GRIMANI, Marino
Nacque a Venezia, il 1° giugno 1532, dal futuro cavaliere e procuratore Girolamo di Marino, del ramo a S. Luca, e da Donata Pisani di Ermolao "dal banco", ricchissimo mercante e banchiere che operava con i Fugger.
Anche i Grimani erano all'apice del prestigio e della ricchezza (il grande palazzo a S. Luca è opera di M. Sanmicheli), dal momento che l'omonimo nonno del G., Marino, era stato primo cugino del doge Antonio, e Girolamo era l'unico dei suoi figli che avesse avuto discendenza: il primogenito G., appunto, e il fratello Ermolao (Almorò), di un anno più giovane.
I due fratelli si sposarono lo stesso giorno, il 27 nov. 1560, con due sorelle: il G. con Morosina Morosini di Andrea di Pietro, e Almorò con Angela; sarebbe stata questa seconda coppia ad avere figli maschi, mentre Morosina avrebbe dato al G. quattro femmine: Beatrice, monaca a S. Chiara di Torreselle, a Montagnana, dove la famiglia possedeva ingenti proprietà; Donata, sposata nel 1579 a Francesco Tiepolo; Laura, maritata nel 1582 a Nicolò Corner (fratello del futuro vescovo di Padova, Marco), e Maria, che si sposò tre volte: nel 1593 con Alvise Grimani di Antonio, del ramo a S. Polo, nel 1607 con Nicolò Molin e infine nel 1608 con Lorenzo Giustinian.
Il G. iniziò la carriera politica nel solco della tradizione e nelle forme più prevedibili: appena raggiunta l'età prevista dalla legge, fu eletto savio agli Ordini nel periodo ottobre 1557 - marzo 1558, e poi ancora per il primo semestre del 1559; sennonché a questi brillanti esordi fece seguito una latitanza dalla politica attiva, che doveva protrarsi per quasi un decennio.
Era il padre Girolamo a bloccare l'ascesa dei figli: divenuto procuratore di S. Marco nell'aprile 1560, qualche mese più tardi, come si è detto, egli provvide al loro matrimonio, riservando per sé gli onori della politica; sedette infatti ininterrottamente fra i savi del Consiglio sino alla morte (30 apr. 1570), impedendo in tal modo la presenza dei familiari nel Collegio.
Il nome del G. ricompare nei registri del Segretario alle Voci solo il 2 genn. 1568, ma come titolare di una carica di limitato respiro: provveditore di Comun, che tenne sino al maggio 1569; dopodiché fu nominato fra i venticinque tansadori della città (25 nov. 1570), in conseguenza dello straordinario prelievo fiscale varato per far fronte agli impegni derivanti dal conflitto contro i Turchi, che avevano invaso Cipro.
La scomparsa del genitore rese finalmente libero e ricco il G., che il 23 sett. 1571 poté assumere la podestaria di Brescia: una sede notoriamente dispendiosa, ma che il nuovo rettore - a detta del collega Domenico Priuli - avrebbe sostenuto "con quella splendidezza, et honorificentia, che ricercano le degne qualità sue" (Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, XI, Podestaria e capitanato di Brescia, p. 134).
In effetti, il G. era colto, amante del bello, incline al mecenatismo, di temperamento mite, molto religioso, buon diplomatico: qualità tutte alle quali dovette ricorrere per impedire l'esplodere del malumore che serpeggiava nel ceto dei mercanti bresciani, i quali, pur disponendo talora di cospicui capitali, si erano visti esclusi dalla recente "serrata" del Consiglio cittadino, divenuto monopolio esclusivo dei nobili.
Rimpatriato all'inizio del 1573, il 20 ottobre il G. entrò a far parte - per un anno - dei Dodici deputati sopra le appellazioni dei beni inculti; dopodiché, divise la facoltà col fratello Almorò.
