GIOFFREDO, Mario
Nacque a Napoli il 14 maggio 1718. Dopo aver frequentato l'atelier del pittore Francesco Solimena, ove "contrasse famigliarità" con Francesco De Mura, si formò nello studio dell'architetto napoletano Martino Buonocore, tipico rappresentante del gusto rococò, mal giudicato nelle Memorie da Francesco Milizia, nel cenno biografico dedicato al Gioffredo. Esaminato da G.A. Medrano (autore del teatro S. Carlo e del palazzo di Capodimonte), il G., nel 1741, a soli ventitré anni, fu dichiarato abile "ad esercitare la professione di architetto" (Napoli Signorelli) e nel 1742 esordì con un'opera effimera, tipica della locale tradizione barocca delle macchine da festa e apparati: il disegno per il carro di Battaglino nell'annuale processione della Congrega di Montecalvario (Napoli, Museo di S. Martino, inv. 6356), menzionata a metà del Seicento dal viceré J. Vélez de Guevara conte d'Oñate tra le più sontuose e grandiose d'Italia. Ed è forse in questa stessa fase di fervida inventiva che vanno posti i disegni del G., il primo per un apparato funebre e altri sette relativi alla festa di s. Gennaro (conservati presso la Società napoletana di storia patria: Civiltà del Settecento…, pp. 341-343).
Partecipò poi al concorso per l'obelisco dell'Immacolata da erigersi nella piazza del Gesù Nuovo di fronte alla grande chiesa dei gesuiti (Trinità Maggiore), ma al suo progetto fu preferito quello di G. Genoino (1748), il quale compose una macchina più ricca. Un concorso molto più importante - anche perché vi parteciparono architetti di gran nome come G. Sardi, F. Fuga e L. Vanvitelli - fu vinto dal G. per il rifacimento della chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli in Roma (con un progetto non adottato).
Il G. fu tra i primi a visitare e disegnare i templi di Paestum nel 1746; e certamente lo studio dell'antico fu di estrema importanza nella sua formazione, come dimostra il fatto che nella sua biblioteca ci fossero testi come I quattro libri di A. Palladio e il Vitruvio di Daniele Barbaro, da cui trasse l'idea per il suo trattato.
L'esordio del G. come architetto si ebbe nel 1746, allorché - a soli ventotto anni - egli intervenne per il palazzo del duca di Paduli, poi Partanna, fuori la porta di Chiaia: acquistato successivamente da Ferdinando I per la moglie morganatica Lucia Migliaccio, fu rimaneggiato da A. Niccolini, che gli conferì accenti neoclassici, pur rispettando l'elegante portale a colonne ioniche in marmo, sul cui plinto può ancora leggersi inciso il nome del Gioffredo.
Della produzione giovanile del G. vanno ricordate due opere, anch'esse perdute, che attestano una figura professionale già consolidata: il teatrino del palazzo D'Afflitto, nell'ambito dei quartieri spagnoli, e il nuovo sedile di Porto (cioè l'edificio destinato alle riunioni dei nobili appartenenti a questo sedile), entrambi datati al 1748.
Il teatrino rappresentava un importante episodio della rinata vita teatrale napoletana, eretto, entro una dimora patrizia, un decennio dopo la costruzione del teatro del Re (S. Carlo, 1738). Il sedile - che sostituiva quello di uguale titolo nella strada che tuttora ne conserva il nome (nell'area della città bassa, interessata dai lavori di risanamento dopo il colera del 1885) - sorgeva sulla via Medina, a breve distanza dalla chiesa di S. Diego o di S. Giuseppe Maggiore dell'Ospedaletto. L'edificio è indicato tra le opere del G. da Napoli Signorelli che lo dice "terminato il 1748", anche se un documento del 1743 attesta che al rifacimento del sedile già attendeva A. Canevari (come ricordano il Milizia e B. Croce); il che fa ipotizzare un intervento di completamento da parte del G. e una datazione conclusiva più tarda. Il disegno conferì nuova monumentalità al tema dell'edificio a pianta quadrata coronato da cupola: in un'incisione la slanciata mole del sedile appare come un arco quadrifronte - dai fornici inquadrati tra coppie di lesene - coronato da una bassa cupola estradossata, su alto stilobate.
