un disegno preordinato di fusione e contaminazione del ciclo carolingio col bretone quello che è dovuto a uno spontaneo atteggiamento, d'ordine estetico piuttosto che d'ordine morale.
Orlando in figura d'innamorato dà modo al Boiardo di creare un personaggio poetico senza riscontro nell'epica francese; gli fornisce una materia nota universalmente quale deve essere la materia epica, la cui unità è anzitutto nella mente degli ascoltatori (guerre di cristiani e saraceni, Carlo Magno e la sua corte, e poi, per sfondo, Parigi, le Ardenne, le selve di Bretagna, e i più lontani orizzonti di Tartaria, l'India sericana, il Cataio e Albracà, attorno a cui si sposta l'azione: nomi, caratteri e figure tutte illustri da quanto le più illustri della storia) e gli consente d'attirare l'attenzione e d'interessare tanto maggiormente, quanto più è conoseiuta dall'universale l'eccezionalità e forza delle sue passioni. Nella parentela ideale dei personaggi del poema esistenti in un mondo immaginario che nondimeno ha una propria storia, vuol essere ricercata l'unità del poema. Il quale manca di un centro d'azione e trova la propria unità nell'omogeneità del tono narrativo con cui è condotto, con cui si volge ai veri o supposti "cari signori" e alla "bella baronia", intrattenuta piacevolmente da codeste ambages pulcherrimae non altrimenti che il pubblico galante del boccacesco Decameron.
Una serie di splendidi racconti: questo è l'Orlando Innamorato. Ai quali raccconti sono pretesto l'amore di Orlando per la pagana e bellissima Angelica, figlia di Galafrone re del Cataio, l'amore di questa per Rinaldo, cugino di Orlando, e infine l'amore del pagano Ruggero per Bradamante, sorella di Rinaldo. Il Boiardo attende principalmente a dar prova del suo gusto di narratore: tien desta la curiosità di chi legge o ascolta, con sempre nuove invenzioni, sia che racconti o faccia raccontare dai suoi stessi personaggi i casi più suggestivi e imprevisti, sia che interrompa sul meglio i proprî racconti; i quali, da una certa asprezza della lingua, ricca di locuzioni e suoni e forme dialettali, e non priva di barbarismi, derivano l'incanto delle cose immature, quel sapore di ingenuità che gustiamo nei monumenti più arcaici della nostra letteratura.
Non dunque rappresentazione di caratteri, studio di psicologia, in questo poema; ambizione del poeta è di emulare gli antichi nell'arte del raccontare. I motivi popolari non vengono mai ripresi fedelmente, ma con fine maestria e con squisitezza di tono modificati, alterati, sostituiti con altri. Smessa l'abitudine dell'invocazione religiosa al principio dei canti, il B. li apre invece con un breve richiamo ai fatti precedentemente cantati, e nella seconda parte e nella terza spesso riprende il suo dire introducendo di suo motivi descrittivi e moraleggianti, scene idilliche e spettacoli sereni, considerazioni sull'incerta fortuna e sulle umane passioni. Talora introduce addirittura sé stesso frammezzo ai suoi personaggi e parla in prima persona, sia che ricordi la donna amata, sia che, nel corpo del racconto, si scagioni di affermazioni troppo ardite e incredibili col riversarne la responsabilità sul famoso Turpino. Il suo intento di nobilitare classicamente la materia popolare è palese soprattutto nei motivi fondamentali dell'intero poema: Orlando, in certi suoi impeti di sdegno e di passione, ci richiama alla mente l'Achille omerico; Ruggero, terzo paladino dopo Orlando e Rinaldo, darà origine alla casa d'Este e permetterà al Boiardo di atteggiarsi a poeta aulico come il cantore d'Enea. L'umanista, il conoscitore e traduttore dei classici aveva di mira ben altra fusione che non sia quella che per solito gli si attribuisce; mirava a fondere la poesia moderna e l'antica. Ma è su questo punto che il Boiardo fallisce. Ricco d'immaginazione e degno per questa parte