RAVERTI, Matteo di Ambrogio
RAVERTI, Matteo di Ambrogio. – Scultore e architetto milanese, è documentato tra Milano e Venezia dal 1398 al 1436. Nelle carte d’archivio il suo nome compare in numerose varianti: Matheus, Mafeus, Maseus, De Ravertis, Revertis, Revettis.
Benché dai documenti traspaia la sua posizione eminente prima in Lombardia e poi, soprattutto, a Venezia, di fatto poco o niente rimane che gli si possa riferire con assoluta certezza. Esordì al cantiere del duomo di Milano nel settembre del 1398 (Annali, Appendici, I, 1883, p. 243), subito dopo che la fabbrica aveva perso uno dei suoi più preziosi collaboratori, Giovannino de Grassi, che assieme a Giacomo da Campione aveva tenuto fin lì le redini dei lavori. Raverti avanzò la sua candidatura al ruolo rimasto vacante di «inzignerius», ovvero di progettista, potendo contare su una lusinghiera lettera di presentazione, che garantiva la sua esperienza e lodava le sue doti di abile disegnatore di edifici e di figure (Ciceri, 1969; Cavazzini, 1998). Quella lettera è nota grazie a una trascrizione ottocentesca che tralascia, purtroppo, la firma del mallevadore. Nonostante il suo patrono lo definisca «expertus» ed «eruditus» nell’arte del disegno, Raverti non ottenne dai fabbricieri la fiducia sperata, venendo assunto sì, ma nel ruolo meno autorevole di semplice scultore. E, come primo incarico, dovette accontentarsi di condividere con alcuni colleghi la commissione di una Maddalena, percependo un salario a giornata (Annali, Appendici, I, 1883, p. 243). La figura, oggi perduta, nasceva in ossequio alle volontà testamentarie di un benefattore della cattedrale, Giovannolo di Trezzo, ed era destinata alla chiesa servita di S. Maria in Sacco. Il 5 dicembre 1403 Raverti fu pagato per un Angelo scolpito per il finestrone centrale dell’abside; l’opera certamente esiste ancora, ma in assenza di indicazioni più precise è impossibile identificarla tra le molte figure di analogo soggetto presenti in quella finestra. Il 18 aprile 1404 si aggiudicò in una gara all’incanto la commissione di un S. Babila e di un ‘gigante’ in armatura (Annali, Appendici, I, 1883, p. 268; erano definite ‘giganti’ le figure colossali destinate a reggere gli scoli delle acque pluviali all’esterno del duomo).
Per il ‘gigante’ è stata proposta l’identificazione con una figura di guerriero su uno dei contrafforti dell’abside (il n. 51 secondo la numerazione Nebbia: Nebbia, 1908, p. 62; Tasso, 1990, p. 61): la sua collocazione a decine di metri da terra e la mancanza di un’adeguata campagna fotografica delle sculture del duomo impediscono tuttavia di valutare appieno la figura. Quanto al contemporaneo S. Babila, sino a tempi recentissimi era opinione unanime che fosse da identificare con la statua che rappresenta appunto il vescovo di Antiochia accompagnato dai tre martiri bambini Urbano, Epolone e Prilidiano, calato da uno dei contrafforti del transetto settentrionale e oggi ricoverato al Museo del duomo: un’identificazione che ha fatto di quel pezzo il metro di riferimento per ogni ulteriore proposta attributiva, almeno per quanto riguarda l’attività di Raverti scultore (Nebbia, 1908, p. 107). A dispetto di alcune incomprensibili riserve circa la sua qualità espresse negli studi passati (Baroni, 1955, p. 727; Bossaglia, 1973, p. 82), si tratta di uno dei risultati più alti dell’intera campagna decorativa della cattedrale milanese: avvolto in panneggi tanto plastici quanto fluenti, mite e malinconico nella testa intensissima, il S. Babila trova un perfetto equilibrio tra accenti naturali e controllata stilizzazione lineare. Tale registro elegante e virtuosistico appare perfettamente in sintonia con il carattere impresso alla scultura del duomo milanese da Jacopino da Tradate, dal 1407 capo riconosciuto tra gli scultori del duomo. A una data precoce come il 1404 rischiava però di configurare Raverti non solo come una delle personalità più alte e originali impegnate al cantiere, ma addirittura come un geniale precursore del maestro di Tradate. Recentemente l’identificazione