Nel 1749 fu presente con N. Tagliacozzi Canale nel rifacimento della chiesa dell'Arciconfraternita di S. Maria dei Pellegrini e, insieme con G.A. Medrano, fu impegnato per molti anni nella costruzione di case di proprietà dell'Arciconfraternita ubicate tra la chiesa e porta Medina. Nello stesso anno si deve al G. l'apertura del breve tratto di strada (oggi via T. Caravita) che da via Toledo giunge al largo di Monteoliveto, in asse con la chiesa rinascimentale; e in tale occasione sui giardini posti a nord dell'insula monastica olivetana vennero costruite due cortine di palazzi di identico impianto.
Anteriormente al 1751 - anno in cui Vanvitelli venne chiamato a Napoli - il G. redasse un progetto per la reggia di Caserta, documentato da una serie di disegni di notevole impegno: oltre alle planimetrie del complesso e adiacenze, si conservano le piante ai vari livelli, sezioni e prospetti in diverse scale, nonché disegni di dettaglio relativi ai nodi architettonici primari (quali atrio, scaloni, piano reale, teatro di corte, cappella: Schiavo, 1952; De Nitto, 1975; Robotti, 1993).
Il G. concepì un gigantesco edificio fortificato in cui si concentravano non soltanto la residenza reale ma anche tutti i dicasteri, nonché la magistratura, l'università, la biblioteca pubblica, un grande teatro, accogliendo persino la cattedrale con annesso seminario, oltre a tutte le residenze e servizi necessari. Il singolare vastissimo organismo, ispirato forse al palazzo di Diocleziano a Spalato e all'Escuriale di Madrid, svolgeva i suoi corpi di fabbrica a graticola ortogonale con nove quadrati interni, di cui il centrale accoglieva il vestibolo ottagonale coronato da cupola e destinato ai collegamenti verticali. All'esterno quattro bassi bastioni poligonali a terrazza si saldavano sui vertici del quadrato di pianta, totalmente circondato da ampio fossato, scavalcato da un ponte su ciascun lato. Il carattere dell'insieme rivela lo studio delle fabbriche antiche e soprattutto dei maggiori episodi della corrente classicistica del barocco, con palesi richiami del progetto di G.L. Bernini per il Louvre, ma anche - per quanto concerne la cattedrale - di S. Agnese a piazza Navona (che aveva già ispirato C. Fanzago in S. Maria Egiziaca a Pizzofalcone).
Appartiene al G. la chiesa del Carmine a Vasto, sulla costa adriatica, commessagli nel 1751 dal marchese d'Avalos del Vasto (ma costruita tra il 1758 e il 1766 con impianto a croce greca); per lo stesso committente eseguì a Napoli il rifacimento del sontuoso palazzo patrizio di origine cinquecentesca, fuori la porta di Chiaia, in cui il G. si avvalse di semplici modularità (balconi e finestre con timpano, nei due piani posti sul basamento listato, e coppie di colonne toscane a serrare l'arco del portale). Perduti molti elementi interni per le successive trasformazioni, risultano degni di nota il vestibolo con nicchie e la scala preceduta da un atrio quadrato con scodella sugli archi laterali, impostati su colonne tuscaniche, nonché i sobri motivi a stucco nelle volte.
Tra le sue prime fabbriche civili va posto il palazzo che il consigliere di Stato F. Latilla si fece costruire sulle pendici collinose al termine di via Toledo, già popolate di case monastiche (salita Pontecorvo), a breve distanza dalla porta Reale e dalla incompiuta dimora degli Spinelli di Tarsia (di D.A. Vaccaro). Dopo una prima fase affidata a un architetto tuttora ignoto, nell'ottobre del 1755 il G. compare, in un documento ufficiale (notizia peraltro già riferita da Rocco), in qualità di progettista e direttore dei lavori; qui il maestro lavorò per un triennio, inglobando anche preesistenze e servendosi di taluni ottimi artigiani ricordati nei documenti.