Questi infatti, come si è detto, aveva già un figlio maschio, di nove anni, per cui sapeva di dover gestire il patrimonio con prospettive diverse da quelle del G., che verosimilmente si attendeva dal mondo della politica, e dell'affermazione sociale, le principali gratificazioni. Inoltre, le rispettive mogli, Angela e Morosina, erano rimaste uniche eredi dei beni domestici, essendo morto in giovane età, e senza figli, il loro fratello Pietro. Le due sorelle divisero l'asse patrimoniale il 12 marzo 1575, seguite, qualche giorno dopo (17 marzo) da atto analogo a opera dei loro mariti, Almorò e il G.: troviamo in queste decisioni - frutto di una ponderata strategia familiare - il fondamento della futura ascesa al dogato del G., e delle peculiari doti di mecenatismo e di sfarzo che avrebbero segnato il suo principato. In occasione della redecima del 1582, egli poteva infatti denunciare un'entrata netta di annui ducati 2539, ai quali dovevano aggiungersi i cospicui beni della moglie, il cui nucleo eminente era costituito dal feudo istriano di San Vincenti, presso Dignano.
Su questa base il G. costruì dunque le sue fortune politiche. La famiglia rientrava nel novero delle casate "romane", allora predominanti (qualche anno prima, l'alleanza tra Venezia e la S. Sede era stata decisiva per le sorti della lega cristiana, che aveva registrato il successo di Lepanto); inoltre, il G. aveva dalla sua qualche ulteriore vantaggio: poteva infatti contare su un aspetto gradevole, sapeva esprimersi con vivacità e chiarezza, palesava integri costumi, non disgiunti da uno zelo religioso allineato su posizioni filogesuitiche.
Provveditore sopra i Danari per un anno, dal 20 sett. 1576, e poi ancora dal 2 apr. 1577 al 31 marzo 1578; provveditore sopra i Beni comunali dal 30 nov. 1579 al 24 sett. 1580, in quest'ultimo anno, e ancora nel successivo, fece parte del Consiglio dei dieci (lo sarebbe stato nuovamente, e per l'ultima volta, nel 1583). Fu poi nel novero dei Conservatori delle leggi (dal 22 luglio 1581, per un anno), dopodiché divenne savio del Consiglio, entrando così a far parte della ristretta cerchia che monopolizzava la guida del governo marciano. Avrebbe potuto ottenere già da qualche anno il saviato, ma per sua sfortuna, se il padre l'aveva bloccato sino al 1570, in seguito a contendergli la carica fu un altro Grimani: Alvise di Antonio, del ramo a S. Polo. Con costui, dunque, il G. si alternò nell'assumere il titolo di savio del Consiglio per buona parte del nono decennio del secolo; il G. ricoprì la carica nel periodo aprile-settembre degli anni 1582-85, e poi ancora per il secondo semestre (giugno-dicembre) del 1586. Nei periodi di vacanza assunse altri compiti: provveditore alle Fortezze dall'ottobre 1582 al marzo successivo, il 24 ag. 1584 fu nominato riformatore dello Studio di Padova. Quest'ultima magistratura era biennale e il G. poté conservarla in quanto compatibile con il saviato del Consiglio; l'avrebbe ottenuta una seconda volta, a partire dall'ottobre 1593, a conferma dei suoi riconosciuti interessi artistici e culturali.
Era il periodo che seguiva alla correzione del Consiglio dei dieci, verificatasi nel 1582 e conclusasi con un ridimensionamento - ancorché non risolutivo - dei poteri dell'alto magistrato; il contrasto fra i "giovani" anticurialisti e antispagnoli da una parte, e gli esponenti delle "case vecchie" filoromane dall'altra, entrava nella fase più vivace. Il G. confermò subito il suo perfetto allineamento con i "papalisti", e a tale scelta, da lui coerentemente e puntualmente sostenuta, vanno ricondotti i successi della sua carriera politica.
