SANUDO (Sanuto), Marino (Marin) il Giovane
SANUDO (Sanuto), Marino (Marin) il Giovane. – Nacque a Venezia il 22 maggio 1466 dal terzo matrimonio di Leonardo di Marino Sanudo, del ramo di S. Giacomo dell’Orio, con Letizia di Pellegrino Venier (I Diarii, 1496-1533, a cura di R. Fulin, 1897-1903, II, col. 742).
Apparteneva all’antico ceppo patrizio dei Candiani-Sanudo, protagonista della storia veneziana fin dalle origini e capace di esprimere cinque dogi tra il IX e il X secolo. Il padre di Marino, Leonardo (1426-1474), nipote del doge Cristoforo Moro e socio in diverse compagnie mercantili, ebbe una carriera politico-funzionariale di medio livello (ad esempio visdomino a Ferrara, 1458-59; tesoriere dogale, 1462). Uomo di buona cultura e in corrispondenza con vari umanisti possedette una biblioteca di testi classici, filosofici e teologici. Nominato ambasciatore presso la Curia papale per conto del governo veneziano il 10 agosto 1474, morì a Roma l’11 ottobre dello stesso anno (Archivio di Stato di Venezia, Senato Terra, reg. 7, c. 48r; Le vite dei dogi (1423-1474), a cura di A. Caracciolo Aricò, 2002-2004, p. 217).
Alla morte del padre, Sanudo aveva otto anni e la sorella Sanuta poco meno. Leonardo, il fratello minore, era invece ancora in grembo alla madre e sarebbe nato nel 1475. Restarono orfani, ma già adulti, anche i figli nati dal precedente matrimonio di Leonardo: Alvise, Antonio, Elena e Maria. Il più anziano di questi ultimi, Alvise, amministrò le sostanze di famiglia, ma la sua cattiva gestione condusse i fratelli sull’orlo del disastro. Quando Alvise salpò precipitosamente per la Siria, nel 1480, il giovanissimo Sanudo, temendo il tracollo e la messa all’incanto del palazzo di famiglia, si appellò allo zio Francesco Sanudo, patrizio assai in vista e con alle spalle un cursus honorum di straordinaria qualità. Interponendo la propria influenza, Francesco Sanudo riuscì a tutelare gli interessi del nipote, che ebbe salva la dimora avita e poté vedersi garantita una modesta, ma sufficiente sostanza.
Durante la giovinezza Sanudo soggiornò a tratti a Sanguinetto, castello nel territorio veronese della cui giurisdizione era investita per un terzo la famiglia della madre, il casato veneziano dei Venier. Vi dimorò nel 1476 e nel 1478-79, durante l’epidemia di peste scoppiata a Venezia, mentre nel 1479-80 si trattenne a Padova, dove lo zio Francesco era in carica come capitano.
Nel frattempo Sanudo aveva acquisito un’ottima formazione umanistica. Frequentò in Venezia la Scuola della Cancelleria di S. Marco, negli anni in cui vi insegnava l’umanista Giorgio Merula, ma sarebbe inoltre stato allievo, a Sanguinetto, del non meglio precisato ecclesiastico Nicolò da Legnago (o da Legname) e, nuovamente a Venezia, di Macario Muzio da Camerino. Ancora giovanissimo, ebbe contatti con un sorprendente numero di umanisti, da Marcantonio Coccio (Sabellico), a Niccolò da Lonigo (Leoniceno) al già citato Merula, che ne elogiarono l’intelligenza, la preparazione e l’eloquenza (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat., XIV.267 [=4344]).
Le prime esperienze letterario-erudite di Sanudo rimasero nel solco della sua formazione umanistica. Nel 1481 egli compose i Memorabilia deorum dearumque, un breve trattato di argomento mitologico, con richiami espliciti alle Genealogie deorum gentilium di Giovanni Boccaccio, dedicato allo zio Francesco e al patrizio Leone Michiel (Lat., X.289 [=3855]). D’ispirazione classica fu anche la seconda prova letteraria, una dissertazione sul dodicesimo libro delle Metamorfosi di Ovidio (Praelectio in Lib. XII Ovidii Metamorphoxeos), che egli lesse pubblicamente a Venezia, il 27 dicembre 1481, nell’accademia del suo maestro Macario da Camerino (Lat., XIV.267 [=4344]).