Sebbene la fabbrica fosse conclusa e abitata nel 1758, vennero decisi altri lavori per realizzare un nuovo cortile e nuove fabbriche (Gambardella), cosicché soltanto nel 1765 il palazzo può considerarsi del tutto terminato, occupando una vasta insula a tergo di quella dell'ospedale dei Pellegrini. L'esteso volume è caratterizzato dall'uniformità dei moduli alterni di finestre e balconi. E però si stagliano nel basamento a botteghe due portali in piperno di originale disegno ad arco segmentato a bugne piatte segnato da riquadrature verticali, posti nei due corpi estremi; mentre un più antico portale degli inizi del XVIII secolo sussiste al centro del lungo edificio. Ma l'elemento più significativo è rappresentato dalla scala aperta del corpo occidentale, con invito posto in fondo al cortile, cui fa seguito, sulla sinistra, lo svolgimento del rampante che ripiega su se stesso sino ai piani superiori, in un'efficace successione prospettica di volte e archi affacciati sulla corte.
Dal 1754, è nota la sua attività di "regio ingegnere" insieme con Michelangelo De Blasio, con stime e "apprezzi", relativamente sia a restauri nella Regia Dogana sia alla "casa palaziata" del Monte di Sebastiano Sabia. Nel 1755 fu impegnato nelle opere commissionategli da Lutio di Sangro duca di Casacalenda, ossia nella celebre villa di Ercolano e nel palazzo in città, affacciato sulla piazza di S. Domenico Maggiore. In questa occasione sorse un contrasto tra architetto e committente, che determinò la sostituzione del G. con L. Vanvitelli. Alla villa, poi Campolieto, il G. attese per circa un quinquennio (1755-60); gli subentrò poi l'architetto Michelangelo Giustiniani (1761-62), che fu sostituito da L. Vanvitelli (dal 1763 per un decennio): alla morte di quest'ultimo la villa fu conclusa dal figlio Carlo (1775).
Il G. impostò la struttura della villa e, pare, della celebre rotonda ispirata a Versailles; ma Giustiniani estese a filo della strada (il cosiddetto "miglio d'oro" delle ville vesuviane) l'edificio che il G. aveva voluto arretrato. L'intervento di Vanvitelli - che volle ellittico il portico a colonne progettato circolare dal G. - ridefinì poi totalmente la villa, inserendo nell'atrio la scala laterale che riprende temi casertani, saldandosi poi al vestibolo cupolato superiore e creando un asse visivo trasversale verso il giardino laterale.
Nella piazza napoletana, la duchessa Marianna de Sangro, moglie di Lutio, stipulò sin dal 1754 un contratto per rimodernare totalmente e ampliare il suo palazzo su progetto del G., che compì qui la sua opera civile di maggior respiro.
Sebbene non possa disconoscersi l'impiego di taluni temi propri di Vanvitelli o comunque la consonanza di linguaggio tra i due maestri (Venditti, 1973), la facciata del palazzo Casacalenda (pur squilibrata dalla demolizione di un modulo) appare configurata con eleganza e originalità: l'ordine gigante di paraste ioniche già adottato da Vanvitelli a Caserta sorge qui da un basamento in piperno segnato dai due portali tuscanici in marmo bianco.
La bicromia tra pietra delle membrature e fondali di cotto si addolcisce, rispetto a quella casertana, per l'adozione - in luogo del travertino - della "pietra di Sorrento". Nel contrasto insorto tra la duchessa di Casacalenda e l'architetto napoletano, sfociato in un giudizio civile, si inserì nel 1763-64 Vanvitelli che venne incaricato dal duca di compiere la fabbrica per la quale si ritiene abbia disegnato l'atrio con gli inviti alle scale simmetriche, in fondo al cortile, con otto fusti di colonne tuscaniche affiancati a lesene con specchiature marmoree. In alcuni documenti autografi Vanvitelli, in merito alle fabbriche dei Casacalenda, definì il G. "imprudente architetto napoletano" (Minieri Riccio).
La fama del G. doveva essere comunque ben consolidata, se nel 1762 la sua opera venne richiesta per un importante palazzo sulla prestigiosa via Toledo, per il marchese Angelo Cavalcanti, a breve distanza da quello della nunziatura apostolica: anche qui l'ordine gigante di paraste ioniche con festoni nei capitelli su di un basamento a botteghe e ammezzati costituisce il tema dominante della facciata che reca al centro una nicchia, palese ricordo vanvitelliano, in corrispondenza del balcone centrale. Questo corona il portale a colonne marmoree incassate già adottato nel palazzo Casacalenda, sul quale sono ricordati in epigrafe il nome del committente e l'anno di esecuzione. Nonostante la ristrettezza del lotto il G. risolse in maniera unitaria il cortile mediante arcate su colonne bugnate e originale soluzione per la scala aperta a doppia rampa simmetrica, ritmata da una sorta di motivo di serliana.