Era tra i savi del Consiglio quando, nel luglio 1584, dovette trattare - in unione al savio di Terraferma, Francesco Barbaro - il non facile componimento con l'incaricato pontificio, il vescovo di Pistoia Ottavio Abbioso, concernente il sequestro di una nave mercantile turca, effettuato anni addietro in acque veneziane dai cavalieri di S. Stefano, con conseguente negativa ricaduta non solo sui rapporti veneto-ottomani, ma anche tra la Repubblica e la S. Sede, la quale - in supporto al Granducato mediceo - aveva assunto il patrocinio dei cavalieri. Il G. era stato scelto per gestire la spinosa questione perché lo si sapeva in ottimi rapporti con le gerarchie ecclesiastiche, e in particolare con i gesuiti: in quegli anni, insieme con Giacomo Foscarini, Francesco Priuli, Giacomo Soranzo, egli figura costantemente fra i protettori della Compagnia.
Il 27 apr. 1585 il G. fu eletto ambasciatore d'obbedienza in occasione dell'elevazione di Sisto V al pontificato. Suoi colleghi furono Marcantonio Barbaro, Giacomo Foscarini e Leonardo Donà, le migliori emergenze sulle quali potesse allora contare la Repubblica: li accompagnava, per motivi di studio, l'architetto Vincenzo Scamozzi, cui era affidata la costruzione della Zecca nella piazza di S. Marco. I diplomatici conoscevano già il papa, che in precedenza era stato inquisitore del S. Uffizio a Venezia. Ognuno di essi viaggiò per proprio conto, dissero per trovare più facilmente alloggio al numeroso seguito; il 12 ottobre si ricongiunsero a villa Giulia, fuori delle porte di Roma, per farvi tutti insieme l'ingresso.
Solo apparentemente la missione rivestiva carattere di circostanza: c'erano in realtà da trattare questioni spinose, come la posizione del patriarca di Aquileia, Giovanni Grimani (appartenente ad altro ramo della casata), e problemi di rilevanza internazionale, che spaziavano dal pepe portoghese all'operato dei cavalieri di Malta. Ovviamente, nei pochi giorni della permanenza romana dei quattro diplomatici, questi problemi furono appena toccati: il loro compito consisteva infatti nel farli presente al papa, lasciandone poi la trattativa all'ambasciatore ordinario, Lorenzo Priuli. E così la legazione si ridusse a politica spicciola, ad avanzare raccomandazioni, suppliche, richieste di benefici ecclesiastici in favore di questo o quel prelato: oltre al patriarcato aquileiese (nell'occasione fu prevista la successione con la nomina a coadiutore di Francesco Barbaro, figlio dell'ambasciatore Marcantonio), c'erano in ballo le nomine del vescovo di Brescia e dell'abate di S. Zeno.
Sospettoso della montante influenza dei "giovani", fautori di una politica estera più dinamica e, in buona sostanza, antiromana, nell'udienza di commiato (23 ottobre), Sisto V pronunciò - dietro la copertura di un timbro volutamente confidenziale e dal tono quasi popolaresco - un chiaro elogio del comportamento osservato dalla Repubblica nell'ultima fase della guerra di Cipro (quando, cioè, erano ancora le case "vecchie" a guidare la politica della Repubblica); elogio accompagnato da un preciso richiamo all'inadeguatezza del suo apparato militare. Nella circostanza il termine di confronto erano gli Ottomani, ma verosimilmente il papa intendeva alludere ad altre potenze: bene aveva fatto Venezia a concludere la pace, a non fidarsi delle promesse di principi malsicuri, troppo spesso dissoltesi come nebbia al sole, perché, alla prova dei fatti, "chi va in qua, et chi in là; essa [Venezia] resta sola, et non ha forze uguali da resistere al Turco, il qual poi la pétena come madregna, all'insù".
Gli oratori lasciarono Roma in ordine sparso, com'erano arrivati: il G. partì il 25 ottobre, portando con sé, quale pegno della fiducia che la corte pontificia riponeva nella sua persona, un Agnus Dei d'oro, contenente una reliquia del legno della croce. Fece il viaggio insieme con il collega Leonardo Donà; poi tutti i quattro diplomatici si ritrovarono a Firenze il 2 novembre, onde assecondare il desiderio della granduchessa di Toscana, la famosa e famigerata Bianca Cappello, veneziana, che aveva fatto pervenire loro un'espressa richiesta in tal senso.