tradizionale è stata contestata con solide motivazioni (Markham Schulz, 2012). Sappiamo infatti che attorno all’esecuzione della statua sorse una diatriba con i responsabili della Fabbrica. Il documento originale (a differenza del regesto edito negli Annali, Appendici, I, 1883, p. 269) chiarisce che lo scontento dei committenti dipendeva dal fatto che al momento del collaudo la scultura risultava incompleta poiché priva dei tre piccoli martiri che la leggenda vuole morti assieme a Babila e che gli accordi prevedevano. Per questo motivo la commissione preposta alla stima del lavoro suggerì di detrarre tre fiorini dal compenso (Cavazzini, 2004, pp. 46 s.). Proprio il fatto che i bambini ci siano e siano scolpiti nello stesso blocco di marmo del vescovo ha convinto Anne Markham Schulz che la figura oggi al Museo del duomo non sia quella commissionata a Raverti nel 1404 e sia anzi da riferire a Jacopino da Tradate, a date oltretutto sensibilmente più inoltrate.
Nell’ottobre del 1404, infine, Raverti fu pagato per l’esecuzione di due Profeti su cui non abbiamo altre informazioni; anche in quel caso furono detratti 8 fiorini dal suo compenso poiché una delle statue non fu giudicata conforme alle aspettative (Annali, Appendici, I, 1883, p. 270).
L’artista è attestato al cantiere del duomo milanese almeno fino al 1414 (Tasso, 1990, p. 62 n. 44); non molto dopo si trasferì a Venezia, dove il 5 aprile 1418 nominò il pittore Jacobello del Fiore suo rappresentante legale (Markham Schulz, 2012, p. 756). Nel 1421 il suo nome compare per la prima volta nei registri di conti di Marino Contarini in relazione ai lavori della Ca’ d’Oro (Paoletti, I, 1893, p. 75; Goy, 1992; Id., 1994, p. 118 n. 8); molto probabilmente in quell’occasione il suo ruolo si limitò alla vendita di pietra per la costruzione. Nel 1425, invece, Raverti – assieme a una folta squadra di assistenti – fu espressamente ingaggiato per la realizzazione della scala esterna del cortile così come del portale che collegava il cortile alla calle, entrambi ampiamente rimaneggiati attorno all’anno 1900. A Raverti, che condivise i lavori di costruzione e decorazione del palazzo Contarini con la bottega di Giovanni e Bartolomeo Buon, sono state con buoni argomenti riferite anche le logge del primo e del secondo piano affacciate sul canale (Goy, 1992; Id., 1994). Il suo radicamento in Laguna è testimoniato anche da altre opere scomparse, ma ricordate dalle fonti. Innanzitutto il sepolcro di Borromeo Borromei, allestito nella cappella dedicata a S. Elena nella chiesa del monastero olivetano sull’omonima isola, disperso agli inizi dell’Ottocento con la soppressione napoleonica del cenobio e la sua conversione a caserma, opera su cui si leggeva la firma «Matheus de Revettis Mediolanensis fecit 1422». La tomba, pensile, ricca di figure e intagliata nel marmo, è concordemente celebrata dalle fonti (da Sansovino, 1581, a Cicognara, 1823; ne rimane una puntuale descrizione settecentesca pubblicata da Gallo, 1926). Nel gennaio del 1430 Raverti ricevette poi il saldo per un lavoro non meglio specificato dal procuratore di S. Moisè, Marco Giustiniani (Markham Schulz, 2012, p. 757). Ancora, il 3 luglio dello stesso anno si impegnò a consegnare una vera da pozzo in marmo rosso di Verona a Niccolò di Giovanni Pisani (p. 758). Il nesso con i Borromeo ha suggerito in passato il riferimento al Raverti dei monumenti funebri di altri membri della casata: quello di Alessandro, sepolto in una tomba terragna ai piedi dell’altare nella cappella di S. Elena (sparita con il resto degli arredi, ma di cui serba memoria, alla metà del Settecento, un disegno di Johannes Grevembroch: Markham Schulz, 2012, p. 757 n. 18), e quello di Vitaliano, un tempo in S. Francesco Grande a Milano e oggi nella cappella del palazzo Borromeo sull’Isola Bella (Carotti, 1897), che è invece opera documentata di Filippo Solari e Andrea da Carona (G. Biscaro, Note di storia dell’arte e della coltura a Milano dai libri mastri Borromeo (1427-1478), in Archivio storico lombardo, XLI (1914), pp. 71-108).