Sempre nel 1762 il G. intervenne nell'incompiuto edificio rinascimentale degli Orsini duchi di Gravina a via Monteoliveto (oggi facoltà di architettura), chiamato a operare dal cardinale Domenico Orsini, ambasciatore del re di Napoli presso la corte pontificia.
Nella facciata - ove, sul basamento bugnato di palese accento toscano, paraste serrano finestre sormontate da tondi con le teste di V. Ghiberti - si conserva dell'opera del G. il portale marmoreo a colonne doriche sul cui plinto è la firma dell'architetto. Quanto al piano attico e ai lavori interni compiuti nel corso del Settecento (durati sino al 1772, e nel 1767 c'è un pagamento di 60 ducati a F. Fuga) risultano assai poco documentati e comunque non più riconoscibili a seguito dei numerosi radicali restauri successivi.
Intorno al 1765 il G. fu chiamato dalle monache (con cui aveva avuto rapporti professionali sin dal 1753; Nappi) a rinnovare il convento di S. Maria Maddalena, di fondazione angioina, che sorgeva nella zona della Duchesca, a poca distanza dalla Ss. Annunziata; ma nulla più resta del complesso, cui aggiunse un elegante vestibolo con volte su coppie di colonne tuscaniche, poiché il tutto venne vandalicamente distrutto nel 1958.
Ancora un intervento di restauro di fabbriche conventuali fu compiuto dal G. negli anni 1765-66, allorché documenti attestano pagamenti per i disegni fatti in "occasione della ampliazione e modernazione" di S. Caterina da Siena (Nappi, p. 189), presso piazza Cariati, dove progettò e curò la realizzazione della nuova fabbrica con P. Manzo. Il G. aggiunse il pronao di notevole valenza urbanistica, contribuendo solo in parte con disegni al rinnovamento dell'attiguo convento (poi demolito), i cui lavori durarono dal 1774 al 1787, sotto la direzione di G. Del Gaizo al posto di Manzo.
La chiesa dello Spirito Santo, insieme con il citato palazzo Casacalenda, può considerarsi la sua opera di maggior rilievo. Bandito nel 1757 un concorso per la ricostruzione della fabbrica, tra i quattro progetti presentati anonimi fu scelto il suo da L. Vanvitelli.
I lavori, iniziati nel 1758, richiesero molti anni (nel 1761 era finita la navata, nel 1768 la crociera e nel 1771 la cupola, sino al completamento del 1774) e investirono con un generale rifacimento la preesistente chiesa tardo-cinquecentesca, dal consueto schema controriformistico, a navata unica con cappelle. Pur conservando tale ripartizione, anche per rispettare taluni monumenti sepolcrali, il G. fece un'opera totalmente nuova e originale, adottando nell'ampio invaso, del tutto privo di colori, colonne corinzie giganti tra le quali si aprono gli archi delle cappelle sovrastati da un riquadro. Agli estremi, prima dell'abside, il G. inserì, nel ridotto intercolumnio, balconate su mensole, poste al di sopra dei vani architravati, rinnovando temi già espressi nel palazzo Casacalenda. Nella vasta e luminosa basilica, le membrature, saldate dalla continuità della trabeazione classica, sono esaltate nel loro ritmo astratto dal generale candore che avvolge tutte le superfici, segnando "la fine del colorismo barocco delle chiese napoletane" (Pane, p. 316); unico elemento cromatico è l'altare in marmi policromi. Notevole, la scenografica soluzione absidale; e, soprattutto, l'alta cupola su tamburo, che prende luce da dodici finestre a timpani alterni. Se è stato richiamato per l'esterno della cupola il modello romano di Ss. Ambrogio e Carlo al Corso, opera di Pietro Berrettini da Cortona, risulta invece palese all'interno, insieme con echi rainaldiani, l'analogia con alcune fabbriche di Vanvitelli, in particolare con la Ss. Annunziata. Comunque interessante, nello Spirito Santo, finita otto anni prima dell'Annunziata, il richiamo a temi del barocco romano filtrati attraverso un'ottica classicistica che per l'interno valse al G. il giudizio positivo del severo Milizia; non così per la facciata, ove il preesistente portale di Simone Moccia è inquadrato entro una composizione incerta e impersonale, con colonne murali e lesene a reggere il triplice timpano di coronamento.