Non era possibile opporre un rifiuto all'intrigante, ma potente ex concittadina, e a malincuore gli ambasciatori sostarono due giorni a Firenze, formalmente per "addolcire et consolare" l'animo del granduca Francesco, e per tal via trovare un facile "opportuno rimedio alle cose passate", cioè alla questione dei cavalieri di S. Stefano, ma in realtà per soddisfare il desiderio della Cappello di venire aggiornata sulle novità del gran mondo veneziano, quel mondo che da fanciulla aveva appena intravisto e vagheggiato, senza però esserne partecipe.
Al ritorno in patria, il G. entrò subito (26 nov. 1585) a far parte dei Tre savi alle acque; quindi fu savio del Consiglio nel secondo semestre del 1586, e sopraintendente alle Decime del clero, dal 5 genn. 1587; il 21 sett. 1587, assunse il capitaniato di Padova, avendo per collega il podestà Giulio Contarini.
A Padova il G. si trattenne poco più di un anno, occupandosi del Monte di pietà, delle turbolenze che agitavano lo Studio e badando soprattutto ad assicurare i rifornimenti alla città nel momento in cui una generale carestia rischiava di intorbidire la sicurezza del paese. La gravità delle questioni relative allo Studio fu probabilmente esagerata ad arte dal G. nella sua corrispondenza con il Senato, mentre in realtà era in ballo - a Padova come a Venezia - il ruolo delle scuole gesuitiche; nel 1591, infatti, i padri avrebbero elaborato un progetto volto a potenziare il loro collegio universitario, in funzione chiaramente alternativa ai corsi del Bo: ma l'iniziativa naufragò, a motivo della controffensiva promossa dai docenti dello Studio e dell'ostilità manifestata da ampi settori del patriziato veneziano.
Nella relazione, letta in Senato il 4 febbr. 1589, il G. afferma di avere trovato "nel territorio di quella città […] i contadini che lo habitano in tanta povertà, che se non l'havesse veduta non l'haverei potuto credere"; tra le cause di tale situazione, le angherie dei "ministri della giustizia", che accrescevano la miseria dei villici indebitati, perseguitandoli con pretesti "per inobedienza". Qualcosa fece, il G., intervenendo sia nei confronti dei funzionari più rapaci, sia nel Consiglio cittadino, dove riuscì a frenare "li insolenti", i quali "facevano deliberar quello che più a loro piaceva", riorganizzando le procedure contabili della Camera fiscale. Naturalmente intrattenne buonissimi rapporti con il vescovo di Padova, cardinale Alvise Corner, ma anche con quei prelati che soggiornarono nella città, come l'arcivescovo di Parigi, Pierre de Gondi (Pietro Gondi), e il cardinale Ippolito Aldobrandini (futuro papa Clemente VIII), che nel giugno 1588 stava recandosi in Polonia come legato.
Il 1° apr. 1588 il G. era stato eletto procuratore di S. Marco de citra.
Poiché non aveva ricoperto incarichi particolarmente importanti, la nomina va con ogni probabilità ricondotta all'interno dei contrasti che allora dividevano i "vecchi" dai "giovani"; il fatto poi che la scelta fosse caduta sul G. mentre si trovava a Padova - ossia nel centro istituzionalmente deputato a ospitare la più elevata struttura pubblica d'istruzione e formazione, e che proprio allora stava avviandosi a rappresentare il simbolo dello scontro fra tradizionalisti e novatori (nel 1592 vi giungerà Galilei) - assume un'ulteriore valenza politica: non sarà senza significato il fatto che il G. non abbia allora ritenuto opportuno avvalersi della conseguita dignità per lasciare la carica di rettore e tornare a Venezia, ma abbia portato regolarmente a termine il mandato.
