GENTILE, Matteo
Nobile abruzzese, conte di Lesina, dovette nascere intorno agli anni Settanta del sec. XII.
Il padre del G., Berardo, "regie private masnade comestabulus" sotto Guglielmo II, nonché capitano e grande giustiziere di Puglia e Terra di Lavoro sotto Tancredi, aveva ricoperto alti incarichi nella monarchia normanna. Tancredi, in riconoscimento del suo ruolo nell'elezione al trono nel 1190, lo ricompensò con la contea di Lesina. Non si conosce il nome della madre del Gentile. In considerazione del rango paterno, il G., insieme con i fratelli Tommaso e Riccardo, dovette ricevere un'educazione cavalleresca.
Dopo la morte di Berardo (1196 circa), il G., insieme con il fratello maggiore Tommaso, gli subentrò prima del 1200 nella contea di Lesina, i cui feudi si trovavano sulla costa settentrionale del Gargano. Nel settembre 1200 i due conti concessero all'ospedale di S. Andrea al Candelaro diritti di passaggio e di pascolo, e protessero le proprietà presenti e future della fondazione. Tommaso, menzionato come conte una sola altra volta nel settembre 1201, era già morto nel dicembre 1203, cosicché il G. da quel momento fu l'unico conte di Lesina.
Sfruttando la debolezza politica e militare della monarchia in terraferma, il G. riuscì a fare della contea di Lesina il centro di un esteso dominio territoriale nel quale egli univa contee, città, castelli, feudi e alte cariche statali. I suoi possedimenti si estendevano oltre la Capitanata e il Gargano; aveva feudi e vassalli anche in Terra d'Otranto e nel suo seguito si trovavano perciò spesso chierici e baroni della Puglia meridionale.
La contea di Civitate, contesa a lungo tra il conte Ruggero di Chieti e il conte Pietro di Celano, finì nelle mani del G. ancora prima del 1208, quando entrambi costoro erano in vita. Il G. conservò fino alla morte il suo potere sui possedimenti di entrambi e si fregiò ripetutamente del doppio titolo di "Alesine et Civitatis comes". Prima del 1209 acquisì la signoria di Fiorentino, più tardi anche quella detenuta da Petra di Montecorvino (1218), dove i documenti si datavano secondo gli anni del suo dominio.
Nobili del suo seguito, probabilmente suoi vassalli, esercitavano la signoria sulle città di Dragonara e Montecorvino. Le località di Ischitella, Varano e Quarterio, nei pressi di Lesina, erano state concesse fino al marzo 1212 a membri della famiglia Gentile di Terra d'Otranto, che forse era a lui legata da una lontana parentela. Costoro però seguirono altre vie: contribuirono a ripristinare la supremazia di Federico II in Puglia e il re svevo li ricompensò trasformando le loro baronie dipendenti in feudi della Corona.
Il G. riuscì a imporsi con autorità nei suoi domini e ad arrogarsi persino decisioni che riguardavano il Demanio reale. Retrospettivamente, sessant'anni dopo, egli apparve ai suoi contemporanei come il signore della Capitanata, anche se non era stato dimenticato che si trattava di un potere usurpato all'epoca della minore età del sovrano. Dopo la morte di Gualtieri di Brienne, il G., dal luglio 1205 al dicembre 1209 circa (la tradizione documentaria presenta lacune), fu "capitaneus et magister iustitiarius Apulie et Terre Laboris". Egli dovette però condividere questo alto ufficio, il più alto nelle province settentrionali del Regno, con Pietro di Celano (1204-06), Berardo da Loreto (1205-07) e Giacomo da Tricarico (1205, 1208-10): quindi la sua autorità non si estese oltre i confini della Puglia, nella quale però fu realmente efficace.