Tra le ultime opere del G. va ricordata l'attività svolta in Calabria, ove si recò più volte dal 1771 al 1778 - appena cinque anni prima del disastroso terremoto che colpì la regione (1783) - per compiere, per conto del governo, indagini sulle miniere di ferro di Mongiana e per le livellazioni dei fiumi Ninfo e Alaro, utilizzati per le officine militari. Ancora va segnalata l'opera svolta per analoghi problemi alla Madonna di Canneto in Terra di Lavoro, nonché il progetto per il conservatorio dell'Annunziata a Capua; mentre tuttora non è documentata l'attribuzione della modesta villa del Barrizzo ad Albanella di Paestum.
Il G., partecipe pienamente dei dibattiti sull'architettura del tempo, fece parte della speciale deputazione incaricata di studiare i problemi della lesionata cupola della chiesa della Trinità Maggiore (Gesù Nuovo), insieme con Vanvitelli, Fuga, G. Astarita, G. Pollio, F. Bottiglieri e il matematico Berardo Galiani; e sebbene il G. concordasse con Vanvitelli "per riparare e non demolire" (Sasso), dopo sei anni di dibattiti, dal 1769 al 1774, morto Vanvitelli, prevalse il parere di Fuga e si attuò la demolizione, cui fece seguito la costruzione della mediocre scodella disegnata da Ignazio di Nardo.
Benché fosse stato precettore di disegno di Ferdinando IV nell'età giovanile, il G. fu oscurato nella sua produzione dai due più quotati maestri contemporanei presenti a Napoli nella seconda metà del Settecento; e venne nominato dal re architetto di corte e direttore delle opere soltanto nel 1783, dieci anni dopo la scomparsa di Vanvitelli e l'anno successivo alla morte di Fuga.
Appena due anni più tardi, a sessantasette anni, il G., ormai cieco, morì a Napoli l'8 marzo 1785 (Sasso).
La produzione del G. appare non priva di contraddizioni, tipiche del periodo di transizione fra tardobarocco e neoclassicismo; e, se mostra palesi tangenze linguistiche con i contemporanei Vanvitelli e Fuga, rivela il medesimo impegno di rigore nella definizione del dettaglio architettonico, dell'ornamentazione e dell'arredo. La conoscenza delle opere del classicismo tardorinascimentale e barocco, specie del mondo romano, può leggersi nelle sue composizioni, in cui non viene mai meno il senso della misura, seppure con minore inventiva rispetto ai due citati maestri di formazione romana. Con efficace sintesi Napoli Signorelli conclude il cenno biografico sul G. scrivendo: "Il carattere che trionfa nelle opere riferite, ed in altre fatte per le province, discopre sempre il suo stile solido, vago e grandioso". Anticipando posizioni dell'estetica razionalistica che dovevano trovare sistematizzazione nel periodo neoclassico e nei Principi di architettura civile di F. Milizia (1781), il G. pubblicò nel 1768, grazie all'aiuto di B. Tanucci, a Napoli presso la Stamperia reale, il primo dei tre volumi previsti di un trattato Dell'architettura, dedicato a Ferdinando IV, in cui espresse un'intransigente posizione purista e antibarocca, curiosamente in contrasto con le sue stesse opere e persino con il gusto di alcune delle splendide incisioni in rame che illustrano il libro. Per il G. - che dichiara di conoscere Vitruvio e tutti i principali trattati di età rinascimentale - i cinque ordini rappresentano leggi insostituibili e inderogabili, e il barocco va condannato al pari del gotico, per fondare l'architettura sullo studio degli antichi edifici, ossia sui modelli del mondo classico. Ciò non soltanto gli valse il soprannome di "Vitruvio parlante" con cui il conte di Lambery, ministro della corte di Vienna, presentò il G. all'arciduca Ferdinando d'Austria, ma anche la nomina a membro dell'Accademia delle scienze di Siena (1771), al cui segretario, abate G. Ciaccheri, scrisse il 31 agosto di quell'anno dando notizie sulla sua opera e su ricerche compiute per rintracciare disegni di Francesco di Giorgio Martini (Siena, Biblioteca comunale, E.VII.15).
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