Provveditore sopra i Monti dal 18 febbr. 1589, nella seconda metà dell'anno il G. fu savio del Consiglio e in tale veste, insieme con Daniele Priuli, gli venne affidata la supervisione della costruzione delle prigioni nuove, che sarebbero poi state unite a palazzo ducale per mezzo del ponte dei Sospiri. Provveditore alle Artiglierie dal 3 apr. 1590, savio del Consiglio dal 1° luglio, il 20 settembre si trovò eletto, con Zaccaria Contarini, Leonardo Donà e Giacomo Foscarini, ambasciatore di obbedienza al nuovo pontefice Urbano VII.
Sennonché subito il papa si ammalò e morì di lì a qualche giorno, per cui la legazione non ebbe luogo; venne confermata nelle medesime persone, il 9 dicembre di quello stesso anno, per onorare il nuovo pontefice Gregorio XIV. Gli ambasciatori tardarono parecchi mesi prima di mettersi in viaggio, forse anche in considerazione delle notizie che circolavano sulla precaria salute del papa; quando poi si decisero a partire, la morte di Gregorio XIV sarebbe sopraggiunta prima che giungessero a Roma. Lasciata Venezia a bordo di una nave il 24 sett. 1591, percorsero la costa istriana e il 1° ottobre erano ad Ancona, dove sostarono per rimettersi dai disagi di una navigazione che era stata burrascosa; lì vennero informati dal collega ordinario presso la S. Sede, Giovanni Moro, della grave infermità del pontefice. Decisero di non proseguire oltre, anche perché l'incertezza politica aveva fatto piombare nell'anarchia lo Stato pontificio, dove molti fuorusciti stavano rientrando, e dove ottocento banditi - così gli ambasciatori, il 6 ottobre - apparivano decisi a "svaligiare la Santa Casa" di Loreto. Qualche giorno più tardi giungeva la notizia della scomparsa di papa Gregorio, e il 20 ottobre i quattro ricevevano da Venezia l'ordine di rimpatriare. Nonostante l'insicurezza delle strade, decisero tutti di non valersi della galera messa a disposizione dal Senato, preferendo ritornare per la via di terra, "con quel più cauto et sicuro modo che potremo" (dispaccio del 21 ottobre).
Una volta in patria, seppero che il conclave aveva innalzato al soglio di Pietro il bolognese Giovanni Antonio Facchinetti, che ben conosceva Venezia per avervi soggiornato come nunzio, una ventina d'anni prima. Il G. venne confermato nella rituale ambasceria straordinaria al nuovo pontefice, che aveva assunto il nome di Innocenzo IX, unitamente con Alberto Badoer, Leonardo Donà e Giacomo Foscarini, il 3 nov. 1591, ma ancora una volta la missione venne bloccata dalla repentina scomparsa del papa. Praticamente, da più di un anno la carriera politica del G. era assorbita da questa legazione romana, che si vanificava e si rinnovava senza sbocco apparente; finalmente questo circolo vizioso ebbe termine quando, all'inizio del nuovo anno, venne elevato al trono pontificio Ippolito Aldobrandini, con il nome di Clemente VIII.
Il G. era noto al nuovo papa, che ne apprezzava la lunga militanza nei ranghi della fazione senatoria favorevole alla S. Sede; perciò il veneziano si vide riconfermato ambasciatore d'obbedienza, il 14 marzo 1592, unitamente con Zaccaria Contarini, Leonardo Donà e Alberto Badoer (morto, quest'ultimo, il 28 aprile, prima che la legazione lasciasse Venezia, e sostituito da Federico Sanuto). Essendo mancato l'indomani, 29 aprile, anche l'ambasciatore ordinario presso la S. Sede, a fine maggio il solo Leonardo Donà (sicuramente fra i politici più abili e prestigiosi dei quali potesse disporre il governo marciano) fu inviato a Roma, precedendo i colleghi, per placare l'ira di Clemente VIII, adirato contro i Veneziani che avevano assoldato una banda di fuorusciti marchigiani guidata da Marco Sciarra, per impiegarli contro gli Uscocchi.