Il giovanissimo Sanudo coltivò anche interessi epigrafici. Prima del 1483, infatti, doveva essere almeno in fase di avanzata stesura il suo De antiquitatibus et epitaphiis, un’articolata silloge di epigrafi d’età antica e moderna della quale sopravvive un ampio frammento (Verona, Biblioteca civica, Mss., 2006).
Se prima del 1484 Sanudo trascrisse una lettera di Francesco Petrarca, uno tra i molti elementi che testimoniano un suo già giovanile interesse per la letteratura in volgare (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat., XIV.267 [=4344], c. 49v), egli iniziò assai presto a confrontarsi con l’erudizione storica. Tra i materiali documentari che raccolse e copiò di proprio pugno nel corso della vita, se ne possono infatti riconoscere taluni di età giovanile, come una raccolta di notabilia (riferibili al periodo 1341-84) desunti dal Notatorio di Collegio e un elenco degli ordini religiosi esistenti in Venezia nel 1375 (probabilmente anch’esso ricopiato dal Notatorio; Lat., X.350 [=3708]).
Dal punto di vista della scrittura storica, per Sanudo furono densi e fecondi gli anni della guerra di Ferrara (1481-84). Dopo la morte (1482) della figura di riferimento del giovane Marino, lo zio Francesco, il figlio di quest’ultimo, Marco, nel 1483 venne nominato Sindico inquisitore di Terraferma, una magistratura collegiale incaricata di percorrere il domino veneziano per svolgervi una complessa inchiesta amministrativo-fiscale. Marco Sanudo invitò il diciassettenne cugino Marino ad aggregarsi alla spedizione. Tra il 15 aprile e il 3 ottobre 1483, pertanto, Sanudo, a seguito dei Sindici inquisitori, visitò l’intera Terraferma, da Bergamo all’Istria. Il lungo tragitto gli suggerì la scrittura di un articolato resoconto in volgare del proprio viaggio l’Itinerarium Marini Sanuti Leonardi filii patricii veneti cum syndicis Terre firme (Itinerario..., a cura di G.M. Varanini, 2014).
Di quest’opera, la prima di una certa consistenza dovuta a Sanudo, si conoscono due redazioni. La prima è il testo vergato da Sanudo subito dopo il rientro a Venezia, tra la fine del 1483 e il 1484 (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It., VI.277 [=5806]). L’impianto è ‘cronistico’, con il ricorso a una prima persona plurale che descrive passo passo lo svolgersi dell’itinerario. La seconda redazione (Padova, Biblioteca universitaria, Mss., 996), probabilmente risalente agli anni Novanta, è un testo più elaborato, sfrondato dalle coloriture cronistiche e impostato secondo un taglio geografico e descrittivo più organico, assai conforme al modello cui Sanudo cercò di ispirarsi, l’Italia illustrata di Biondo Flavio (1474). Dell’Itinerarium sanudiano colpiscono lo spirito di acuta osservazione, la marcata propensione al realismo, la consapevolezza geografica e la capacità di cogliere le dinamiche sociali ed economiche dei luoghi visitati.
A un anno dal rientro, Sanudo portò a termine il suo primo vero e proprio cimento cronachistico: i Commentarii della guerra di Ferrara (Commentarii, 1829). Il 7 ottobre 1484, infatti, egli sottopose l’opera all’umanista Zaccaria Barbaro (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It., VII.521 [=7885], c. 1r). Scritti in volgare (ma l’autore dichiara di averne realizzato anche una versione latina) i Commentarii, dedicati al doge Giovanni Mocenigo, sono ricchi di informazioni circa la guerra tra Venezia e gli Estensi; tuttavia, limitandosi a una giustapposizione di notizie, mancano di un’esaustiva inquadratura politica così come di considerazioni storiche d’ampio respiro.
