PASTI, Matteo de'
PASTI, Matteo de’. – Non si conosce la data di nascita di questo artista, la cui famiglia, piuttosto agiata, era originaria di Ponton, una frazione di Verona, ma poiché si sa che alla fine del 1436 doveva avere già compiuto i venticinque anni, è ragionevole porla poco prima del 1410.
Il nonno Benedetto, dopo aver messo al mondo tre figli, divenne abate di Calavena. Il padre Andrea, oltre a essere medico e chirurgo, era rimasto unico erede e come tale aveva ereditato da Benedetto l’investitura feudale di numerose terre poste a Erbè di proprietà dell’abbazia di S. Zeno. Non abbiamo notizie della madre, sembrando priva di fondamento la sua identificazione con una figlia di Ginevra de’ Bardi fiorentina. Nel 1436, quando il padre morì, lasciò sei figli maschi: Benedetto, Urbano, Matteo, Bartolomeo, Pietro e Antonio. Benedetto e Pietro seguirono la carriera ecclesiastica: il primo fu canonico della cattedrale, l’altro arciprete di Quinzano, località nei pressi di Verona. In quell’anno Matteo ricevette proprio dal fratello Benedetto, allora impegnato a Bologna, l’incarico di rappresentarlo nella nuova investitura dei possedimenti ereditati dal padre (Da Re, 1911, pp. 180-182).
In una data imprecisata Matteo si trasferì a Venezia, da dove nel 1441 inviò una lettera a Piero di Cosimo de’ Medici nella quale affermava di avere imparato – «da poi ch’io son a Vinesia» – l’uso dell’oro «masinato» in pittura; con questa nuova tecnica stava dipingendo per lo stesso Piero dei Trionfi molto probabilmente tratti da Francesco Petrarca. Caduta l’ipotesi che possa trattarsi dei pannelli di un mobile oggi conservati al Museo di Palazzo Davanzati e attribuiti allo Scheggia, l’opera in questione – verosimilmente delle miniature – è da ritenersi perduta. Nella lettera si legge anche un misterioso riferimento a precedenti incomprensioni tra i due, non si capisce se ancora legate alla sfera artistica o, come sembrerebbe più probabile, di altra natura: «vi priegho che vui mi vogliate perdonare di quello ch’io ho fatto, perché vui sapete che mi fu forzia a far quello ch’io feci» (Milanesi, 1869). Di un soggiorno fiorentino a cui potrebbe alludere il Pasti con questa frase non rimane comunque alcuna traccia, sebbene proprio nel 1441 risiedesse a Firenze, a seguito della curia pontificia, il fratello Benedetto (Avesani, 1984, p. 84).
Matteo de’ Pasti ricompare solamente tre anni più tardi, questa volta nella documentazione ferrarese (Franceschini, 1993, pp. 255, 822 s.): dal giugno del 1444 fino al marzo del 1446 risulta impegnato nella decorazione di un breviario per Leonello d’Este insieme a Giorgio d’Alemagna, Guglielmo Giraldi, Bartolomeo di Benincà e il Magnanino. Matteo continuò però a soggiornare a Verona: come risulta dall’ultimo pagamento, da lì si sarebbe recato per ben tre volte a Ferrara per consegnare il lavoro e ricevere il compenso.
