MARINO da Caramanico
MARINO da Caramanico. – Figlio di Antolino, nacque probabilmente nella cittadina (oggi Caramanico Terme, nel Pescarese) da cui prende il nome, intorno al 1240.
La fama di M. è legata alla glossa che appose alle Costituzioni di Federico II di Svevia e, in particolare, agli originali apporti che diede alla teoria della sovranità. Il Liber Augustalis, nome con cui è comunemente noto il Liber constitutionum Regni Siciliae, era già stato annotato ma, sin dal suo apparire, il lavoro di M. fu senza dubbio il più apprezzato e si impose come «ordinario».
Poiché Caramanico diede il nome anche ad altri giudici del Regno, attivi intorno agli stessi anni, si è supposto che tutti, compreso M., appartenessero a un’unica famiglia di giuristi (Monti, p. 101), e quanto al padre di M. ciò è stato sostenuto con buoni argomenti (Kiesewetter, pp. 361-363, 366). È stato ipotizzato che la nascita di M. dovesse porsi intorno al 1210, perché la glossa «causa custodiae» (Const. Rei vendicatione, I, 104) sembrava indicare in M. un allievo di Azzone. Ne sarebbe conseguito che egli avrebbe frequentato le scuole bolognesi negli anni Trenta (Capasso, p. 364*). La glossa citata è però, quasi certamente, tra quelle che M. attinse dall’apparato precedente. Le poche date sicure inducono piuttosto a posticipare la data. Maggiormente plausibile appare l’ipotesi che M. abbia studiato diritto a Bologna, sebbene nemmeno la circostanza che in alcune sue glosse si riferisca ai maestri bolognesi chiamandoli «doctores nostri» possa dirsi veramente decisiva in questo senso.
La prima indicazione biografica certa è la nomina di M. a giudice d’appello della Magna Curia (Kiesewetter, pp. 351-354, che corregge precedenti indagini di Capasso e Monti). L’atto, che prevedeva una retribuzione mensile di 3 once d’oro, è datato 7 maggio 1278. Dal marzo 1282 M. risulta inserito in pianta stabile tra i giudici della stessa Curia con uno stipendio mensile elevato a 5 once. Tale ufficio era da lui ricoperto certamente ancora nei primi mesi del 1285. Circa a metà di quell’anno, probabilmente per motivi di salute, M. dovette tuttavia dimettersi anzitempo da ogni carica pubblica. Nel giugno 1285, quale remunerazione per i servizi resi, fu infatti concessa a M. e ai suoi eredi una serie di proprietà e feudi in varie zone dell’Abruzzo per una rendita annua pari a 60 once d’oro.
M. va dunque considerato essenzialmente un pratico. Per quanto colto egli rimase pur sempre un giudice e non fu mai professore. Contrariamente a quanto si è spesso ripetuto, un suo insegnamento nello Studium napoletano è quasi certamente da escludere.
Calasso (1954, pp. 550 s. e 1957, pp. 158-160) lo ha creduto titolare di un insegnamento nello Studio di Napoli soprattutto in considerazione del fatto che in talune sue glosse M. ricorda i propri discenti («socii»). Contro la supposizione di Calasso (accolta successivamente da vari altri studiosi) pesano in maniera determinante sia la regola generale, che limitava i programmi scolastici al solo diritto giustinianeo escludendo quindi i corsi sui diritti locali, sia la documentazione superstite. È noto, in particolare, come i registri angioini siano solitamente precisi nell’attribuire la qualifica di professore a tutti coloro che avevano tenuto cattedra anche quando fossero successivamente passati ad altri incarichi. Diviene allora significativa la circostanza che vede il solo M. menzionato sempre come «iudex» e mai come «professor».