Pochi giorni dopo aver spedito i Commentarii a Zaccaria Barbaro, il 23 ottobre 1484, all’età di 18 anni, Marino Sanudo venne presentato agli Avogadori di Comun dalla madre Letizia Venier, con le testimonianze giurate del cugino Angelo Sanudo e di Leonardo Lombardo, per l’accertamento del possesso dei titoli anagrafici e familiari per accedere al Maggior Consiglio, il primo passo per l’ingresso nella carriera politica veneziana (Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, Balla d’oro, reg. 164-III, c. 315v). Iscritto così nel registro della Balla d’oro, due anni più tardi Sanudo ebbe accesso a una delle cariche pubbliche che segnavano l’inizio del cursus honorum dei giovani patrizi. Fu infatti prima avvocato nella Curia di Petizion (1486) e quindi avvocato per tutte le Curie (1487), incarichi che non si traducevano in concrete funzioni, ma che permettevano di prender parte anzitempo alle assemblee del Maggior Consiglio (De origine..., a cura di A. Caracciolo Aricò, 2011, p. 145; Archivio di Stato di Venezia, Segretario alle Voci, reg. 6, c. 124r).
La presenza in Maggior Consiglio dovette migliorare in Sanudo la conoscenza dei meccanismi istituzionali veneziani necessaria alla stesura del suo De origine, situ et magistratibus urbis venetae. Sebbene nel 1484 desse per conclusa quest’opera, egli continuò a lavorarci fino al 1493, quando dedicò al doge Agostino Barbarigo una versione rifinita del testo, poi ulteriormente rivisto, accresciuto e aggiustato fino al 1530.
Il De origine si compone di una dissertazione sull’origine di Venezia, di una descrizione della città comprensiva di esaurienti elenchi (dalle casate patrizie ai pesci venduti al mercato) e di un riuscitissimo quadro delle magistrature veneziane. Il trattato, ripreso e utilizzato da molti autori successivi, non è una guida encomiastica della città, ma un esame della vita cittadina attento alla società, al costume, all’economia e all’imponente macchina amministrativa della Repubblica.
Nel 1493 Sanudo aveva già intrapreso la scrittura delle Vitae ducum Venetorum, opera storica in senso proprio che nel 1495, in una lettera al cognato Giovanni Malipiero, sostenne di aver concluso (Berchet, 1903, p. 39), ma sulla quale tornò ripetutamente sino al 1530 (Le vite dei dogi (1474-1494), a cura di A. Caracciolo Aricò, 1989-2001). Nelle Vitae ducum e nei numerosi materiali preparatori, egli diede prova di un consapevole metodo storico, utilizzando fonti d’archivio (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat., X.291 [=3334]) e ricorrendo all’intero corpus cronachistico veneziano.
Le Vitae ducum, opera organica e omogenea in volgare veneziano, sono una ponderosa storia di Venezia disposta secondo il succedersi dei dogi, dalle origini al 1494, in cui Sanudo inglobò il racconto della storia arcaica di Venezia, traendolo dal De origine, e la trattazione della guerra di Ferrara, riprendendola dai Commentarii. La sezione più incisiva dell’opera è quella relativa al XV secolo, nella quale Sanudo poté esprimersi su questioni e vicende di cui ebbe cognizione articolata e documentata.
La disinvoltura e la puntualità con cui Sanudo descriveva e documentava la propria contemporaneità uscirono confermate da La spedizione di Carlo VIII in Italia, opera di stringente attualità e in ideale continuità con le Vitae ducum, cui Sanudo pose mano, confrontandosi con la discesa in Italia del re di Francia, tra il 1494 e il 1495 (La spedizione di Carlo VIII, a cura di R. Fulin, 1883). Predilesse fonti di prima mano (relazioni di ambasciatori e scritture di governo, resoconti orali e testi a stampa), ma cercò di raccogliere informazioni anche di persona: nel 1494 accompagnò a Milano l’oratore veneziano Girolamo Zorzi e nell’agosto 1495 volle recarsi a Novara, dove il duca d’Orléans era assediato dalle truppe della Lega santa. Tuttavia, ammalatosi, desistette dal viaggio e si dedicò alla revisione e alla trascrizione del suo testo, che dichiarò ultimato il 31 dicembre 1495.