Considerata l’opera principale della miniatura ferrarese al tempo di Leonello, il breviario è stato identificato con quello in collezione Llangattock fino al 1958, quando fu venduto già mutilo. Venne poi ulteriormente smembrato, e infatti vari fogli appartenuti a esso sono comparsi negli anni seguenti sul mercato antiquario. In uno di questi, oggi conservato insieme ad altri della serie alla Houghton Library di Cambridge (Mass.) e che corrisponde all’inizio del Santorale, Massimo Medica (1991 e 1998) ha proposto convincentemente di riconoscere la mano di Matteo de’ Pasti. La cultura figurativa che ne risulta, oltre a rivelare una decisa componente veneta «nel fare più corposo del fregio» (Id., 1991, p. 193) rispetto ad analoghe soluzioni ferraresi, e un indubbio interesse per i ritratti di profilo desunti da medaglie antiche, denuncia anche la strettissima dipendenza dal mondo pisanelliano, che si osserva soprattutto nelle pose dei due angioletti sulla sinistra, quasi ricalcati dal celebre disegno attribuito allo stesso Pisanello conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (F 214 Inf. n. 23) che, a sua volta, ricopiava due angioletti del pulpito del duomo di Prato di Donatello e Michelozzo. Proprio dall’osservazione di questi elementi lo studioso ha poi proposto di riconoscere la mano di Matteo in alcune pagine del codice dell’Ab Urbe condita di Tito Livio conservato a Parigi (Bibliothèque nationale de France, Ms. lat. 14360): forse riconducibile a una committenza malatestiana, il codice sarebbe databile tra il 1445 e il 1447 sulla base dell’interpretazione di alcune miniature come possibili allusioni alla vittoria di Sigismondo Malatesta nella guerra contro Francesco Sforza. Saremmo dunque di fronte al momento iniziale di un rapporto, quello di Matteo de’ Pasti e del Malatesta, destinato a consolidarsi e a durare sino alla morte dell’artista. È verosimile pensare che esso fosse nato grazie alla contemporanea frequentazione della corte estense da parte di entrambi, magari proprio per il tramite di Pisanello.
Allo stesso tempo, cioè prima del 1450, è stata ricondotta la partecipazione di Matteo alla decorazione di un Libro d’ore conservato a Mosca alla Biblioteca statale di Russia (Fondo 256, n. 823).
Il primo documento (Delucca, 1997, p. 334) che ricorda la presenza a Rimini del Pasti è del 19 giugno 1449 quando, insieme allo scultore fiorentino Agostino di Duccio, risulta essere testimone in un atto notarile per la fattura di due bombarde. È probabile che il suo arrivo in città debba risalire a qualche mese prima, se i due documenti immediatamente successivi che lo riguardano rivelano ambedue una decisa volontà di radicarsi nella città adriatica: il 30 giugno vendette infatti una sua casa a Verona e il 22 agosto risulta essere già sposato con Lisa Baldegara di Rimini. Probabilmente assoldato in qualità di miniaturista, Matteo, come vedremo, seppe farsi apprezzare anche come raffinato medaglista, sempre nell’orbita di Pisanello. Ma il trasferimento a Rimini deve essere interpretato soprattutto alla luce dei lavori di risistemazione che dalla fine del 1447 interessarono la chiesa di S. Francesco fino a trasformarla integralmente nel celebre Tempio Malatestiano. Di pari passo vanno anche considerati i rapporti con Sigismondo Malatesta, che divennero sempre più stretti, al punto che Maso di Bartolomeo nei suoi Ricordi (Journal d’un sculpteur florentin, XV sec., 1894, p. 70) arriva a definirlo «compagno del detto signore» e ancora, in un atto notarile del 1° giugno 1454 che lo vede opposto a Giorgio da Sebenico inadempiente per una fornitura di pietra d’Istria, Matteo viene detto «socio et familiare excelsi domini Sigismundi».