Il fatto che non abbia insegnato nello Studium non esclude tuttavia che M. abbia svolto privatamente qualche forma di insegnamento sul diritto regio. A un simile insegnamento si può anzi facilmente collegare l’elaborazione delle sue glosse. Nella medesima direzione spinge anche l’ipotesi maggiormente accreditata (Monti, Vallone) circa la datazione dell’apparato al Liber Augustalis, la cui stesura pare infatti doversi collocare in quel torno d’anni – tra il 1278 e il 1285 – in cui M. era attivo come giudice della Magna Curia.
L’apparato di M. si presenta come «novus» rispetto a un «apparatus vetus» formato principalmente dalle glosse di un misterioso G. o Gui. e di Andrea Bonello. Alla maniera di Accorso, M. attinse ampiamente ai precedenti glossatori, dei quali spesso conserva la sigla mantenendone l’attribuzione. Quale sia la reale consistenza dell’opera genuina di M. rimane una questione aperta, che potrà essere risolta solo con un’edizione critica. È tuttavia probabile che la gran parte delle glosse del suo apparato sia comunque frutto del suo personale ingegno.
Il commento delle singole costituzioni è di solito preceduto da una breve summa che ne riassume il contenuto. Segue quindi l’illustrazione dei singoli passaggi. M. ha cura talvolta di distinguere le costituzioni di Melfi (1231) da quelle aggiunte successivamente e dimostra anche qualche attenzione di tipo filologico. In più di un’occasione si sofferma a porre in rilievo le diverse lezioni presenti nei manoscritti da lui utilizzati e, nel caso talvolta, segnala la littera da preferire. Tiene poi a sottolineare differenze e concordanze del ius Regni con il diritto romano e anche con il diritto canonico e quello longobardo.
Nel commento, la soluzione di questioni via via emergenti e relative sia al merito sia alla procedura viene talvolta fornita sulla base del rinvio generico all’autorità dei giuristi bolognesi («nostri doctores»). In altri e più frequenti casi vengono invece richiamate precedenti decisioni della Magna Curia. È una circostanza che rende evidente l’inclinazione principalmente pratica della sua opera; inclinazione che M. stesso, del resto, non aveva mancato di esplicitare già nel proemio laddove, verso la fine, lamenta le interpretazioni maliziosamente oscure che qualche giurisperito non si fa scrupolo di proporre nei tribunali in dispregio alla chiarezza del dettato normativo. Richiamandosi all’esempio di Modestino, M. si propone di offrire invece soluzioni «in quotidiano causarum usu utiles» e capaci di ricondurre a perfetta consonanza quanto nella prassi veniva troppo spesso ingiustamente tacciato di ambiguità e oscurità (Proem., § 23, 15-25).
Il proemio al suo apparato, certamente successivo al 1278, è senz’altro la parte più apprezzata e studiata dell’intera opera, quella in cui vengono formulate le originali teorie sulla sovranità del rex Siciliae. Calasso, che ne ha curato un’edizione moderna, lo ha giudicato uno dei monumenti più insigni della letteratura dei glossatori e «primo esempio maturo di monografia giuridica» (1954, p. 550).
Il proemio è soprattutto incentrato sui delicati problemi relativi alla monarchia siciliana e ai suoi rapporti con le due autorità universali dell’Occidente medievale. M. si dimostra ancora profondamente permeato dello spirito e degli ideali dell’età sveva. Suo obiettivo primario sembra essere l’esaltare la dignità della monarchia meridionale e la sua effettiva autonomia dall’Impero come dal Papato, e l’equiparazione dei poteri del re di Sicilia a quelli dell’imperatore partono dall’accoglimento della famosa formula «rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator» che sin dall’inizio del secolo XIII si era andata ampiamente diffondendo nella dottrina giuridica. Il discorso viene però portato avanti in maniera così decisa e stringente da assumere significati del tutto nuovi e decisamente più avanzati rispetto a quelli dei giuristi e dei pensatori operanti presso le più importanti monarchie europee.