A Venezia Raverti è documentato ancora nel 1434, quando fu testimone in un atto notarile per Marino Contarini, e nel 1436, quando la figlia Felicia ricevette quietanza per la dote versata in occasione delle nozze con lo scultore Stefano di Michele (Paoletti, 1893). È questa l’ultima notizia che resta di lui.
Fonti e Bibl.: F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia, Jacomo Sansovino, 1581, p. 77; L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia sino al secolo di Napoleone, seconda edizione riveduta e ampliata, IV, Prato 1823, p. 374; Annali della Fabbrica del Duomo di Milano, Appendici, I, 1883, pp. 243, 268-270; P. Paoletti, L’architettura e la scultura del Rinascimento a Venezia, I, Venezia 1893, p. 75 n. 7; G. Carotti, Un insigne monumento dei Borromei all’Isola Bella e una pagina dimenticata della storia della scultura lombarda, in La perseveranza, XXXVIII (24 giugno 1897), [p. 2]; U. Nebbia, La scultura nel Duomo di Milano, Milano 1908, pp. 62, 107; R. Gallo, La chiesa di S. Elena, Venezia 1926, pp. 432-434; G. Mariacher, M. R. nell’arte veneziana del primo Quattrocento, in Rivista d’arte, XXI (1939), pp. 23-40; Id., Aggiunta a M. R., ibid., XXII (1940), pp. 101-107; C. Baroni, La scultura gotica lombarda, Milano 1944, pp. 144 s.; Id., La scultura del primo Quattrocento, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, pp. 685-764; M. Cionini Visani, Proposta per M. R., in Arte veneta, XVI (1962), pp. 31-41; A. Ciceri, Fonti per lo studio della storia del Duomo di Milano rinvenute presso archivi milanesi e lombardi, in Il Duomo di Milano. Atti del Congresso... 1968, a cura di M.L. Gatti Perer, Milano 1969, pp. 169-204; R. Bossaglia, La scultura. I cantieri e gli artisti fra Trecento e Quattrocento, in Il Duomo di Milano, I, Milano 1973, pp. 65-176; W. Wolters, La scultura veneziana gotica (1300-1460), I, Venezia 1976, pp. 131, 235 s.; F. Tasso, I Giganti e le vicende della prima scultura del Duomo di Milano, in Arte lombarda, 1990, nn. 92-93, pp. 55-62; R.J. Goy, The House of Gold, Cambridge 1992, pp. 163-180; Id., M. R. at the Ca’ d’Oro: geometry and order in Venetian gothic tracery, in Renaissance Studies, VIII (1994), pp. 115-137; L. Cavazzini, Una lettera di presentazione per M. R., in Itinerari d’arte in Lombardia dal XIII al XX secolo. Scritti offerti a Maria Teresa Binaghi Olivari, Milano 1998, pp. 39-45; Ead., Il crepuscolo della scultura medioevale in Lombardia, Firenze 2004, pp. 44-49; A. Markham Schulz, M. R. and Jacopino da Tradate, in The Burlington Magazine, CLIV (2012), pp. 756-761.