Inquadrò egregiamente sia la personalità e l’azione di Carlo VIII sia il contesto politico italiano ed europeo, usò il volgare veneziano con dichiarati intenti divulgativi e tentò di raggruppare coerentemente le informazioni. Non riuscì però a trasformare la registrazione di avvenimenti in una trattazione organica. Per il suo carattere ‘incompiuto’ La spedizione di Carlo VIII non fu dunque opera fortunata. Lodata da Aldo Manuzio, che tuttavia ne rifiutò la pubblicazione, nel 1546 era a tal punto dimenticata che Marco Guazzo, con un’appropriazione che passò inosservata fino all’Ottocento, poté darla alle stampe spacciandola per propria.
Di fatto senza mai interrompere la scrittura cronachistica, ultimata La spedizione di Carlo VIII Sanudo intraprese nel 1496 la stesura dei Diarii, impresa monumentale che lo accompagnò fino al 1533 e che si tradusse in 58 volumi di complessive 40.000 carte manoscritte. La rigorosa e continuativa registrazione dei fatti giorno per giorno fu inizialmente pensata da Sanudo in vista della successiva stesura di una grande storia di Venezia (I Diarii, cit., I, col. 6), in seguito, tuttavia, mai realizzata. Il punto di osservazione di Sanudo fu sempre Venezia, ma il suo sguardo, grazie al fiume di notizie che raggiungeva la città e alla centralità della Repubblica nelle vicende internazionali del tempo, si allargò sistematicamente all’Italia, all’Europa e al Mediterraneo.
Profondendovi un enorme sforzo, materiale e intellettuale, e attingendo a un vastissimo panorama di fonti, Sanudo raccolse nei Diarii un’immensa quantità di materiali, con una sensibilità storica per certi versi moderna, spaziando dai grandi ai piccoli eventi, dalla politica estera alle vicissitudini quotidiane, dai dibattiti di governo agli episodi di cronaca giudiziaria, dai fatti di costume alle cerimonie religiose, dai prezzi di mercato allo oscillazioni monetarie. L’enorme raccolta fu ispirata da una consapevole sistematicità, da un’osservazione del reale senza preclusioni di scala, dallo scrupolo di documentare le proprie asserzioni con fonti attendibili, dalla propensione, al tempo stesso etica e intellettuale, alla ricerca della precisione e, infine, da una singolare capacità di discernere e intuire, su scala locale, europea e mediterranea, circostanze dense di sviluppi e implicazioni. Marino Sanudo restituì in tal modo un quadro della Venezia (e del mondo) del suo tempo di ineguagliabile vividezza, accentuata peraltro dalla scelta linguistica di un ‘materico’ volgare veneziano.
Due anni dopo aver principiato I Diarii Sanudo iniziò la propria carriera nelle cariche pubbliche. Nel marzo del 1498 venne eletto signor di Notte per il sestiere di S. Croce, incarico ben remunerato e con compiti di giurisdizione criminale (Archivio di Stato di Venezia, Segretario alle Voci, reg. 6, c. 129v). Negli anni seguenti, tuttavia, non riuscì a costruirsi che una carriera politica di profilo molto basso. Per sette volte fu savio agli Ordini, magistratura semestrale che dava accesso al Collegio, uno dei massimi organi dello Stato veneziano, ma tutt’altro che ambita in quanto non retribuita (ottobre 1498-marzo 1499; aprile-settembre 1499; aprile-settembre 1500; ottobre 1500-marzo 1501; settembre 1502-marzo 1503; settembre 1503-marzo 1504; aprile-settembre 1510; cfr. I Diarii, cit., II, coll. 1, 537; III, coll. 170, 849; IV, col. 321; V, col. 89; X, col. 56). Tra aprile 1501 e settembre 1502, unico incarico che egli accettò fuori Venezia, Sanudo fu quindi camerlengo a Verona, dove, nonostante un’amministrazione finanziaria non proprio esemplare, strinse rapporti con l’élite politica e culturale veronese (Archivio di Stato di Venezia, Segretario alle Voci, reg. 8, c. 43r). In circa quarant’anni di carriera, infine, Sanudo non riuscì a entrare nel Senato veneziano che sei volte, due in veste di senatore (1516, 1524) e quattro come membro della Zonta (1518, 1520, 1525, 1532; ibid., reg. 9, c. 25r; I Diarii, cit., XXVI, coll. 65, 78; XXIX, col. 218; LV, col. 369; LX, coll. 17, 21).