L’ostacolo principale che si opponeva all’affermazione della pienezza dei poteri del re di Sicilia era costituito dalla superiorità feudale che quest’ultimo riconosceva al papa sin dai tempi dell’infeudazione concessa a Roberto il Guiscardo (1057). M. supera la difficoltà distinguendo il concetto unitario, ma astratto, del Regnum dalla reale consistenza delle sue componenti: l’infeudazione papale avrebbe infatti riguardato il Regno inteso astrattamente come universitas. Sui singula corpora che quella universitas componevano (città, castelli, villae, ecc.) il pontefice non poteva invece vantare alcuna superiorità feudale e la temporalis iurisdictio spettava senz’altro al rex Siciliae nella sua interezza (Proem., §§ 12-16). La persistenza del vincolo feudale con la S. Sede finiva in questo modo per essere avvertita come un problema separato e sostanzialmente incidente sul solo piano privatistico e non su quello eminentemente pubblicistico rappresentato dal trasferimento della iurisdictio al re di Sicilia. Questa, per M., sarebbe stata conseguentemente piena ed esclusiva.
In relazione invece all’indipendenza del sovrano meridionale dalla potestà imperiale, M. si sofferma a considerare come l’Impero si sia formato a seguito di prevaricazioni e violenze e come sia pertanto legittimo che i popoli, un tempo ingiustamente assoggettati, rinneghino ora quella supremazia e riacquistino la libertà (Proem., §§ 17 s.). Il discorso di M. non si limita però alla sola rivendicazione della pienezza della potestà regia. Il riconoscimento di una realtà ormai caratterizzata dal pluralismo di ordinamenti indipendenti («superiorem non recognoscentes») prelude infatti all’individuare quali tra questi ordinamenti potessero veramente dirsi sovrani. M. si volge dunque a identificare i principali contenuti di una simile pienezza dei poteri.
Come all’imperatore, al re non soggetto a vincoli compete in primo luogo il potere legislativo (Proem., §§ 1-5). Sebbene circoscritta al solo territorio sul quale governa, la potestà normativa del re si estende anche alla possibilità di emanare provvedimenti contrari al diritto comune (Proem., § 3).
La seconda prerogativa che caratterizza la piena potestà regia è individuata da M. nell’esercizio della più alta giurisdizione. Al sovrano spetta certamente la giurisdizione d’appello nei confronti dei giudizi emessi da tutti i magistrati del Regno. Al contrario, avverso le sentenze del re – che «superiorem non habet» – non è ammesso appello di sorta. M., richiamando gli accordi tra la S. Sede e Carlo I d’Angiò al momento della salita al trono di quest’ultimo, esclude persino che si possa sollevare appello presso il pontefice se non per le cause di competenza del giudice ecclesiastico (Proem., § 21).
Terza fondamentale componente del potere regio è la potestà tributaria, che aveva consentito a Federico II di rendere il Regno siciliano forte e potente. M. sottolinea come tutte le prerogative e i privilegi garantiti in questa materia dalle leggi romane all’imperatore debbano intendersi estese anche al re (Proem., § 22). M. compie poi un passo ulteriore e, per primo e con forza, afferma l’assoluta imprescrittibilità dei diritti demaniali (gl. «censeatur» ad const. «Si dubitatio» [III.8]). Si tratta di un risultato innovativo solo all’apparenza, dal momento che M. lo fa discendere piuttosto dal favor regis che non dalla necessità di salvaguardare la funzione pubblica di quei beni. M., in sostanza, continua a muoversi all’interno della tradizione altomedievale della patrimonialità dei beni pubblici.