I suoi compiti all’interno di quel cantiere, che assorbì negli anni a seguire molte delle energie della corte malatestiana, non sono del tutto chiari: un’iscrizione dipinta che correva sulla cornice superiore tra la prima e la seconda cappella del fianco sinistro (ancora leggibile nel primo dopoguerra e oggi totalmente scomparsa) celebrava il suo ruolo di architetto dell’intero edificio (MATTHEI VERONENSIS DE PASTIS ILLUSTRIS ARIMINI DOMINI NOBILIS ARCHITECTI OPUS), anche se poi notizie documentarie da una parte e d’evidenza stilistica dall’altra mettono in campo altre figure a contendergli questo primato, prima fra tutte quella di Leon Battista Alberti. Per intendere quali fossero le sue responsabilità dal punto di vista architettonico, conviene pensare piuttosto alla gestione di un cantiere aperto in cui non solo bisognava seguire il progetto autorevole dell’Alberti, ma in cui si dava spazio alle soluzioni strutturali e decorative che arrivavano da quanti erano coinvolti in quei lavori con mansioni varie, architetti e ingegneri, carpentieri e muratori, personaggi come Alvise Muzarelli e suo figlio Giovanni, Francesco Cinquedenti, Matteo Nuti o Cristoforo Foschi.
Questo è vero soprattutto per una fase avanzata dei lavori, quella che corrisponde cioè alla fine del 1454, quando la cattura da parte dei senesi di un corriere che portava una serie di dispacci a Sigismondo Malatesta, allora impegnato in Toscana nella guerra contro il conte di Pitigliano, ha fatto sì che sopravvivesse per quella fase dei lavori una documentazione piuttosto precisa (queste carte sono oggi conservate all’Archivio di Stato di Siena). In realtà, le vicende del Malatestiano sono decisamente più complesse. Prima di arrivare al progetto albertiano che avrebbe coinvolto tutta la chiesa, sarà necessario pensare a un primo intervento limitato solamente alle prime due cappelle del fianco destro, quella di San Sigismondo e quella degli Angeli, la prima delle quali da costruire ex novo. Se ne volevano fare due cappelle funebri, una per lo stesso Malatesta e una per Isotta degli Atti, nelle quali probabilmente dovevano trovar posto i loro monumenti sepolcrali. Venuto meno il progetto per quello di Sigismondo, abbandonato a seguito del nuovo programma decorativo, è proprio per il monumento funebre di Isotta, montato invece secondo quello che doveva essere il suo aspetto originario, che è stato convincentemente avanzato il nome di Matteo de’ Pasti: il gusto ‘internazionale’ che lo caratterizza rientra infatti pienamente in quella cultura figurativa che abbiamo visto essere la sua, almeno fino a questo scorcio degli anni Quaranta, una cultura che ancora denuncia tutta la sua dipendenza nei confronti dell’universo pisanelliano e che trova proprio nel contesto veronese i suoi più immediati modelli di riferimento.
Quando poi, dopo il 1450, nacque l’esigenza di un intervento totale sulla chiesa e venne coinvolto l’Alberti, il Pasti assunse quel ruolo di coordinatore dei lavori che abbiamo già detto, un ruolo sancito autorevolmente dalla lettera che gli inviò l’Alberti stesso il 18 novembre 1454, nella quale si accenna tra l’altro a una pregressa corrispondenza intercorsa tra i due (Grayson, 1957). Del resto anche nelle lettere che scrissero a Sigismondo Giovanni Muzarelli e Matteo Nuti e che si trovano tra quelle sequestrate dai senesi al corriere malatestiano, viene fuori la stessa importanza di Matteo de’ Pasti quale punto di riferimento per i lavori al Malatestiano. Già l’unanimità di questi riconoscimenti potrebbe giustificare l’iscrizione che si leggeva all’interno della chiesa. Tuttavia, gran parte degli studi è concorde nell’identificare ancora come sua peculiarità espressiva tutto il sistema decorativo dell’interno, certo coadiuvato da altri, aperto a ogni possibile consiglio, sia tecnico sia morfologico, disposto persino a dialogare con il nuovo linguaggio antichizzante che si stava prepotentemente affermando nel resto della penisola. Ma nel sistema architettonico delle varie cappelle non è poi così difficile rintracciare una cultura figurativa ancora discontinua, che affonda le proprie radici nel mondo tardogotico, con le sue ansie decorative, la sontuosa fragilità dei suoi costrutti, la libera operosità delle sue soluzioni. Un repertorio insomma che si sposa fin troppo bene con la personalità artistica di Matteo de’ Pasti per come siamo in grado di ricostruire; semmai ci sarà da osservare un percorso che, anche dal punto di vista architettonico, si sta evolvendo rapidamente in direzione delle novità rinascimentali, che è poi la caratteristica di tutta quanta la cultura malatestiana di questi anni.