Marginali furono pure gli incarichi di rappresentanza: tra giugno e ottobre 1496 accompagnò a Vigevano gli oratori veneziani inviati a parlamentare con l’imperatore e nel 1499 accolse a Chioggia gli oratori veneziani al rientro dalla Francia e a Malamocco il cardinal legato Giovanni Borgia (I Diarii, cit., I, col. 304; II, coll. 745, 1276, 1279). Egli si mobilitò attivamente nei drammatici frangenti della guerra di Cambrai (1509-17), così riccamente descritta nei Diarii, ma senza incarichi di rilievo (VIII, coll. 484-490; X, coll. 286, 306, 788; XVII, coll. 261-338).
Il modesto percorso politico di Sanudo si accompagnò a continue e numerosissime bocciature. Venne candidato, ma non eletto, oratore a Rimini, avogadore di Comun e auditore novo (1499), provveditore sopra il Regno di Cipro, savio agli Ordini e provveditore agli Imprestiti (1513), membro della Zonta (1515), avogadore di Comun (1516), savio grande, senatore, savio di Terraferma e membro della Zonta (1517), savio di Terraferma e censore (1518), senatore e avogadore di Comun (1519), senatore (1520), provveditore alle Biade e savio di Terraferma nel 1522 (II, coll. 1173, 1296, 1362; XVII, coll. 357, 428, 438; XIX, col. 157; XXII, col. 65; XXIV, coll. 128, 677, 704, 705; XXV, col. 616; XXVI, col. 40; XXVII, coll. 320, 688; XXVIII, col. 304; XXXII, coll. 305, 415). Dopo un temporaneo ritiro dalla vita pubblica (1522-24), le sconfitte istituzionali di Sanudo si infittirono in modo impressionante nell’ultimo decennio di vita.
Le ragioni di questa frustrante catena di insuccessi furono molte. Le premature morti del padre (1474) e dello zio Francesco (1482) lo privarono del principale appoggio necessario alla carriera politica, quello familiare; carenza aggravata dai contrasti con i fratelli e, forse anche, da insinuazioni sul conto dei suoi costumi sessuali. Furono soprattutto incisivi, tuttavia, da un lato la sua focosa e non facile intransigenza politica e il suo esasperato legalismo (gradito ai giovani patrizi più che agli anziani leader del governo veneziano), dall’altro la sua precaria condizione economica, che non gli permise di muoversi con efficacia nei meccanismi clientelari della società patrizia.
Le difficoltà economiche, testimoniate ad esempio dalla modestia dei redditi riportati nella sua condizione di decima del 1516 e da un temporaneo arresto per debiti avvenuto nello stesso anno, accompagnarono il cronista fino alla morte (Archivio di Stato di Venezia, Dieci Savi alle decime in Rialto, Condizioni di Decima, Redecima 1514, b. 33, S. Giacomo dell’Orio, nn. 56, 67; I Diarii, cit., XXIII, col. 343). Le finanze di Sanudo avevano avuto modo di risollevarsi in occasione del tardivo matrimonio contratto il 15 febbraio 1505 con la patrizia Cecilia di Costantino Priuli, vedova di Girolamo Barbarigo, la quale portò in dote 5500 ducati (VI, col. 132). Il matrimonio, a seguito del quale insorsero tra i Sanudo aspri diverbi, culminati nella divisione del palazzo di famiglia a S. Giacomo dell’Orio, durò pochi anni (Cecilia Priuli morì infatti nel 1508) e non generò discendenza (Berchet, 1903, pp. 50-52). Sanudo, tuttavia, aveva due figlie illegittime, Candiana e Bianca, che andarono in moglie rispettivamente a Zuan Morello (1530) e al medico Angelo Grataruol (1533; I Diarii, cit., LIII, col. 201; LVIII, col. 495).