di stare accanto ai maggiori poeti, da Dante all'Ariosto, gli fa difetto quel che il De Sanctis chiamerebbe fantasia costruttrice, la facoltà, somma per un artista, di dominare il proprio mondo e comporlo in armonia. A cominciare dal protagonista, non una delle figure da lui concepite s'imprime e dura nella memoria, benché nuove e originali e originalmente atteggiate. Orlando, timido e inesperto con le donne come può esserlo un eroe, va in caccia di mostri da cui vuol liberare il mondo; e la sua forza è vinta dall'astuzia di Angelica, che la piega ai suoi fini. Essa è l'anima del poema: tra le creazioni boiardesche la meglio riuscita. Né fa meraviglia che, contrariamente alle intenzioni, un romanzo d'amore che aveva a protagonista Orlando, finisca con l'avere a protagonista una donna. Le figure femminili, in genere, sono le più sentite e più vive. Fiordelisa, Tisbina, Origille, paiono, per così dire, delle varianti di Angelica, di cui dovrebbero valere ad accentuare meglio il carattere. La loro fragilità è quasi sempre in ragione diretta della potenza delle passioni che suscitano. Il sentimento d'amore è il solo in cui ancora si creda, e tra gli uomini le leggi d'onore e cortesia sono le sole a cui s'obbedisca. Agricane, imperatore di Tartaria, non cede a Orlando in prodezza e bei colpi; e sentiamo di poter accettare, alla fine, anche la sua conversione, ché il suo battesimo in punto di morte, privo di qualunque motivo psicologico, riesce esteticamente persuasivo. Cade ogni differenza religiosa tra cristiani e pagani, e cadono le ragioni stesse per cui scendono in campo, gli uni contro gli altri armati, re cristiani e moreschi. La differenza è un'altra, tra leali e sleali cavalieri, tra uomini d'onore e d'infamia. Il male è che nel quadro preciso di una lotta religiosa una simile antitesi puramente sentimentale male si regge con tono di epica serietà, e però ne nasce fatalmente quell'irregolarità e incoerenza di tono che è difetto capitale dell'opera. Le minuzie, gl'indugi realistici, le ripetizioni frequenti e prolisse che dànno all'insieme un che di macchinoso e tuttavia di uniforme, provano la mancanza di un disegno unitario, di un fondo comune su cui le parti e gli episodi si disegnino con un proprio rilievo, e, tra loro, con un certo equilibrio. Le avventure di ciascuno di questi eroi sono troppo spesso le avventure di tutti; fatta beninteso eccezione per quei pochi i quali hanno una fisionomia già fissata dalla tradizione. Errore fondamentale, da rilevare non per la mancanza del caratteristico psicologico che ne deriva, ma per il difetto di unità estetica che produce. Restano i nomi di questi eroi: Sacripante, Rodamonte, Ferraguto, Malagise e altri: essi avranno vita solo più tardi, per la virtù e la magia stilistica dell'Ariosto.
Bibl.: Studi su M. M. Boiardo, Bologna 1894, vol. collettivo pubblicato in occasione del quarto centenario della morte; E. Santini, M. M. B., Livorno 1914; A. Panzini, M. M. B., Messina 1917; G. Bertoni, Nuovi studi su M. M. B., Bologna 1904; G. Reichenbach, M. M. B., Bologna 1929; G. Razzoli, per le fonti dell'Orlando innamorato, I, Milano 1901; P. Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso, 2ª ed., Firenze 1900, pp. 23-31; F. De Sanctis, L'Orlando innamorato, in Scritti varii inediti o rari, a cura di B. Croce, I, Napoli 1898, pagine 285-316; F. Foffano, Il poema cavalleresco, Milano 1905, pp. 5-47; O. Innamorato continuato da Niccolò degli Agostini (Venezia 1506) e rifatto da F. Berni (Venezia 1541) e da Lodovico Domenichini (1545); v. M. Belsani, I rifacimenti dell'Innamorato, in Studi di letteratura italiana, IV (1902), pp. 311-403 e V (1903), pp. 1-56; G. Mazzoni, L'Orlando innamorato rifatto da F. Berni, in Fra libri e carte, Roma 1887, pp. 1-35, e P. Micheli, in Saggi critici, Città di Castello 1906, pp. 145-68.