Il G. diede stabilità alla sua creazione politica, non solo servendosi dei tradizionali uffici di una corte comitale, come comestabuli, siniscalchi e camerarii, ma anche introducendo, come a Civitate e in Terra d'Otranto (1215 o 1218), propri giustizieri, i quali si arrogavano una giurisdizione nobiliare a spese della Corona. Quando papa Innocenzo III, nel giugno 1208, promosse una nuova tregua affidandone l'applicazione ai conti Pietro di Celano e Riccardo di Fondi con il titolo di capitani, sembra che il nuovo assetto non abbia toccato direttamente il Gentile. Fino al dicembre 1209 egli figura in Puglia sempre più spesso con il suo titolo ufficiale. Nell'agosto di quell'anno, come gran giustiziere, ricevette dal re l'incarico di consegnare al monastero di S. Maria del Gualdo il legato di un nobile, cosa che fece in virtù del suo ufficio in dicembre. La rinuncia a usare il suo titolo nel 1210 potrebbe essere una conseguenza dell'invasione di Ottone IV, dato che una serie di località del suo dominio rese omaggio al sovrano invasore, e la successiva revoca di feudi nel centro della contea di Lesina (1212) da parte di Federico II potrebbe lasciar pensare che il G. avesse preso per un certo tempo le parti di Ottone IV.
Dopo un'interruzione piuttosto lunga, dall'aprile 1218 al febbraio 1220 il G. prese di nuovo l'ufficio di "capitaneus et magister iustitiarius Apulie et Terre Laboris", Federico II, dalla Germania, conferì però lo stesso incarico a Bernardo Gentile, conte di Nardò, dopo che l'arrivo della regina Costanza d'Aragona in Germania aveva reso necessaria una riorganizzazione amministrativa. Nelle province occidentali della terraferma questo ufficio fu esercitato dal conte d'Avellino Giacomo Sanseverino. I due ufficiali sono documentati in carica già dal 1217.
Politicamente, da quanto si può dedurre dalle fonti, il G. seguì dapprima la linea di Innocenzo III, alla quale si sentivano legati anche i concorrenti del G. per la contea di Civitate, Ruggero di Chieti e Pietro di Celano, ma nella corrispondenza di questo pontefice il suo nome non compare mai, mentre è presente in quella di Onorio III.
Negli ultimi anni dell'assenza di Federico II dal Regno, il G. intraprese nuove iniziative, che più che nel passato si orientarono verso la Terra d'Otranto, dove egli aveva possedimenti presso Nardò e Oria. Il suo giustiziere in questa regione, Calò de Castro, a Oria nell'aprile 1218, in presenza del G., donò il terreno per la costruzione di una chiesa dipendente dal monastero cistercense di S. Maria di Galeso, presso Taranto, ampliando una precedente donazione dello stesso Gentile. Con l'arcivescovo Gualtieri e il capitolo di Taranto il G. trovò, nel 1218, poco prima della morte del presule, un accordo per il casale di Salete, dove il precedente arcivescovo, Angelo, aveva insediato una nuova colonia. Papa Onorio III nel dicembre 1218 elogiò l'accordo: "sine pravitate in utilitatem ecclesie dinoscitur esse factam".
Al contrario, fallì nello stesso periodo un'azione del G. contro l'abate Paolo di Nardò, parente del gran giustiziere ivi residente, Bernardo Gentile. In realtà il G. riuscì, con violente proteste contro l'abate e i monaci, a ottenere una visitazione di giudici delegati, ma, poiché cambiò ripetutamente il contenuto delle sue proteste, Onorio III alla fine accolse la posizione dell'abate, secondo il quale il G. lo aveva attaccato "non zelo iustitie sed typo malitie potius". Gli ultimi delegati nominati respinsero le lamentele del G. e il papa riabilitò Paolo, ma limitò le sue richieste ad alcune riforme, che gli sembravano necessarie a causa della posizione particolare della comunità monastica composta da monaci e da canonici.