Gli altri componenti l'ambasceria (ai quali si aggiunse Paolo Paruta, destinato a restare in qualità di ordinario) giunsero a Roma soltanto il 10 ottobre, mentre a Venezia si respingeva la richiesta estradizione di Giordano Bruno; altre scottanti questioni erano rappresentate dall'atteggiamento veneziano nei confronti dell'"eretico" Enrico IV, e dalla minaccia turca contro gli Arciducali.
L'ingresso ufficiale avvenne senza la partecipazione del G., in preda a un attacco febbrile. Si era ammalato a Spoleto, ma per non mancare all'appuntamento con i colleghi aveva continuato il viaggio senza badare a curarsi; dovette così disertare le cerimonie e gli impegni diplomatici e mondani che tanto gli stavano a cuore, e che verosimilmente avevano costituito lo scopo precipuo della sua costante disponibilità, negli ultimi anni, a essere presente in tutte le ambascerie di omaggio destinate a Roma. Riuscì peraltro a partecipare all'udienza di congedo, avvenuta il 26 ottobre; il papa lo trattò con particolare benevolenza, raccomandandogli le sorti dei gesuiti di Padova, e in segno d'affetto gli regalò un'altra reliquia del legno della croce, che ora si conserva nella chiesa veneziana di S. Giorgio Maggiore. Nel viaggio di ritorno il G. fu a Loreto, dove raccomandò al cardinale Tolomeo Gallio il pittore Sante Peranda, che l'aveva accompagnato a Roma e che in seguito avrebbe avuto dallo stesso G. l'incarico di dipingere la battaglia di Giaffa nella sala dello Scrutinio, a palazzo ducale.
Savio del Consiglio nel primo semestre del 1593, il 18 settembre il G. era eletto fra i Cinque provveditori in Friuli, deputati a scegliere il luogo ove erigere la nuova fortezza di Palmanova, teoricamente in funzione antiturca, ma in realtà volta soprattutto a proteggere il confine orientale della Repubblica da eventuali minacce degli Arciducali. Questo testimonia che il G. possedeva anche buone nozioni di architettura militare; a conferma dei suoi notevoli interessi sul piano culturale, che troveranno la più ampia manifestazione negli anni del dogato, il 26 ott. 1593 il G. - come già si è avuto modo di accennare - entrò a far parte dei Riformatori dello Studio di Padova. In tale veste, nel febbraio 1594 chiamò alla cattedra di botanica (o dei semplici) il medico bassanese Prospero Alpino, che univa all'erudizione l'esperienza di un lungo soggiorno in Egitto.
Alle cure per lo Studio patavino il G. sommò altri incarichi: eletto conservatore del deposito in Zecca il 16 febbr. 1594, fu ancora savio del Consiglio per la prima metà dell'anno; il 4 aprile appoggiò i colleghi nell'inviare le congratulazioni della Serenissima a Enrico IV di Francia, per il suo ingresso a Parigi. La S. Sede era contraria, poiché avrebbe desiderato una preliminare riconsacrazione dell'ex ugonotto, ma in questo caso il G. agì da veneziano piuttosto che da cattolico; o forse, evitando di appiattirsi su posizioni troppo scopertamente filoromane, contava di fornire di sé un'immagine improntata a equilibrio e moderazione: il tutto, in vista di una possibile ascesa al dogato. Questa giunse un anno dopo, il 26 apr. 1595, mentre il G. era nuovamente savio del Consiglio.