Allo stesso modo si dovrà considerare anche la sua attività di medaglista. Nelle prime medaglie, che dovrebbero essere state fuse non prima della fine del 1449 e che sono state rinvenute sul dorso degli elefanti che sostengono i pilastri nella cappella di S. Sigismondo, si osserva ancora una volta un linguaggio sostanzialmente pisanelliano, sia nel profilo deciso dei ritratti sia nelle deboli figure dei rovesci, nelle quali è stata vista una traccia della sua precedente attività di miniaturista (Pasini, 1987). Ma già in quelle di poco successive, fuse probabilmente subito dopo l’ottobre 1450 e rinvenute anch’esse all’interno delle mura del Tempio e del Castello, si osservano una maggiore saldezza plastica, una più attenta resa spaziale, un tratto più composto, tutti elementi che ci danno il grado di evoluzione in senso rinascimentale cui andò incontro il Pasti in questi mesi, anche sul versante della medaglistica e che è probabile sia da mettere anche in relazione con la presenza a Rimini di un artista come Piero della Francesca. Entro il 1454 dovrebbero essere state compiute le invenzioni di tutte le medaglie malatestiane, compresa la più celebre di esse, quella raffigurante sul verso proprio il Tempio Malatestiano secondo quello che doveva essere il progetto finale. Ad anni immediatamente successivi potrebbero risalire infine le medaglie non malatestiane, quelle di Timoteo Maffei, di Guarino Guarini, del fratello Benedetto e di Leon Battista Alberti, nelle quali quell’evoluzione di cui dicevamo sembra compiere un passo in avanti ulteriore.
Il 1454 è un anno particolarmente denso dal punto di vista documentario: in marzo Matteo si recò a Senigallia insieme allo stesso Alberti per visionare il sistema difensivo di quella città; in giugno fu a Fano per i già ricordati problemi intercorsi nei confronti di Giorgio da Sebenico; sono documentati altri suoi incarichi, probabilmente di natura architettonica, nei territori malatestiani per i mesi di novembre e dicembre (Delucca, 1997, pp. 336-339). Negli anni seguenti è costantemente presente nei documenti notarili riminesi, soprattutto per questioni catastali. Nel settembre 1458 morì il suo unico figlio maschio (p. 342).
Nel 1460 diresse i lavori per il monumento funebre di Pandolfo III a Fano (Petrini, 1975). Ma è l’anno successivo quello più significativo dal punto di vista biografico: su iniziativa del Malatesta Matteo partì per Costantinopoli per raggiungere Maometto II, che desiderava farsi ritrarre; era accompagnato da una lettera di presentazione composta da Roberto Valturio e da una mappa dell’Italia disegnata da lui stesso. Nel novembre venne catturato dai veneziani a Candia e portato a Venezia per essere interrogato; fu presto rilasciato e poté tornarsane a Rimini, dove è documentato già nel gennaio del 1462, quando accompagnò Sigismondo a Mondavio.
Nel 1464 prestò al veneziano Pietro Delfino, di passaggio a Rimini, l’autografo dei Commentarii di Ciriaco d’Ancona in suo possesso: la copia fatta fare in quell’occasione risulta essere l’unico esemplare sopravissuto di quell’opera. Nel mese di dicembre è documentato a Cesena. Una serie di documenti notarili lo ricordano ancora vivente nel maggio del 1467, mentre all’inizio del 1468 risulta essere già defunto: in sua vece si trovano negli atti i nomi della vedova Lisa e della figlia Piera, moglie di Raffaele Arduini (Delucca, 1997, p. 344).
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