ROBILANT, Mario Antonio Nicolis di
ROBILANT, Mario Antonio Nicolis di. – Nacque a Torino il 28 aprile 1855 da Carlo Alberto e da Lidia Nomis di Pollone, quarta figlia del conte Antonio, gentiluomo di camera del re e sindaco di Torino nel biennio 1842-43.
Ufficiale di artiglieria nel 1873, tenente nel 1876, Robilant fu nominato capitano il 18 settembre 1882. Entrato alla Scuola di Guerra optò quindi per lo stato maggiore, scelta pressoché obbligata per chi ambiva a una carriera prestigiosa. Le grandi unità, divisioni e corpi d’armata, prevedevano una presenza prevalente della fanteria e di conseguenza richiedevano la competenza nel suo impiego, o – in alternativa – appunto il servizio nello stato maggiore. Da maggiore Robilant fu destinato all’ambasciata d’Italia a Berlino quale addetto militare, compito che svolse dal dicembre del 1885 al maggio del 1890. Furono anni importanti per il riordino e la riorganizzazione dell’esercito del neonato Impero tedesco, nuovo modello di riferimento anche per l’esercito italiano. Nell’aprile del 1890 Robilant venne assegnato al 10° reggimento bersaglieri per il previsto periodo di comando in un’arma diversa da quella di provenienza e il 3 dicembre 1891 divenne aiutante di campo onorario della Casa militare del re. Il 7 marzo 1895 fu promosso tenente colonnello e rientrò nel corpo di stato maggiore, prestando servizio nella divisione militare di Bologna, appunto quale capo di stato maggiore.
Si era nel frattempo sposato con una nobile, Margherita Francesetti di Hautecour, con la quale ebbe quattro figlie: Irene, Gabriella, Margherita e Maria Luisa.
Colonnello nel febbraio di tre anni dopo, venne destinato al comando del 68° reggimento fanteria della brigata Palermo, dislocata in Italia settentrionale. Vi rimase comunque molto poco, per tornare quindi nel corpo di provenienza durante lo stesso anno. Promosso maggior generale in prima valutazione nel novembre del 1903, non ancora cinquantenne, venne destinato al comando della brigata Basilicata, a Roma. Nell’aprile del 1908 venne messo alle dipendenze del ministero degli Affari esteri che, nell’ambito dei rapporti ancora buoni dell’Italia con la Sublime Porta, lo destinò a Istanbul con l’incarico, non certo facile, di riordinare la gendarmeria turca in Macedonia.
Durante tale ufficio venne raggiunto, il 31 marzo 1910, dalla promozione a tenente generale. Al suo rientro in patria, l’anno seguente, lo attendeva il comando di divisione, inizialmente di quella di Piacenza e, nel 1914, di quella di Torino. Alla fine dello stesso anno gli venne riconosciuta l’idoneità all’incarico superiore e gli fu affidato il comando del XII corpo d’armata. Nella primavera del 1915 ottenne il trasferimento al comando del IV corpo d’armata, destinato a operare nell’ambito della 2ª armata, nella zona dell’Alto Isonzo. Fino a quel momento la mancata partecipazione a operazioni militari gli aveva impedito di ottenere medaglie o croci dell’Ordine militare di Savoia (OMS). Entrando nel conflitto poteva vantare la qualifica di grande ufficiale dell’Ordine della Corona (nel dicembre del 1915 sarebbe arrivato il gran cordone) e la commenda dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro (9 gennaio 1913).
Al comando del IV corpo d’armata Robilant rimase fino al 27 settembre 1915, facendo segnare successi importanti, quali la conquista del Monte Nero a opera delle truppe del generale Donato Etna, che trovò ampia eco anche nelle pagine della stampa austriaca, e insuccessi poco meno clamorosi. Tra questi ultimi quello della divisione speciale bersaglieri che, sul Ravelnik e nella conca di Plezzo, vide presto e sanguinosamente infranto ogni sogno offensivo. Anche in questo caso la propaganda austriaca si impadronì del fatto d’armi, realizzando una serie di cartoline in cui veniva ridimensionato il mito dei bersaglieri italiani quali truppe d’élite rispetto alla fanteria di linea austriaca. Il suo periodo di comando al IV corpo d’armata venne peraltro valutato molto positivamente dal generale Luigi Cadorna.