Tra delusioni politiche, difficoltà economiche e contrasti familiari, Sanudo considerò l’erudizione storica e l’impegno diaristico come una missione e come un altissimo contributo alla vita pubblica. Continuò pertanto a scrivere e a studiare con costanza e sistematicità: la compilazione quotidiana dei Diarii fino al 1533; le integrazioni alle Vitae ducum fino al 1530; la riscrittura nel 1515 della sezione dedicata alle magistrature nel De origine; la composizione di una breve Descriptione de la Patria de Friul nel 1502-03, forse esito di un breve viaggio nell’area; il Sumario di storia veneziana ricavato nel 1503 dalla Cronaca di Pietro Dolfin (Caracciolo Aricò, 1989, pp. XXIX s.); il compendio dei rapporti tra Venezia e altri Stati, noto come Repertorio e probabilmente desunto dalla Corona Venetorum di Matteo da Corato nel 1522-24 (Berchet, 1903, p. 82).
Come testimoniano gli eterogenei materiali autografi, lo studio e la scrittura di Sanudo si dispiegarono anche in direzioni diverse da quella storico-diaristica. Compose rime e annotò poesie di autori quali Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Dante, Petrarca, Pomponio Leto, Pietro Aretino, Pietro Bembo (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It., IX.363 [=7386], 364 [=7167], 365 [=7168], 369 [=7203]). Manifestò interesse per la letteratura teatrale, traducendo Plauto e Terenzio e redigendo un elenco delle commedie ai suoi tempi in voga. Coltivò la letteratura classica, tant’è che nel 1502 Aldo Manuzio gli dedicò le proprie edizioni delle Metamorfosi e delle Eroidi di Ovidio. Ebbe attenzione per la letteratura cavalleresca. Non disprezzò la filosofia, frequentando a Venezia le lezioni di filosofia, teologia e umanità di Sebastiano Foscarini, Alessandro Corner e Stefano Plazon (I Diarii, cit., XL, col. 763; XLVI, col. 283; LIV, col. 168).
Nella scia dei suoi magmatici interessi, Sanudo investì notevoli risorse nella costruzione di una straordinaria biblioteca privata, che nel 1516 era composta da 2800 volumi e nel 1536 addirittura da 6500. Vi raccolse sì libri manoscritti (taluni rarissimi) e a stampa, ma anche dipinti e disegni dei costumi delle genti europee e del mondo, carte geografiche, portolani, un prezioso mappamondo, iscrizioni antiche. La fama della biblioteca sanudiana, che Aldo Manuzio definì nel 1498 (nella sua edizione dell’Opera omnia di Poliziano, dedicata proprio a Sanudo) «librorum omnis generis refertissima bibliotheca», valicò i confini della Repubblica Veneta, attraendo le lodi dei dotti che la visitarono come una delle meraviglie veneziane.
Nonostante il prestigio culturale e l’indefesso impegno, Sanudo, i cui lavori non godettero peraltro di alcun riscontro editoriale, ebbe scarsissimi riconoscimenti dal governo veneziano. Le sue aspirazioni vennero infatti sistematicamente frustrate. Quando nel 1506 morì l’umanista Marcantonio Sabellico, storiografo ufficiale della Repubblica dal 1483 e autore di un’opera mediocre ma di larghi consensi (Rerum venetarum ab urbe condita libri XXXIII), Sanudo ambì a subentrare nell’incarico. La preferenza, tuttavia, fu accordata dalla Repubblica all’umanista Andrea Navagero. Alla morte di Navagero, nel 1529, l’ormai anziano Sanudo fu ancora messo da parte: come nuovo pubblico storiografo venne infatti scelto il cardinale Pietro Bembo. Il celebre umanista, tra agosto e settembre del 1531, scrisse al doge Andrea Gritti e al Consiglio dei dieci per chiedere che Sanudo gli mettesse a disposizione i Diarii, onde facilitargli la stesura della storia di Venezia. Messo al corrente della richiesta, Sanudo scrisse ai capi del Consiglio dei dieci, ripercorrendo con orgoglio e accenti polemici la sua lunga e non riconosciuta attività di storico e cronista e ricordando inoltre la propria indigenza economica; a ogni modo mise infine le proprie opere a disposizione di Bembo. Come una sorta di contropartita, il 19 settembre 1531 ebbe l’incarico ufficiale di diarista della Repubblica, il libero accesso agli atti del Consiglio dei dieci e un vitalizio di 150 ducati all’anno.