Il G. fu tuttavia un sostenitore del monachesimo. I laghi di Varano e di Lesina, che si trovavano nei suoi feudi ed erano ricchi di pesce, permisero a lui, così come ai suoi predecessori, di assicurare a molti conventi quote regolari di pesce e in certi luoghi anche diritti di pesca. L'elenco degli insediamenti monastici beneficiati in questo modo dal G. è incredibilmente lungo: S. Maria di Ripalta, S. Pietro di Torremaggiore, S. Giovanni in Plano, S. Maria di Galeso, Montevergine, Cava, S. Maria di Gualdo Mazzocca, S. Matteo di Sculgola, S. Bartolomeo in Saccione, S. Leonardo di Siponto. Fra i destinatari figurano anche l'ospedale di S. Andrea al Candelaro, i giovanniti di Barletta, ai quali il G., insieme con suo fratello, per metà donò e per metà vendette il casale di Sant'Eleuterio, l'Ordine dei cavalieri teutonici in Puglia, al quale egli trasferì beni in Terra d'Otranto e in Capitanata.
Le donazioni agli ordini cavallereschi fanno pensare che il G. fosse legato all'ideale cavalleresco della crociata. Di nuovo al vertice della sua potenza in Puglia, nell'estate 1220, con otto navi e numerosi cavalieri reclutati per l'impresa, salpò per Damietta, per portare aiuto, di sua iniziativa e con i propri mezzi, alle armate impegnate nella quinta crociata. Non è del tutto escluso che il G. in questo modo potesse evitare per il momento un conflitto con Federico II, le cui intenzioni di tornare nel Regno erano da tempo evidenti. Sebbene il contingente del G., giunto a Damietta il 1° luglio 1220, già a causa delle sue modeste dimensioni non riuscisse a tenere testa all'esercito egiziano, i primi successi, come la cattura di navi nemiche e l'arrivo del G. in persona, trasmisero nuovo coraggio ai crociati. Tuttavia, egli non poté persuadere con i suoi consigli né gli altri crociati né il legato papale Pelagio da Albano e non riuscì a evitare il fallimento della crociata: la spedizione contro il Cairo si risolse infatti in una catastrofe.
Dopo la crociata, il G. tornò probabilmente nelle sue terre, sebbene dopo le Assise di Capua egli dovette aspettarsi di perdere almeno una parte dei suoi feudi e dei suoi diritti. Emise tuttavia documenti come conte di Lesina e Civitate ancora negli anni 1222-23, esercitando pertanto, secondo ogni apparenza, anche lì diritti signorili, tanto più che era assistito da Matteo di S. Croce, che già prima aveva svolto per lui l'ufficio di "comestabulus Civitatis". Secondo una notizia di Burchard da Ursperg, il G., così come Tommaso di Celano, dopo il ritorno di Federico II nel Regno sarebbe stato scacciato manu militari dall'imperatore dai "castra et terre sue ditionis" in Puglia e avrebbe dovuto cercare protezione in Curia.
La notizia è sicura per quanto riguarda Tommaso di Celano, ma è dubbio se sia effettivamente valida anche per il G., visto che Burchard non era stato testimone diretto degli avvenimenti, e il G. non è nominato dai cronisti nel contesto delle campagne di Federico contro l'alta nobiltà. Inoltre Burchard per l'anno 1228 cita i conti Tommaso e Matteo in un analogo parallelo, come comandanti dell'esercito d'invasione pontificio, accanto a Giovanni di Brienne, il che è palesemente errato.
È sicuro però che Federico II, nell'ambito della sua iniziativa contro la nobiltà, smembrò il dominio costruito dal G. in Capitanata, e che, al più tardi nel 1223, questi perse le sue contee. A seguito di ciò si mise sotto la protezione del papa. Ono-rio III, nella sua lettera accusatoria all'imperatore del maggio 1226, gli rimproverò di non aver evitato la "subtractio bonorum suorum" contro il G., in considerazione del suo "Terre Sancte servitium, crucis et crucifixi reverentiam". Per Federico II il G. era però un esponente degli interessi della nobiltà nel Regno, i cui pericoli per la Corona intendeva eliminare mediante il ridimensionamento dei domini signorili creatisi dopo la morte di Guglielmo II.
In un privilegio di Federico II per il monastero di Montevergine, del febbraio 1224, il G. è menzionato come già morto a proposito della conferma delle donazioni da lui fatte al monastero. Dalla moglie Adelasia, il cui nome appare una sola volta nelle fonti, non ebbe discendenti.
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