Le idee di M. appaiono spesso notevoli per acutezza e originalità. Nel disegnare il quadro giuridico entro cui si svolgono i rapporti del monarca siciliano con il papa e l’imperatore, M. si rivela al tempo stesso moderno nell’ispirazione di fondo ma anche altrettanto ben radicato nel Medioevo in taluni suoi spunti particolari. Certamente «moderno» è anche il suo atteggiamento contrario a ogni tradizione municipalistica tesa a salvaguardare i diritti delle città dal pesante intervento statuale (Colliva). Tutto medievale, al contrario, è il corollario della connotazione sacrale della sovranità del rex siciliano che M. fa discendere dal riconoscimento della pienezza di poteri di quest’ultimo e dalla sua equiparazione all’imperatore e che si concreta nella nota affermazione secondo cui «reges enim non sunt mere laici» (Proem., § 9).
La data della morte di M. dovrebbe collocarsi tra l’estate del 1285 e l’autunno del 1287: da un atto del dicembre 1287 si deduce che il padre fosse subentrato nel possesso dei feudi concessi a M. (Kiesewetter, pp. 362, 365-369).
La glossa di M. è conservata nei manoscritti: Biblioteca apost. Vaticana, Reg. Lat., 1948; Vat. lat., 1437; Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds lat., 4624; Valencia, Biblioteca universitaria, Lat., 417. L’editio princeps dell’opera di M. è in De legibus et consuetudinibus aliis antiquatis quae dicitur constitutio, per S. Riessinger e F. Del Tuppo, Neapoli 1475 (Hain, Repertorium, 5665; rist. anast. a cura di H. Dilcher, Glashütten 1973). Una moderna edizione del Proemio è stata curata da F. Calasso in appendice al suo I glossatori e la teoria della sovranità, Milano 1957, pp. 179-208.
Fonti e Bibl.: L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, I, Napoli 1787, pp. 212-214; B. Capasso, Sulla storia esterna delle Costituzioni di Federico II, in Atti dell’Acc. Pontaniana, IX (1871), pp. 379-502; G.M. Monti, Intorno a M. da C. e alla formula «rex est imperator in regno suo», in Id., Dai Normanni agli Aragonesi, Trani 1936, pp. 99-114; F. Calasso, Medio Evo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954, pp. 549-551; Id., I glossatori e la teoria della sovranità, Milano 1957, pp. 130 s., 143-148, 160 s.; P. Colliva, Ricerche sul principio di legalità nell’amministrazione del Regno di Sicilia al tempo di Federico II, I, Gli organi centrali e regionali, Milano 1964, pp. 70-75; E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medioevale, Roma 1966, pp. 1-70; G. D’Amelio, Indagini sulla transazione nella dottrina intermedia, con un’appendice sulla scuola di Napoli, Milano 1972, pp. 39 n. 45, 149-164; G. Vallone, Iurisdictio domini. Introduzione a Matteo d’Afflitto ed alla cultura giuridica meridionale tra Quattro e Cinquecento, Milella-Lecce 1985, pp. 177-182; K. Pennington, The prince and the law 1200-1600. Sovereignity and rights in the Western legal tradition, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1993, pp. 103-105; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, pp. 518-522; E. Cortese, Il rinascimento giuridico, Roma 1996, p. 96; W. Stürmer, Die Glossen zu den Konstitutionen, in Die Konstitutionen Friderichs II. für das Königreich Sizilien, a cura di W. Stürmer, Hannover 1996, pp. 43-58; M. Caravale, La monarchia meridionale. Istituzioni e dottrina giuridica dai Normanni ai Borboni, Roma-Bari 1998, pp. 201-219; A. Kiesewetter, Documenti vecchi e nuovi sulla vita di M. di C., in Studi per Marcello Gigante, a cura di S. Calmieri, Bologna 2003, pp. 347-370; E. Cortese, Scienza giuridica, in Federico II. Enc. fridericiana, II, Roma 2005, pp. 639 s.; L. Loschiavo, M. da C., ibid., pp. 278-280; M. Caravale, Alle origini del diritto europeo. Ius commune, droit commun, common law nella dottrina giuridica della prima Età moderna, Bologna 2005, pp. 66-71; Rep. font. hist. Medii Aevi, VII, p. 462.