Il collega Alberto Cavaciocchi, che doveva assumere il comando della grande unità alla fine della campagna estiva del 1915 ne tracciò invece un giudizio a tinte fosche. A suo parere, infatti, Robilant si era segnalato soprattutto per la notevole pigrizia, che lo teneva lontano dalle proprie linee di combattimento. A ciò egli aggiungeva una scarsa volontà di conoscere i suoi sottoposti e di valorizzarne le qualità, nonché l’abitudine alla buona tavola. La sua mensa era diventata famosa per il numero e l’abbondanza delle portate, e per un uso generoso del vino e degli alcolici. Tuttavia, soprattutto all’inizio del conflitto, egli poté valersi, quale capo di stato maggiore della sua unità, di un altro ufficiale dalla pignoleria e dalla precisione maniacali come il colonnello Gaetano Giardino, al quale poteva affidare con assoluta fiducia la traduzione pratica della propria azione di comando.
Esonerato il generale Luigi Nava, l’11 novembre 1915 Robilant venne trasferito al comando della 4ª armata che guidò poi fino al 27 febbraio 1918. L’armata del Cadore aveva in realtà già esaurito tanto la sua spinta offensiva, quanto il compito strategico di raggiungere la Val Pusteria e di impadronirsi della ferrovia che univa il Trentino al fronte dell’Isonzo. Nel lungo periodo di comando, in cui si valse nuovamente dell’opera di capi di stato maggiore di rilievo, da Oreste Bandini a Giuseppe Pennella, da Alfredo Taranto a Francesco S. Grazioli, egli mise a segno un’altra serie di successi tattici: la conquista del Col di Lana, quella del Passo della Sentinella nelle Dolomiti di Sesto fra tutti. Confermò d’altro canto – secondo il giudizio di Grazioli – la calma nell’esercitare il comando e la poca propensione a lasciarne la sede per visitare le linee, supplita da una notevole competenza nel valutarle con il solo ausilio della carta topografica. Ne ricavò la commenda dell’OMS (regio decreto del 28 dicembre 1916), motu proprio del re, per le alte qualità dimostrate nel comando. Il 23 febbraio 1917 ricevette la nomina a senatore del Regno ed entrò a far parte del gruppo liberale democratico (poi Unione democratica).
Nel settembre del 1917 diresse l’inchiesta per i fatti di Carzano, il mancato sfondamento della Val Sugana che doveva seguire alla concordata diserzione del tenente sloveno Ljudvik Pivko e avrebbe potuto cambiare realmente la storia del conflitto. Al momento della ritirata da Caporetto venne minacciato addirittura di fucilazione da Cadorna per il ritardo con cui fece ripiegare la sua armata dal Cadore, rischiando di essere tagliato fuori dagli austro-tedeschi. In realtà, Robilant era convinto di poter utilizzare le forze pressoché intatte della sua grande unità, protette dalle opere della cosiddetta fortezza Cadore-Maè, per agire autonomamente sul fianco destro delle colonne austro-tedesche che avanzavano verso il Piave. Anche se frustrato in questo suo intento, la cui fattibilità appariva quanto meno dubbia, egli era convinto toccasse comunque a lui, per anzianità e meriti di servizio, sostituire Cadorna alla guida dell’esercito. Non accettò quindi molto di buon grado la nomina di Armando Diaz. In una delle fasi di riordino più difficili dell’intera storia delle forze armate italiane, difese peraltro con abilità il Grappa e il Montello nel corso della cosiddetta battaglia d’arresto, sventando gli sforzi di raggiungere la pianura e di varcare il Piave del I corpo d’armata austro-ungarico del generale Alfred Kraus e delle migliori divisioni germaniche della 14ª armata.