Fu un lunghissimo scrutinio, nel quale il G. ebbe per concorrenti i procuratori Giacomo Foscarini (pure lui ritenuto su posizioni "papaliste") e Leonardo Donà, che gli era parente, ma schierato dalla parte dei "giovani". La candidatura del G., notoriamente bene accetto alla Sede apostolica e non sgradito alla Spagna, fu in qualche modo prevista e prevenuta dai correttori della promissione ducale, i quali nell'interregno seguito alla morte del doge Pasquale Cicogna (2 apr. 1595) stabilirono che al successore sarebbe stata tolta la facoltà di nominare i savi all'Eresia, per trasferirla al Senato. Molto contribuì all'elezione del G. il favore che il suo nome incontrava nel popolo, che dalla sua riconosciuta generosità sperava sostanziose elargizioni e un calmiere dei prezzi; al grido di "Viva el doge Grimani, che farà grossi i pani", nei giorni delle votazioni frotte di ragazzi percorsero la città, saccheggiando botteghe, rubando, bruciando.
Questo costrinse il neoeletto a non deludere le aspettative dei poveri, sicché la sua presentazione pubblica fu accompagnata da distribuzioni di danaro, pane e vino in quantità inusitata. Del resto, in mancanza di significativi eventi politici, prodigalità, magnificenza e sfarzo sarebbero stati i tratti caratterizzanti il dogato del G., il cui nome rimane legato a numerosi interventi decorativi all'interno del palazzo, ove portò anche alla massima espressione l'esaltazione formale della carica ducale.
Il G. abbellì anzitutto le stanze dell'appartamento del principe, promuovendo in particolare il rifacimento della sala che da lui porta il nome: il soffitto, riccamente ornato, è forse riconducibile a Biagio e Piero da Faenza, le tele alle pareti sono di Andrea Vicentino; fece apporre diversi quadri con la sua immagine, due dei quali sono presenti nella sala detta delle Quattro Porte: uno a soggetto religioso (il G. inginocchiato davanti alla Vergine, opera del tizianesco Giovanni Contarini), l'altro politico (il doge, attorniato dalla Signoria, riceve un'ambasceria dello scià di Persia, di Gabriele Caliari). Risulta anche effigiato nel quadro dipinto da Leandro Dal Ponte detto Bassano per la sala del Maggior Consiglio, raffigurante la consegna del cero al doge Sebastiano Ziani da parte di Alessandro III. Diede anche grande spazio alla musica, promuovendo la riorganizzazione della cappella Marciana, con rappresentazioni di cantate e pastorali, in genere patetiche, che accompagnavano le feste e i banchetti ufficiali che scandivano il fitto cerimoniale pubblico. Rientra nell'impronta scenografica che sottese il principato del G. la costruzione di un nuovo bucintoro e l'incoronazione della dogaressa, avvenuta - non senza l'opposizione di una parte del Senato - il 4 maggio 1597. L'evento si spiega facilmente alla luce dei grandi dispendi affrontati dalla Morosini per favorire l'elezione del marito e accompagnarne poi una gestione del rituale ducale improntata a sontuosità. Lo spettacolo di quella giornata - impreziosita dal dono pontificio della rosa d'oro - ci è conservato da diversi quadri e disegni: percorso il Canal Grande, il corteo acqueo si fermò davanti al palazzo Grimani a S. Luca, ove quattrocento dame facevano corona alla dogaressa, che si imbarcò alla volta di S. Marco; nel bacino, Vincenzo Scamozzi aveva allestito un edificio galleggiante, chiamato "Teatro del mondo", sorretto da pontoni in forma di balena e trascinato da quattro barche camuffate da pesci. In sintonia con il marito, anche la Morosini commissionò vari suoi ritratti, tra i quali spicca uno di Palma il Giovane che la ritrae col copricapo ducale, conservato al Museo Correr di Venezia.
Ma il decennio in cui si svolse il dogato del G. non fu solo esibizione scenografica; egli protesse letterati e uomini di cultura (fu dietro sua espressa richiesta che Girolamo Ramusio stese, nel 1597, la relazione da Napoli, peraltro mai letta in Senato e destinata alla esclusiva lettura del principe) e seppe autorevolmente mediare, nell'agosto 1596, nella controversia apertasi tra i "giovani" e i "papalisti" circa il completamento della Libreria e delle procuratie nuove.