Due anni più tardi, il 4 settembre 1533, Sanudo redasse il proprio ultimo testamento (Berchet, 1903, pp. 101-107). Dalle sue ultime volontà escono confermati l’indigenza e i debiti, che lo costringevano talora a ricorrere alla generosità dei parenti, le fatiche dell’indefessa attività scrittoria, i rammarichi per il poco riconoscimento avuto dal governo veneziano, l’orgoglio di aver comunque lavorato per i posteri e la cura con cui dispose delle proprie opere e della biblioteca. Ad appena 26 giorni dal testamento, il 30 settembre 1533 interruppe ex abrupto la redazione dei Diarii, dopo 37 anni di minuziose registrazioni. Il 9 febbraio 1536 l’anziano diarista aggiustò il testamento del 1533 con un codicillo, con il quale revocò le disposizioni in materia della propria biblioteca. Nei tre anni appena trascorsi, infatti, per soddisfare i creditori era stato costretto a svendere gran parte dei propri libri (Berchet, 1903, pp. 108 s.).
Morì due mesi più tardi, a Venezia, il 4 aprile 1536. Si ignora il luogo in cui il suo corpo venne sepolto (forse nella chiesa di S. Zaccaria o in quella di S. Francesco della Vigna), così come se sul suo sepolcro sia stato effettivamente apposto l’epitaffio che egli stesso aveva composto, nel quale si definiva «rerum antiquarum indagator».
Opere inedite. Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It., VII.157 (=7771): Sumario di chronica di Veniexia; VII.158 (=8183): Repertorio di cronaca veneziana; Lat., X.289 (=3855): Memorabilia deorum dearumque; X.350 (=3708): Notabilia saeculorum XIV et XV ex Notatoriis Venetis per Marinum Sanutum Iuniorem; XIV.267 (=4344): Praelectio in Lib. XII Ovidii Metamorphoxeos; Verona, Biblioteca civica, Mss., 2006: De antiquitatibus et epitaphiis.
Opere edite. Commentarii della guerra di Ferrara tra li Viniziani ed il Duca Ercole d’Este, a cura di P. Bettio, Venezia 1829; Itinerario di Marin Sanudo per la Terraferma veneziana nell’anno MCCCCLXXXIII, a cura di R. Brown, Padova 1847; Descrizione della Patria del Friuli di M. S. fatta l’anno MDII-MDIII, a cura di L. Marin, Venezia 1853; La spedizione di Carlo VIII, a cura di R. Fulin, Venezia 1883 (già editata, a cura di R. Folin. in Archivio veneto, 1873); I Diarii (1496-1533), a cura di R. Fulin et al., I-LVIII, Venezia, 1897-1903; Le vite dei dogi (1474-1494), a cura di A. Caracciolo Aricò, I-II, Padova 1989-2001; Le vite dei dogi (1423-1474), a cura di A. Caracciolo Aricò, I-II, Venezia 2002-2004; De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di A. Caracciolo Aricò, Venezia 2011; Itinerario per la Terraferma veneziana, a cura di G.M. Varanini, Roma 2014.
Materiali preparatori, autografi e miscellanee varie: Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It., V.37 (=5858); VI.276 (=8398), 277 (=5806), 278 (=5882); VII.375 (=8954), 520 (=7280), 521 (=7885), 760 (=8582), 761 (=7959), 762 (=7668), 763 (=7960); IX.363 (=7386), 364 (=7167), 365 (=7168), 366 (=6490), 368 (=7170), 369 (=7203); Lat., IV.113 (=2792); V.103 (2391); IX.46 (=3050), 178 (=3163); X.290 (=3800), 291 (=3334); XII.209 (=3984), 210 (=4689), 211 (=4179); XIV.245 (=4682), 246 (=4683), 252 (=4718), 253 (=4575), 260 (=4258), 265-66 (=4501-02).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Senato Terra, reg. 7, c. 48r; Avogaria di Comun, Balla d’oro, reg. 164-III, c. 315v; Segretario alle Voci, regg. 6, cc. 124r, 129v; 8, c. 43r; 9, c. 25r; Dieci Savi alle decime in Rialto, Condizioni di Decima, Redecima 1514, b. 33, S. Giacomo dell’Orio, nn. 56, 67.
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