Il 1° marzo 1918, lasciata la 4ª al collega Paolo Morrone, venne messo al comando della 5ª armata, che si andava costituendo e organizzando con i reparti della ex 2ª armata, dove rimase fino al 15 aprile 1918. Sostituì quindi il 16 aprile Cadorna al comitato militare interalleato di Versailles, una volta che quest’ultimo venne richiamato in Italia per rispondere del suo operato davanti alla commissione di inchiesta su Caporetto. Rientrato in Italia a conflitto ultimato, assunse nel 1919 il comando della ex 9ª, allora 8ª armata, da cui dipendevano i reparti che defezionarono per condurre a termine l’impresa fiumana. Il 13 settembre 1919 diede l’ordine al generale Asclepia Gandolfo di tirare con l’artiglieria su Fiume, ma prima che l’ordine fosse eseguito venne sostituito da Pietro Badoglio, che lo annullò in via definitiva. Sempre per i fatti di Fiume fu oggetto di severe critiche; lo si accusò di eccessiva arrendevolezza nei confronti dei francesi e degli inglesi nella commissione interalleata nominata in quell’occasione. Nell’ottobre dello stesso 1919 assunse il comando del corpo d’armata territoriale di Torino e il mese dopo lasciò – su sua richiesta – il servizio, dopo che gli era stata negata la promozione a generale d’esercito. Gli era stato riconosciuto nel frattempo il titolo di cavaliere di gran croce (regio decreto del 24 maggio 1919) dell’Ordine militare di Savoia per la difesa del Grappa e il servizio reso all’Italia nel comitato interalleato a Parigi; per quest’ultimo ufficio aveva già ricevuto (regio decreto del 21 dicembre 1918) la croce di grand’ufficiale dello stesso Ordine.
In Senato entrò a far parte di diverse commissioni: nel 1923 di quella per la costituzione del Parco nazionale d’Abruzzo; nel giugno del 1927 della commissione per la revisione della leva marittima; in due riprese, dal 1929 al 1934 e dal 1934 al 1939, della commissione per il giudizio dell’Alta Corte; infine, dal 1939 al luglio del 1943 di quella per gli affari dell’Africa Italiana, dove operò fin quasi alla morte. Con regio decreto del 1° dicembre 1937 gli venne riconosciuto il titolo di nobile dei conti di Robilant e signore di Cereaglio. Nell’ambito del riordino dei gradi dell’esercito gli fu infine riconosciuto nel 1925 il grado di generale d’armata nella riserva. Entrato a far parte del Consiglio supremo dell’Esercito, fu il solo a difendere il progetto di riforma di Antonino Di Giorgio, che sosteneva la necessità di un esercito dalle forze numericamente ridotte, ma dall’alta efficienza tecnica.
Morì a Roma il 23 luglio 1943.
Fonti e Bibl.: Mario Nicolis di Robilant, a differenza di altri colleghi, non ha lasciato opere a stampa sul conflitto mondiale e non è stato oggetto di una biografia critica condotta con criteri moderni. La sua stessa vicenda militare, che lo escluse dalla vittoria finale, contribuì a far calare rapidamente il silenzio sul suo operato, tutt’altro che trascurabile, durante la guerra. Per il periodo 1915-17 è inevitabile quindi il rimando alle opere di carattere generale edite dall’Ufficio storico: Riassunti storici dei corpi e dei comandi nella guerra 1915-18, I-VIII, Roma 1924-1931; Le grandi unità nella guerra italo-austriaca 1915-1918, Roma 1926, ad ind.; L’esercito italiano nella guerra italo-austriaca, Roma 1927. Fra le testimonianze dei contemporanei risultano fondamentali, se pur viziate da una scoperta vena polemica, quella del generale Francesco Saverio Grazioli in L.E. Longo, Profili di capi militari tratteggiati da uno di loro, Roma 1996, pp. 533-572 (in partic. pp. 557 s.), nonché le annotazioni di Alberto Cavaciocchi conservate nel fondo omonimo del Museo del Risorgimento di Milano, su cui si veda G. Rochat, Cavaciocchi Alberto, in Dizionario biografico degli Italiani, XXII, Roma 1979, pp. 551-553. In particolare, per quanto riguarda la battaglia d’arresto, si rimanda a M. Beccherle - P. Pozzato, Quell’ultimo monte. La prima difesa del Grappa e Bassano 1915/1917, Bassano 2002, ad ind.; Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale I senatori d’Italia, II, Senatori dell’Italia liberale, sub voce, http://notes9.senato.it/Web/ senregno.nsf/N_l2?OpenPage (1° novembre 2016).