Naturalmente, continuò a osservare una linea politica ispirata a quegli ideali che erano stati di un Gasparo Contarini: aspirazioni che parlavano di pace, neutralità, rifiuto di ambizioni di conquista, volontà di mantenere buoni rapporti con la Sede apostolica e la Spagna. Donde il conferimento del patriziato veneziano (27 genn. 1596) a Pietro, Cinzio e Giovan Francesco Aldobrandini, nipoti del papa, e il costante favore dimostrato nei confronti della Compagnia di Gesù: volle per confessore il padre Flaminio Ricchieri e si adoperò per la riapertura delle loro scuole a Padova e la creazione di altre nuove a Brescia.
Tuttavia lo spirito conciliante e lo zelo religioso del G. non giunsero mai a intaccarne l'alto senso della dignità ducale; anzi, fu proprio sotto il suo principato che toccherà l'apice la controversia sui poteri del doge quale capo assoluto della chiesa di S. Marco, da sempre ritenuta cappella privata del principe, con un clero e un primicerio la cui nomina spettava al doge. Tra il 1599 e il 1603 si svolse un duro contrasto che vide protagonisti il G. da un lato e, dall'altro, di volta in volta il vicario patriarcale (per questioni di precedenza) e gli stessi procuratori di S. Marco de supra (circa la giurisdizione della basilica marciana). Era, in qualche modo, in forme contenute, un'anticipazione dei molti temi di contrasto destinati a sfociare, nell'autunno del 1605, nel drammatico braccio di ferro fra Roma e Venezia, segnato dalla crisi dell'interdetto.
Molte nubi andavano allora addensandosi sulla Repubblica: a Clemente VIII era subentrato il risoluto Paolo V, la Francia sembrava disinteressarsi dell'Italia, mentre il governatore di Milano, Pedro Enríquez de Acevedo conte di Fuentes, aveva sbarrato la Valtellina; ma ad amareggiare gli ultimi mesi del doge fu soprattutto l'aggravarsi dei contrasti veneto-pontifici e la minaccia della scomunica.
In questa situazione di incertezza, il G. morì la notte fra il 25 e il 26 dic. 1605, "amalato di febre zà giorni quaranta".
Nel testamento, redatto il 1° sett. 1602, aveva ordinato di essere sepolto nella chiesa, alquanto decentrata, di S. Iseppo di Castello, dove stava ultimando la costruzione della tomba. Lì egli riposa insieme con la moglie (scomparsa qualche anno dopo, nel 1613), in uno splendido mausoleo, ornato di iscrizione e arricchito da bronzi e marmi, che si sviluppa attorno e sopra la porta laterale; l'architettura è di Francesco Bernardino Fossati, le sculture, con le statue del G. e della dogaressa, sono opera dei fratelli Girolamo e Giuseppe Campagna.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, IV, cc. 120, 123, 125, 134; Segretario alle Voci, Elezioni in Maggior Consiglio, regg. 4, c. 14; 5, c. 154; Elezioni in Pregadi, regg. 2, c. 13; 4, cc. 53, 104, 112; 5, cc. 5-8, 21, 30, 70, 105, 128, 150, 174; 6, cc. 1-5, 52, 60, 72, 103, 113, 114; Senato, Dispacci, Roma, ff. 19, nn. 104-106, 109-113, 115-116, 120 (ambasceria a Sisto V); 28, nn. 13-14, 19-21, 25-26, 33-34 (ambasceria a Gregorio XIV); 30, nn. 16-28 (ambasceria a Clemente VIII); Dieci savi alle Decime, Redecima del 1582, bb. 157/57; 157 bis/440; Notarile, Testamenti, b. 1249/I, cc. 177v-184v (testamento di Chiara Priuli, madre della moglie del G., Morosina, che il 7 febbr. 1574 nomina il G. suo commissario, b. 193/282); Avogaria di Comun, b. 159: Necrologi di nobili, 26 dic. 1605; G. 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